STATO E NAZIONE NEL VICINO ORIENTE
di Pier Francesco Zarcone
L'IMPERIALISMO FRANCO-BRITANNICO E IL CAOS ODIERNO
Per capire in qualche modo l'attuale caos nel Vicino
Oriente bisogna risalire ai primi degli anni '20 del secolo scorso,
quando dopo la Grande Guerra alcuni politici occidentali (Lloyd George,
Clemenceau, Churchill) ridisegnarono la mappa di quella parte di mondo.
Giustamente si dice che crearono degli Stati artificiali; tuttavia
questa caratteristica viene meglio espressa dal concetto di "comunità
immaginate", cioè carenti di storia nella loro forma attuale (con una
certa eccezione per la Siria): per esempio, la storia della Mesopotamia
non è la stessa cosa della storia dell'Iraq.
In relazione a questo non è casuale che oggi nel Vicino
Oriente non manchino quanti collocano la cosiddetta "rivolta araba"
dello Sharif hashimita della Mecca, Husayn, dei suoi figli Faysal
e Abd Allah e di T.E. Lawrence, tra le cause prime delle attuali
disgrazie. Infatti la proposta ricevuta da Gran Bretagna e Francia per
appoggiare una rivolta araba contro gli Ottomani e poi costituire uno
Stato arabo indipendente fece intendere agli Alleati che esistesse un
nazionalismo arabo da loro sfruttabile. È nota la successiva sequenza di
illusioni e tradimenti imputabili a Londra e Parigi, ma quel
convincimento rimase, al di là dei differenti modi di procedere di
ciascuna delle due potenze: la Gran Bretagna in qualche modo cercò di
"salvare capra e cavoli", cioè di realizzare i propri interessi
imperialistici mediante la creazione di entità statuali arabe,
sottoposte al suo controllo indiretto; mentre la Francia preferì il
controllo diretto sulla Siria, frantumandola nella Siria attuale e nel
Libano. L'obiettivo di entrambe le due potenze rimase quello di condurre
all'indipendenza formale entità statuali adeguatamente plasmate e
ammorbidite.
Per quanto riguarda l'intervento della Gran Bretagna,
avendo come presupposto - errato - l'esistenza di un diffuso
nazionalismo arabo, la sua azione imperialistica fu accompagnata
dall'illusione che fosse sufficiente aver costituito tre nuovi Stati
arabi dalla disgregazione ottomana: Higiaz, Transgiordania, Iraq (il
primo sarebbe stato ben presto annesso ai domini di Abd al-Aziz ibn
Saud, cioè all'odierna Arabia Saudita). La situazione nel Vicino Oriente
e le sue dinamiche - in realtà ignorate dai britannici - erano assai
più complesse, e le difficoltà cominciarono subito.
Nonostante le illusioni britanniche, il nazionalismo
arabo era l'ideologia di una minoranza di intellettuali urbani non
radicati nelle masse, con una non secondaria presenza di Arabi
cristiani: non averlo capito fece ritenere (sbagliando) che la Nazione
potesse prevalere - per sua forza unificante - sulle religioni, sulle
etnie, sulle tribù. La storia avrebbe dimostrato il contrario. In realtà
l'unica componente del Vicino Oriente in cui sulla religione possa
prevalere il dato linguistico (insieme a quello etnico) è la popolazione
curda.
Eppure avrebbe dovuto costituire un campanello d'allarme
il dato quantitativo (molto scarso e a pagamento) della partecipazione
araba alla ribellione antiottomana (significativa diserzione di truppe
non ve ne fu, e solo alcuni ufficiali arabi prigionieri aderirono alla
rivolta) e la sua effettiva incidenza militare che, pur includendovi la
presa di Aqaba, si ridusse a qualche azione di guerriglia e di
sabotaggio, tutto sommato ininfluente sullo sforzo bellico alleato nel
fronte del Sinai. (Se si sfugge alle rodomontate di T.E. Lawrence, salta
all'occhio che i ribelli arabi nemmeno riuscirono a prendere Medina -
tenuta dalle truppe ottomane fin dopo la cessazione delle ostilità - e
che il loro ingresso a Damasco prima delle truppe alleate fu dovuto solo
alla sensibilità politica del generale Allenby, che scelse di inebriare
gli irregolari hashimiti col solo fumo di un "arrosto" che non
arrivarono a mangiare.) In definitiva, tenuto conto delle proporzioni,
sarebbe meglio parlare di "rivolta hashimita", e basta.
