Commentare a caldo il bombardamento missilistico
statunitense sulla base aerea di Shayrat della notte del 7 aprile è
azzardato - non sapendo cosa accadrà in seguito - ma non inutile,
quantomeno per cercare di capirci un po' di più rispetto alle lezioncine
preconfezionate che i corifei degli Stati Uniti, in Italia e fuori, si
sono affrettati a recitare. Per combinazione l'esibizione muscolare di
Trump avviene poco dopo la pubblicazione su Utopia Rossa di un nostro articolo
il cui nocciolo era la sostanziale inutilità del diritto
internazionale, visto che le grandi potenze lo violano di continuo.
Ebbene, ancora una volta gli Stati Uniti hanno agito in applicazione del
"loro" diritto internazionale, composto da un solo articolo, animato da
una chiara logica imperialista unipolare: facciamo quel che ci pare, e
quel che facciamo è giusto e legale e i nostri massacri sono semplici
"danni collaterali".
Ancora una volta è emersa la totale inutilità delle
Nazioni Unite, anche se a dirlo espressamente sono ancora in pochi;
tuttavia è innegabilmente ridicolo (seppur tragico) il fatto che mentre
al Consiglio di Sicurezza si perdeva tempo con le bozze di risoluzione,
dal canto loro gli Stati Uniti lanciavano missili con la scusa di
un'asserita responsabilità del governo di Damasco per il gas nervino a
Idlib. Certo è che se l'Onu chiudesse i battenti nessuno se ne
accorgerebbe, a parte i risparmi monetari degli Stati membri. E tanto
per cambiare si è sostenuta un'accusa assolutamente senza prove, in base
al principio dixit Washington, et de hoc satis. Ha tutta l'aria di un bis
delle asserite "armi di distruzione di massa" di Saddam. Per inciso,
chi sia abituato a pensar male non si stupisce della contemporaneità fra
l'attacco missilistico e un'offensiva dell'Isis sulla strada Palmira
(Tadmur)-Homs, per fortuna rapidamente respinta dalle truppe siriane.
Poiché le prove non esistono, si può intanto riflettere
in modo generico sull'uso del gas a Idlib. Secondo l'Onu i depositi di
armi chimiche di Damasco erano stati distrutti; ma pur ammettendo e non
concedendo che il governo siriano abbia ancora armi del genere,
considerato che qualche anno fa la questione sembrava far precipitare le
cose nel senso di un attacco statunitense - sventato solo
dall'intervento russo in favore dello smantellamento dei depositi
chimici - allora il consolidato (anche se non infallibile) criterio del cui prodest
porterebbe a escludere la responsabilità di Damasco, salvo considerare
Assad & C., ma anche lo Stato maggiore russo, un manica di idioti.
Infatti era ovvio che - protezione russa o no - se costoro avessero
usato armi chimiche, un fumantino come Trump (oltretutto alle prese con
irrisolti problemi di Russiagate e tenuto sotto scacco dall'establishment "neocon") avrebbe dovuto prendere una qualche iniziativa bellicista.
Si prenda nota che, riguardo ai fatti di Idlib, nessuno
ha ricordato che in precedenza i Russi avevano allertato gli Usa sul
fatto che i cosiddetti "ribelli moderati" erano ancora in possesso di
armi chimiche. Ma non pare che quella segnalazione li avesse turbati più
di tanto.
Dal punto di vista tecnico-militare non è che il lancio
di missili vada considerato un grande successo: su 59 ordigni, soltanto
23 hanno colpito il bersaglio, la base aerea siriana è danneggiata ma
non distrutta, e infine la maggior parte degli aerei (o perché ritirati
in anticipo per intuizione, oppure perché protetti dai bunker) è salva.
La stampa filostatunitense sostiene che in realtà l'azione missilistica
non doveva essere più di un ammonimento, per non chiudere
definitivamente le porte verso Mosca e Damasco. Sarà.
A non essere salve, invece, sono le speranze di pace, non
essendo noti gli attuali piani tattici di Washington sul Vicino Oriente
- mentre quelli strategici lo sono da tempo: balcanizzazione.
