Donald Trump in Arabia Saudita, 21 maggio 2017 © Jonathan Ernst |
L’improvvisa rottura dei rapporti diplomatici col Qatar
decisa da Arabia Saudita, Bahrein, Emirati del Golfo e Yemen innesca una
crisi dagli esiti non facilmente prevedibili e rischia di essere un
gran pasticcio tanto per chi l’ha voluta quanto per il più che probabile
coprotagonista dietro le quinte: gli Stati Uniti. Non è azzardato
sostenere che questa situazione esplosa a breve distanza dalla visita di
Trump in Arabia Saudita vada collegata proprio con questo viaggio. In
tale occasione il presidente Usa ha assunto due posizioni solo
formalmente contraddittorie, ma che nella sostanza rivelano l’esistenza
di un preciso disegno di ulteriore destabilizzazione nell’area.
Da un lato egli si è prodotto in esternazioni contro il
terrorismo jihadista, ma da un altro ha indicato nell’Iran il suo grande
nemico. Quindi per un verso si è schierato con quella Arabia Saudita
che ha diffuso nel mondo e alimentato il vero brodo di coltura di quel
terrorismo, cioè il radicalismo islamico wahhabita, e per un altro se la
prende con l’Iran che di quel terrorismo non è diffusore, non
foss’altro perché il jihadismo è sunnita mentre lo Stato iraniano è
sciita. L’Iran c’entra eccome nella crisi qatariota, ma non come unico
fattore. La questione è complessa e va in qualche modo inquadrata.
Nell’ottica di Trump si deve porre rimedio a due “errori”
commessi dagli Stati Uniti nel Vicino Oriente: il primo consiste
nell’abbattimento del regime di Saddam Husayn, con la conseguenza di
aver permesso di acquisire potere alla maggioranza sciita irachena,
estendendosì così l’influenza iraniana nella regione, ampliatasi poi con
la crisi siriana; il secondo sta nello “sdoganamento” dell’Iran
compiuto dall’amministrazione Obama con il raggiungimento di un accordo
con Teheran sulla questione del nucleare. Il logico esito di ciò sta per
Trump nel rafforzamento dei legami con Israele e l’Arabia Saudita.
Da questo punto di vista il Qatar diventava un obiettivo a
motivo della sua politica ambigua e opportunista. Al vertice di Riyad
del 20 e 21 maggio scorsi il governo di questo piccolo Stato non ha
manifestato adesione ai programmi dei Sauditi - condivisi da Trump - e
in più i media qatarioti hanno diffuso le infiammate
dichiarazioni dell’emiro Tamim bin Hamad al-Thani contro le decisioni di
quella riunione: vale a dire le linee contrarie all’Iran, ai Fratelli
Musulmani e al movimento palestinese Hamas, due organizzazioni che il Qatar sostiene e finanzia.
A ciò si aggiunga che il Qatar mantiene ottimi rapporti
politici e commerciali con l’Iran. La mancanza di omogeneità religiosa e
ideologica tra Doha e Teheran è del tutto irrilevante, sia perché le
politiche orientali hanno logiche particolari - e infatti il Qatar è,
non da ieri, notorio sostegno del jihadismo in Siria e Libia - sia
perché gli interessi economici hanno il loro peso, e infatti il Qatar
condivide con l’Iran anche lo sfruttamento di un ricchissimo giacimento
di gas offshore, il South Pars/North Dome; già questo è
sufficiente perché il Qatar non possa rompere le sue relazioni con
Teheran: i due paesi traggono da quel giacimento oltre i due terzi della
rispettiva produzione di gas.
Contemporaneamente il Qatar ospita la sede del quartier
generale statunitense nel Vicino Oriente, il Centcom, in cui sono di
stanza almeno 10.000 militari. La politica araba è a volte doppia, a
volte tripla.
Nella situazione attuale la posizione eccentrica del
Qatar rispetto agli interessi politici degli altri paesi della Penisola
arabica non poteva restare senza conseguenze: in Siria e in Iraq,
infatti, i jihadisti sono prossimi alla sconfitta, e le monarchie arabe
si sono affrettate a “riposizionarsi”, allineandosi agli Stati Uniti
come se non avessero mai appoggiato il radicalismo jihadista e
riscuotendo il prezzo del voltafaccia in pingui aiuti militari Usa. Il
Qatar invece insiste nel voler giocare in proprio.
È sempre difficile all’inizio di una crisi internazionale
escludere oppure no che alla fine la parola passi alle armi, e per il
momento si può solo prendere atto come la nota emittente televisiva
qatariota Al Jazeera abbia modificato il linguaggio riguardo alla
Siria, parlando per la prima volta di «esercito governativo» o
«esercito siriano» a proposito delle truppe di Assad, finora definite
«truppe del regime»; inoltre, a motivo dell’avvenuta chiusura dell’unico
confine terrestre (quello con l’Arabia Saudita), a Doha viene ventilata
l’ipotesi - più che probabile - di aumentare i commerci via mare con
l’Iran. Tuttavia non è affatto scontato che il Qatar entri a far parte
del blocco iraniano: il farlo significherebbe anzi, con tutta
probabilità, la guerra.
Iran a parte, la contrapposizione fra Arabia Saudita e
Qatar non ha nulla a che fare con l’ideologia religiosa, trattandosi di
due Stati wahhabiti. Il contrasto è politico e personale, e ha radici
lontane: già nel 1955, quando in Qatar il padre dell’attuale emiro prese
il potere con un colpo di Stato, l’Arabia Saudita arrivò a chiedere
all’Egitto di Mubarak un intervento militare contro l’usurpatore, senza
però ottenerlo.
Quando poi al-Sisi rovesciò il presidente Morsi col
sostegno saudita, si ebbe una breve sospensione dei rapporti diplomatici
fra Riyad e Doha, che invece sosteneva i Fratelli Musulmani. L’appoggio
qatariota a quest’ultima organizzazione non è mai cessato ed essa, per
quanto non definibile ostile a priori al Wahhabismo, è però acerrima
nemica politica della monarchia saudita - oltre che degli attuali regimi
egiziano e siriano.
In più l’Arabia Saudita accusa da tempo il Qatar di
fornire sostegno attivo alle minoranze sciite nei territori di Riyad e
nel Bahrein, e questo getta ombre pericolose sullo Yemen, in cui i
Sauditi si sono impantanati in una guerra contro i ribelli Houthi
(sciiti), conflitto che finora non sono riusciti a vincere neanche con
l’aiuto statunitense.
In definitiva, quella che doveva essere la “Nato araba”
voluta da Washington è morta prima ancora di nascere, e la conseguenza
potrebbe essere una grande instabilità in tutto il Golfo Persico. Trump
ha voluto giocare una carta pericolosa e non ci sarà da stupirsi se
ancora una volta i malaccorti tentativi statunitensi di
destabilizzazione andranno a loro sfavore. Soprattutto se fosse vero che
Trump punta a uno scontro militare con l’Iran.
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