In Transgiordania le cose non andarono male per i
britannici: Abd Allah ibn Husayn ne diventò emiro sotto il protettorato
di Londra e il suo staterello rimase il più stabile nella costruzione
postbellica del Vicino Oriente. Lo stesso non può dirsi né per il Libano
né per la Siria né per il nuovo Stato dell'Iraq. Quest'ultimo fu
costituito mediante l'accorpamento delle tre provincie ottomane (vilayetler)
di Baghdad, Basra (Bassora) e Mosul poste sotto la corona data a Faysal
ibn Husayn. Sembrava la mossa giusta: il nuovo Re, principe arabo e
alla testa della rivolta antiottomana, apparteneva alla stessa famiglia
del Profeta ed era figlio dello Sharif custode dei Luoghi Santi. E
invece no. Infatti Faysal era sunnita e per la maggioranza sciita della
popolazione del suo regno la sua discendenza dal Profeta era un
insufficiente formalismo, giacché per lo Sciismo essere "della famiglia
del Profeta" (ahl al-bayt) significa "discendere da Fatima e
Ali", cioè dalla figlia di Muhammad e dal primo Imam degli Sciiti. In
conclusione, per la maggioranza dei nuovi sudditi Faysal mancava di
legittimità (innanzitutto religiosa).
Proprio il problema della legittimità sarà (è) centrale in paesi come Iraq, Siria e Libano.
Quanto dianzi detto non vuol negare che a un certo punto
anche nel Vicino Oriente si sia diffuso il virus nazionalistico; più
semplicemente vuole introdurre due elementi specifici che non sono stati
affatto privi di conseguenze: innanzitutto il "nazionalismo arabo" non
ha mai raggiunto una definizione (o direzione) univoca, frammentandosi
cioè tra sostenitori del panarabismo o del nazionalismo locale, per poi
influire altrettanto confusamente su quelle confuse costruzioni a cui si
dà il nome di "socialismo arabo". In ogni caso, tuttavia, funse da
momentanea formula politica contro l'imperialismo occidentale.
Il secondo aspetto consiste nel non aver mai realmente
attecchito tra le masse popolari sì da diminuirne l'influsso della
religione. D'altro canto non ne aveva la forza intrinseca.
L'IMPOSSIBILE NASCITA DI NAZIONI SENZA BASI
A parte la particolare situazione storica e culturale
dell'Egitto, è assai arduo individuare gli elementi "classici" della
Nazione in entità come Siria, Libano e Iraq, i cui territori per una
moltitudine di secoli e secoli sono stati inquadrati - e al loro interno
suddivisi - come circoscrizioni amministrative di più vasti imperi
multietnici e multireligiosi (da ultimi, l'Impero mamelucco e quello
ottomano).
Tanto per non andare molto indietro nel tempo, ci
limitiamo a questi ultimi due Imperi, per rilevare che si limitarono a
imporre l'obbedienza al Sultano di turno, il cui potere semplicemente si
sovrapponeva alle preesistenti - e ben più "naturali" - lealtà
identitarie locali (religiose, etniche, tribali e famigliari), lealtà
rimaste quindi con tutta la loro forza accumulata nel tempo.
Per nessuno dei tre casi in questione può parlarsi di
"Stato nazionale", per cui era consequenziale che, trattandosi di entità
elevate a Stato ma senza basi effettive, all'atto pratico per
governarle non bastassero poteri centrali semplicemente definibili
"forti": ci volevano governi dispotici, perché la democrazia avrebbe
mandato a rotoli tutta la costruzione, dimostrando - come nella favola
di Andersen - che "il re era nudo", non foss'altro per il semplice
motivo della mancanza del "cittadino" ostile alla sudditanza.
In Siria, Iraq e Libano il cosiddetto cittadino da un
lato è suddito dello Stato, e dall'altro è parte (suddito) di reti
locali di lealtà che non si riferiscono né allo Stato né al partito
dominante né ai vari partiti esistenti (come in Libano). Ne consegue che
la sudditanza allo Stato non realizza una forza identitaria comparabile
con quella delle altre appartenenze.
