Il tema delle fasi finali della vita oggi è diventato via via sempre più importante nel dibattito etico e politico sulle questioni di salute per due motivi principali. Il primo è di carattere economico e tecnologico, il secondo sociale-filosofico. Si vive sempre più a lungo attraversando diversi livelli di cronicizzazione delle malattie che colpiscono le persone nell’arco della loro vita.
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La tecnologia che abbiamo a disposizione in modo standardizzato per continuare a vivere è costituita da ausili molto avanzati ma anche facilmente accessibili in paesi come l’Italia perché garantiti a diversi livelli dal Sistema Sanitario Nazionale. I costi della gestione economica della cronicizzazione di patologie importanti sono elevati e per far fronte alle dotazioni di base si tiene in secondo piano la grande questione della qualità della vita, giungendo in alcuni casi al paradosso dell’obbligatorietà delle cure, somministrate anche con l’uso della contenzione chimica, meccanica e ambientale. La qualità della vita è un valore collettivo – oggi è considerato un desiderio individuale – per cui la vita in quanto tale è e rimane un valore comune, ma una vita buona, una vita soddisfacente, una vita di qualità è considerata un privilegio, un valore individuale, un di più che ciascuno può volere ma che si dovrebbe anche pagare. I processi di privatizzazione della salute passano anche attraverso alcuni dettami culturali, uno di questi è quello che separa la vita di qualità dalla vita in quanto tale.
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L’altro elemento che influisce in modo determinante nelle questioni etiche sul fine vita è dato dalla totale alienazione della morte dalla nostra prospettiva sociale. Il morto o chi sta per morire è un invisibile, un indesiderato. La morte – che fa parte della vita e del suo svolgimento – una volta considerata dai saggi come un punto di arrivo di una intera esistenza che andava vissuta con consapevolezza, è oggi un momento occultato e privato. Chi sta male, chi ha malattie inguaribili secondo la medicina attuale, chi vive processi di cronicità che lo portano ad essere gravemente disabile, è considerato una persona che non ha per sé e per gli altri alcuna utilità, una persona che ha bisogno di molte risorse per essere mantenuta in vita, una persona a perdere, come un guscio vuoto, attorno a lui si sviluppano processi di colpevolizzazione impliciti e sono noti a tutte e a tutti gli appellativi di “vegetale” che vengono dati per descrivere diverse e variegate condizioni di disabilità – dalla tetraplegia al coma vigile.
Buona morte o buona qualità di vita
Ragionare oggi sui processi che
riguardano la fine della vita significa, diversamente da quanto preso in
considerazione nei dibattiti incentrati su autodeterminazione delle
scelte ed eutanasia come buona morte, ragionare sui sistemi di welfare
sanitario che debbono garantire la qualità della vita a tutte le persone
per tutto il tempo in cui la loro vita è da loro stessi considerata degna di essere vissuta,
in una situazione di continuo monitoraggio sulle condizioni
psicologiche e di accettazione della malattia e sui desideri possibili e
realizzabili per le diverse condizioni di dipendenza che si vivono
nella vita. Non si può davvero sapere quando si è sani cosa si vorrà
rispetto alla propria vita in una situazione di molto mutata, la vita
può continuare e può essere di qualità se ci sono gli strumenti e se le
persone care sono messe nella condizione di poter vivere insieme alla
persona malata senza che questa sia una condanna alla povertà,
all’infelicità e alla fine della vita attiva di tutti.
Buona morte e rischio di eutanasia di stato e capitalista
Il rischio a cui siamo di fronte è di
enorme portata culturale. Sostenendo solo le proposte di eutanasia o
sviluppando una cultura solo incentrata sulla buona morte – senza
ragionare sulle cure materiali e sulle relazioni umane di cura per le
persone gravemente malate che vorrebbero o potrebbero essere sostenute,
curate e amate per poter ancora vivere – si accolga in modo passivo
quello che ormai è evidente come un diktat del capitalismo: il diritto
di vivere bene è solo appannaggio di chi se lo può permettere perché è
in grado di farlo economicamente1.
Non dimentichiamoci che il programma di eutanasia di stato del Nazismo,
che poi fornì la base per la Soluzione Finale di milioni di persone
(ebrei, zingari omosessuali, lesbiche, oppositori politici), nacque e si
sviluppò in un clima culturale-scientifico impregnato di eugenetica.
Era “eticamente” accettabile far terminare le sofferenze delle persone
considerate indegne di vivere perché profondamente danneggiate dalle
loro disabilità cognitive su base genetica e psichiatrica, presentate
come profondamente infelici. Ci furono genitori che portarono di persona
i loro figli a morire perché li amavano e non volevano più “vederli”
soffrire. Il carico della loro assistenza era presentato anche come peso
economico di un sistema di welfare che doveva sostenere chi non aveva
alcun valore per la collettività, soprattutto in un momento di crisi
economica e di investimenti delle risorse per tecnologie di guerra.