Se Trump ha voluto dimostrare di essere un vero "duro" - a
differenza di Obama - è tuttavia innegabile che Putin non può perdere
la faccia (e non solo per questioni di orgoglio), cosicché il rischio di
uno scontro sul campo fra Russia e Stati Uniti è più concreto che mai,
ma le Forze armate russe, grazie al vasto programma di modernizzazione
tecnologica messo in atto da qualche anno, non sono più quelle del tempo
di Eltsin. Le speculazioni giornalistiche sulla possibilità che Mosca
"molli" Damasco appaiono più un desiderio che una realtà, a motivo dei
consolidati interessi geostrategici russi nella zona. Le ombre a dir
poco sinistre continuano comunque a gravare. Asetticamente molti organi
di stampa comunicano che i "ribelli" di Siria (in realtà per lo più
invasori stranieri) invocano la totale distruzione dell'aviazione
siriana, senza notare che questo comporterebbe due tragici risultati: il
sicuro scontro diretto con la Russia e l'indebolimento delle Forze
armate siriane di fronte al jihadismo.
Dicendolo francamente, a prescindere da quanti trovino la
cosa sgradevole, se nel frattempo fosse emersa un'alternativa ad Assad,
politicamente e militarmente credibile (innanzitutto per la Siria),
vari problemi si ridurrebbero. Ma così non è e allora, piaccia o no, il
crollo del governo di Damasco significherebbe abbandonare la Siria a
Isis e al-Qaida, oppure far scomparire il paese dalla carta
geografica, polverizzandolo in una miriade di staterelli senza peso
politico ed economico, e alla mercé del primo che arriva. Non è da
escludere che in certi ambienti occidentali lo si voglia.
Tralasciando (per scaramanzia) l'ipotesi dello scontro
diretto fra militari russi e statunitensi, e ipotizzando altresì che il
bombardamento in questione abbia costituito la classica una tantum,
senza mutare di molto la situazione sul campo, tuttavia, se resta
l'intenzione statunitense di non lasciare campo libero alla Russia in
Siria, c'è da chiedersi cosa potrebbe fare Trump, e con quali possibili
alleanze, per imporre una sua soluzione alla crisi siriana. Sempre
infischiandosene di tutto, egli potrebbe aumentare la presenza di truppe
statunitensi sul terreno per arrivare quanto prima alla conquista di
Raqqa, la capitale del "califfato" Isis. A questo fine Washington
avrebbe tuttavia bisogno di una copertura aerea maggiore di quella di
cui dispone oggi in loco: il che vorrebbe dire instaurare una no-fly zone
(ma la Russia quantomeno si opporrebbe, se non peggio), oppure gli
Stati Uniti dovrebbero trattare con Mosca, che forse non escluderebbe
Assad, visto che la presenza russa in Siria è avvenuta su richiesta del
governo di Damasco, internazionalmente riconosciuto. E allora?
Sul piano delle alleanze, a ben guardare - e ferma
restando la citata assenza di alternative ad Assad - non viene in mente
molto, a parte la teorica carta curda, che poi si riduce alle milizie
curde di Siria. Infatti, tenuto conto della precisa realtà jihadista dei
"ribelli moderati", l'alleanza formale con essi per delineare una
"nuova Siria" sarebbe tanto un atto di onestà quanto una scelta
sicuramente impolitica; pertanto la si potrebbe ragionevolmente
escludere. Restano quindi i Curdi, ma dopo averli utilizzati Trump
potrebbe al massimo concedere loro soltanto una zona fortemente autonoma
in territorio siriano, insufficiente però ai fini di un ampio piano di
riorganizzazione del paese. In aggiunta a questa pochezza ci sarebbero
da mettere in conto le prevedibili reazioni turche - con ricadute sul
fronte sud-orientale della Nato - ma anche quelle dell'Iran e dello
stesso governo di Damasco.
Inoltre c'è da domandarsi se gli stessi Curdi ci
starebbero. La storia del popolo curdo è ricca di alleati opportunisti e
aleatori che al momento (per loro) opportuno si defilano e lo lasciano
esposto a ogni possibile rappresaglia; il che, nel caso in ispecie,
potrebbe accadere dopo la conquista di Raqqa. Conquista che è ancora di
là da venire, visto anche il precedente di Mosul, ancora non conquistata
per la tenace resistenza dell'Isis (a proposito, qui le stragi fatte
dall'aviazione Usa non suscitano emozioni internazionali).
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