In più, i nuovi Stati - volendo (ma anche dovendo) agire
da Stati moderni - sono apparsi come portatori di modernizzazioni
forzate, il più delle volte dalla portata ridotta, che tuttavia nei
rispettivi contesti multietnici, multireligiosi e (come in Iraq)
multilinguistici, hanno pericolosamente insidiato le tradizionali
influenze, autorità e strutture, portando da un lato a sviluppare dei
"nazionalismi locali" e/o di gruppo, e dall'altro a mettere a
disposizione dello Stato reti di influenza tradizionali, col risultato
di controbilanciare gli iniziali sforzi del potere centrale per il loro
contenimento, creando situazioni ancora irrisolte.
In merito ai partiti politici del Vicino Oriente, è ormai
fenomeno diffuso la perdita delle caratterizzazioni ideologiche
originarie (quando ci sono state), che hanno rapidamente perso
d'importanza dopo la presa del potere, tutto diventando funzionale agli
interessi dei gruppi dominanti all'interno di ciascun partito e delle
sue clientele. Ovviamente il solo "progetto politico" rimasto è quello
del mantenimento del potere. A maggior ragione nei partiti "personali".
Si aggiunga che questi partiti non hanno mai costituito centri di
dibattito politico, bensì di mera obbedienza alle decisioni prese dai
vertici. Lo stesso discorso vale, mutatis mutandis, per i partiti
etnici e religiosi, soprattutto se conquistano il potere. La situazione
peggiore, al riguardo, si ha in Libano, dove la Francia ha lasciato un
avvelenato assetto istituzionale basato su una lottizzazione religiosa,
oltretutto per lungo tempo ancorata ai dati di un censimento fatto
all'epoca del Mandato.
In Siria e Iraq il potere statale ha avuto modo di
affermarsi con maggior forza, ma a fronte di questo la società civile si
è dovuta lasciar annichilire dallo Stato senza poter fornirgli
effettivi apporti politici, almeno fino a che lo Stato non è incorso in
sconfitta bellica o grave crisi interna.
Nei tre paesi sopra menzionati un ulteriore ostacolo a
che lo Stato diventasse forza unificante è costituito dalla presenza di
forti diversità religiose ed etniche da secoli divise da odi e
spargimenti di sangue. In genere i media accennano alle
conflittualità tra Cristiani e Musulmani, o fra Sunniti e Sciiti,
rimanendo però ignote quelle tra le diverse Chiese cristiane, la cui
virulenza non è sempre di minor grado.
Finché quei territori erano strutturati in ripartizioni
amministrative di entità superiori, la situazione nel complesso teneva: a
volte bene, a volte male. Tutto è cambiato con le formazioni statali
volute da Gran Bretagna e Francia; Stati assimilabili a contenitori non
già di mosaici (che implicano un'armonia di insieme), bensì di insiemi
non amalgamati di tessere; e mancando le condizioni per assetti
democratici era ovvio che le rispettive popolazioni (eterogenee)
finissero governate da minoranze, non tanto politiche quanto religiose
e/o etniche, per giunta insensibili ai "diritti umani". Si tratta di
situazioni che o non durano o durano ma a prezzo di sanguinose crisi
seriali (come in Libano).
Ad aggravare le cose intervennero in certi casi
operazioni di ingegneria istituzionale della potenza mandataria e
necessità di contrappesi religiosi da parte del governo insediato dagli
imperialisti. Il primo caso riguarda il Libano, dove le autorità
mandatarie francesi estesero le zone attribuite ai Cattolici maroniti
(loro tradizionali alleati) a scapito dei Musulmani; il secondo attiene
all'Iraq, dove il primo sovrano, Faysal, ottenne a nord le zone
dell'attuale Kurdistan iracheno, in prevalenza abitato da Sunniti (i
Curdi sciiti non sono molti), per rafforzare questa componente a fronte
della maggioranza sciita, che anche con questa mossa superò il 60%.