Consapevolezza, Consenso, Autodeterminazione
Oggi in Italia ci sono strumenti
legislativi che hanno al centro il rispetto delle decisioni personali in
merito alla fine della vita. La Costituzione Italiana nel suo Articolo
32, il Codice di Deontologia Medica, i testi scientifici e le prese di
posizione degli Ordini sull’accesso alle cure palliative e sulla
sedazione palliativa e continuata (terminale) sono ormai strumenti
fondamentali, molto noti e accurati in ambito sanitario e le prassi
cliniche che si svolgono sempre più in modo capillare sul territorio
nazionale li hanno recepiti. Il processo culturale che pone al centro il
rispetto della persona nelle fasi finali della vita è sempre di più
acquisito dalla classe medica e dalle professioni sanitarie. I punti
controversi di qualsiasi Legge che si voglia approvare su questi temi,
rimangono sempre relativi alle responsabilità e quindi al potere
decisionale in caso di emergenza o di rimozione di ausili vitali
impiantati in emergenza: il medico deve rianimare oppure NO un malato di
SLA che ha deciso di non accedere alla tracheostomia e alla
ventilazione meccanica? Anche se questa persona arriva in un reparto di
emergenza? Queste domande, dirimenti da un punto di vista penale, sono
questioni etiche di fondo che dividono e continueranno a dividere il
paese a livello ideologico se trattate come merci di scambio o
trasformate in baluardi identitari, invece di essere lasciate alla
conciliazione e alla definizione di percorsi individuali basati sulle
scelte, sui desideri e sul rispetto delle persone coinvolte. Quello che
una Legge sulle direttive anticipate di trattamento, anche la migliore
Legge possibile, continuerà a non risolvere è il fatto che se la
struttura del sistema sanitario, gestita su base regionale, continuerà a
finanziare l’attività di cura privilegiando gli Ospedali, sarà in grado
di sostenere solo marginalmente i servizi territoriali pubblici,
garantendo con difficoltà una gestione domiciliare di qualità alle
persone che sono alla fine della loro esistenza e a chi le assiste a
casa.
Senza piani di finanziamento di processi di continuità assistenziale per le persone inguaribili e vicine alla morte (che abbiano al centro i processi decisionali e quindi la comunicazione chiara e accurata di ogni momento di sviluppo della malattia) non è possibile portare ad un buon livello di sviluppo tutte le competenze di relazione di cura: tra pazienti, caregivers, medici di medicina generale, personale infermieristico e tecnico sanitario territoriale. E tali competenze sono fondamentali per garantire la qualità della vita fino al momento di accedere – per chi lo ha scelto – alla sedazione palliativa continuata e terminale, prima, ad esempio, che un problema respiratorio conduca direttamente in un Dipartimento di Emergenza e interroghi i medici sulla scelta di praticare la rianimazione e la tracheostomia, oppure no. Questo è il principale punto di criticità, sostanzialmente non risolvibile in termini definitivi da una Legge, se non con la depenalizzazione di alcuni reati.
Senza piani di finanziamento di processi di continuità assistenziale per le persone inguaribili e vicine alla morte (che abbiano al centro i processi decisionali e quindi la comunicazione chiara e accurata di ogni momento di sviluppo della malattia) non è possibile portare ad un buon livello di sviluppo tutte le competenze di relazione di cura: tra pazienti, caregivers, medici di medicina generale, personale infermieristico e tecnico sanitario territoriale. E tali competenze sono fondamentali per garantire la qualità della vita fino al momento di accedere – per chi lo ha scelto – alla sedazione palliativa continuata e terminale, prima, ad esempio, che un problema respiratorio conduca direttamente in un Dipartimento di Emergenza e interroghi i medici sulla scelta di praticare la rianimazione e la tracheostomia, oppure no. Questo è il principale punto di criticità, sostanzialmente non risolvibile in termini definitivi da una Legge, se non con la depenalizzazione di alcuni reati.
Siamo per percorsi di buona cura in cui la fine della vita sia parte della vita
Occorre promuovere una campagna di
maggiore sensibilizzazione per programmi politici di welfare sanitario
che abbiano al centro la ridistribuzione delle risorse sul territorio
per favorire economicamente lo sviluppo da parte dei contesti
socio-sanitari diversi, di percorsi di buona cura in cui la fine della
vita sia parte della vita e sia affrontata da tutti gli attori in modo
consapevole e qualitativamente soddisfacente. Questo è possibile solo di
fronte a relazioni di cura in cui ci sia una distribuzione di potere e
di responsabilità in merito alle scelte e questo si costruisce solo in
termini orizzontali, tra persone che si conoscono, si incontrano, si
confrontano e decidono insieme in un clima di mutua fiducia. Solo questo
sarà il modo per portare a termine un percorso legislativo e una
programmazione che avrà come obiettivo la più corretta distribuzione
delle risorse e il maggiore rispetto per le scelte di ciascuna e di
ciascuno, che sono sempre scelte svolte in un dato contesto relazionale,
sociale ed economico.
1 Il
neoliberismo prevede anche un diritto alla cura solo per chi si è
comportato bene, non danneggiando la propria salute (evitando fumo,
alcol, droghe, eccessi alimentari, sedentarietà) dimenticando i
determinanti delle malattie insiti nell’ambiente di vita e lavoro
(inquinamento dell’aria, acqua, alimenti, stress lavoro correlato,
infortuni ecc.); sarà questo uno dei motivi per cui non si investe nella
vera prevenzione?
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