L'iniziativa di Faysal creò il problema dell'inserimento nella compagine
irachena di una consistente popolazione non araba, bensì indoeuropea
(più affine agli Iraniani), ponendo basi per l'irrisolto problema curdo
in Iraq. Infatti, fin dall'avvento della monarchia hashimita l'élite al
potere - sunnita - pur discriminando e opprimendo la maggioranza sciita,
cercò comunque di sviluppare qualcosa che desse agli abitanti un minimo
di identificazione unitaria, ma il guaio fu che lo fece privilegiando
l'arabicità, cioè a dire discriminando - e pesantemente - i Curdi e i
Turcomanni del nord, non facendoli mai sentire realmente parte
dell'Iraq, pur esigendosi da Baghdad il sentimento dell'inclusione.
Come già accennato, in tutto il Vicino Oriente esiste un
problema di legittimità per chi governa, a motivo della tendenza degli
esclusi dal potere - si tratti di maggioranze o di minoranze - che si
sentono (e sono) oppresse e discriminate. In tali contesti, a seminare
il caos ci vuole poco, e caos vuol dire massacri e creazione di nuovi
rancori che si sedimentano con i vecchi.
LE DIFFICOLTÀ PRATICHE A SOLUZIONI "MORBIDE"
Purtroppo le soluzioni - ammettendo che ce ne siano -
dipendono dagli interessi imperialistici sull'area. Gli Stati Uniti da
tempo progettano - soprattutto per Iraq e Siria - la fine degli attuali
Stati "unitari". Sdegno e opposizione da parte del variegato e residuale
fronte antimperialistico, ma anche di grandi potenze interessate
all'area come Russia e Cina, alle quali sembra essersi aggregata (per il
momento) anche la Turchia. I motivi di tali opposizioni sono facilmente
intuibili. Ad ogni modo - in ragione dell'esistenza di convivenze che
solo eufemisticamente possono essere definite "difficilissime" in Siria,
Iraq e Libano - anche i progetti di spartizione non sono affatto
carenti di logica, anzi sembrerebbero la soluzione più facile, pur
mettendo nel conto il "danno collaterale" inerente gli inevitabili
scambi di popolazione.
Sembra che nell'autunno di quest'anno nel Kurdistan
iracheno si terrà un referendum consultivo sull'indipendenza: fuor di
dubbio che un esito indipendentista non sarebbe preso affatto bene a
Baghdad, a motivo del petrolio nel Nord del paese, ai cui proventi né i
Curdi né il governo dell'Iraq possono rinunciare per ragioni di
sopravvivenza economica.
Ma c'è di più. La nuova Costituzione irachena prevede la
possibilità che oltre al Kurdistan si formino ulteriori federazioni
all'interno della Repubblica. A seconda dell'evoluzione degli
avvenimenti politici e militari in corso non si può aprioristicamente
escludere che di tale possibilità si avvalgano gli Sciiti del
Centro-sud: se così fosse, automaticamente si aprirebbe la lotta con i
Sunniti arabi per il controllo di Baghdad; e se questo dovesse avvenire
dopo l'auspicata sconfitta dell'Isis, è praticamente certo che si
avrebbe una reviviscenza del radicalismo islamista sunnita.
D'altro canto, oltre agli interessi dei soggetti interni
(difficili da conciliare, poiché perduranti da molti secoli) ci sono in
gioco troppe interferenze e troppi interessi di grandi potenze e di
potenze regionali perché si possa arrivare alla diffusione di una
convinta identità irachena che travalichi i particolarismi religiosi,
etnici e linguistici. E inoltre la situazione irachena appare così
incancrenita da rendere utopico solo pensare a sistemazioni indolori
alla maniera ex cecoslovacca.
Il Libano è una realtà politico-istituzionale che
stancamente sopravvive a se stessa, tipica creazione di un imperialismo
presbite e miope, quello francese, che, pensando scioccamente di durare
per chissà quanto tempo, ha usato il divide et impera senza criteri utili nemmeno per se stesso, e pensando che il mito della grandeur
gallica potesse davvero assicurare alla Francia margini di influenza in
un Levante che da tempo si capiva sarebbe diventato scenario di
conflitti tra potenze diverse, perché ben più grandi di quella francese.
Probabilmente continuerà a sopravvivere, malamente.
Circa la Siria anche fare ipotesi è del tutto prematuro.
Nella diffusione e/o ripubblicazione di questo articolo si prega di citare la fonte: www.utopiarossa.blogspot.com
Nessun commento:
Posta un commento