Conversazione con Piero Cipriano, “psichiatra riluttante”
[ght] Dopo aver raccontato il manicomio fisico con La fabbrica della cura mentale (Elèuthera, 2013), con Il manicomio chimico (Elèuthera, 2015) [su Carmilla] hai ricostruito come si è giunti all’era della psichiatria chimica in cui il manicomio è somministrato al paziente attraverso gli psicofarmaci. Nell’ultimo libro, La società dei devianti (Elèuthera, 2016) [su Carmilla], ti soffermi soprattutto sull’aspetto diagnostico indicandolo come macchina in grado di conferire identità e destino all’individuo.
Leggendo la tua ricostruzione della storia del Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders fino al DSM-5, manuale diagnostico sostanziale accettato e applicato acriticamente a livello mondiale, si ha la netta impressione di avere a che fare con l’ennesimo pacchetto normativo che si impone sull’umanità dettato da agenzie internazionali (come la World Health Organization) o da lobby che finiscono, di fatto, per dettar legge a livello internazionale (come l’American Psychiatric Association). Si tratta di agenzie che impongono a livello globale una precisa visione del mondo, in questo caso inerente alla salute/malattia degli individui, in strettissimi rapporti con un altro potentato sovranazionale: la lobby dell’industria farmaceutica.
Insomma, al lungo elenco di agenzie economiche e politiche internazionali che determinano la nostra vita – International Monetary Fund, World Bank, Goldman Sachs, European Union, United Nations, European Central Bank ecc. -, possiamo aggiungere anche agenzie ed associazioni come la World Health Organization e l’American Psychiatric Association con la loro bibbia diagnostica… Cosa ne pensi?
[pc] Sì, direi che è
così. Una serie di etichette, da quelle mediche a quelle psichiatriche a
quelle giudiziarie a quelle sociologiche, determinano una sequenza di
percorsi terapeutici, rieducativi, riabilitativi, punitivi, espulsivi, a
cui è sempre più difficile sottrarsi. Una società nosografica, che per
forza di cose poi diventa società terapeutica: siamo anormali, dobbiamo
curarci. Come? Coi farmaci, per lo più. Eccoci dunque in questa era
della farmacocrazia.
[ght] Nel tuo La società dei devianti si
parla dell’urgenza di intraprendere una campagna per l’abolizione delle
fasce di contenzione. Tale campagna, oltre che a fare pressione sui
politici affinché si arrivi all’abolizione di tale pratica, deve
necessariamente raggiungere l’opinione pubblica mettendola al corrente
della pratica della contenzione e di quanto sia ancora diffuso il
ricorso ad essa. Informare l’opinione pubblica comporta un’estensione
della responsabilità; un’opinione pubblica sensibilizzata a proposito
del ricorso a tale pratica costrittiva dovrebbe sentirsi in dovere di
farsi carico della questione. La difficoltà maggiore mi sembra quella di
individuare le modalità con cui raggiungere la gente comune in una
realtà che vede i media interessati a tutto ciò che riguarda il disagio
mentale solo quando ad esso è possibile imputare qualche forma di
violenza particolarmente cruenta. Non di rado nel trattare tali episodi i
media danno voce a una sempre meno celata “nostalgia di manicomio”.
Sicuramente scriverne è importante e da questo punto di vista la tua
“Trilogia della riluttanza” può essere considerata un ottimo contributo
alla denuncia ed all’informazione così come tutte le iniziative di
presentazione dei libri può essere utile a sensibilizzare l’opinione
pubblica. Cos’altro si può fare di concreto, a tuo avviso, per
supportare la campagna contro la contenzione?
[pc] Bella domanda.
Che mi fai proprio in un momento in cui questa campagna, per slegare i
cristi in croce legati nei luoghi non solo della psichiatria ma
dell’intera medicina, un po’ langue, boccheggia, stenta. Perché stenta?
Perché lo sapevamo che era un’iniziativa difficile, lunga, piena
d’insidie, e che chi, come me, si esponeva (sono uno psichiatra che è
contrario alle fasce e ne chiede l’abolizione, che tuttavia continua a
lavorare in un reparto dove vengono, anche se sempre di meno, ancora
adoperate), rischiava molto. Perché le fasce sono economiche. Sono
comode. Sono facili, semplici. Non comportano il difficile esercizio del
pensiero (per dirla con Hannah Arendt). Non comportano mettersi più di
tanto in discussione. Basta un po’ di rimozione, o l’abitudine,
abituarsi alla pratica, anche a torturare il torturatore in fondo si
abitua (leggersi Notturno cileno o Stella distante, di
Bolaño, per esempio), dopo essere stato opportunamente inziato.
Difficile è sbarazzarsi delle fasce e domandarsi: e ora?, come faccio a
relazionarmi con quest’uomo, o questa donna, o questo adolescente, o
questo vecchio, o questo cocainomane, o questo ubriaco, che si agita,
che mi aggredisce? Lì è la sfida. Invece ci addestrano a fare i
legatori. Leghiamo l’umanità! E dopo averla legata (e torno alla tua
domanda di prima) con le etichette diagnostiche che t’incanalano per
sempre in percorsi obbligati, dopo averla legata con molecole che ti
gessano i pensieri, te li paralizzano, o viceversa ti esaltano
innaturalmente le emozioni, dopo averla legata con contenitori e luoghi
d’ogni sorta, se tutto ciò non basta, per i più indomiti recalcitranti
riluttanti, ecco il legamento più primitivo, e però più sicuro: le
fasce.
Le fasce, come gli altri legamenti
che le precedono, sono entrate ormai nel nostro immaginario, nelle
prassi, in ospedale, tra gli addetti ai lavori, medici infermieri
ausiliari psicologi ma anche tra i famigliari, ne troverai pochi che si
scandalizzino. Lo scandalo, al contrario, lo procuriamo noi che
proponiamo l’abolizione delle fasce. Siamo noi, i medici infermieri
psicologi che contestano i legamenti a essere scandalosi, e dunque
pericolosi, con questa nostra iniziativa velleitaria. La follia è
pericolosa, il matto è da legare, e anche solo proporre l’eliminazione
di questo millenario strumento per gestire la follia è scandaloso, ed è
pericoloso.
Per questo la campagna per abolire la contenzione si profila come un modo per continuare a contestare la manicomialità. Mettendo in discussione, stavolta, non solo il manicomio civile o quello giudiziario, ma proprio l’ospedale generale, l’intera medicina dunque. Per cui, cosa si può fare?, mi domandi.
Per questo la campagna per abolire la contenzione si profila come un modo per continuare a contestare la manicomialità. Mettendo in discussione, stavolta, non solo il manicomio civile o quello giudiziario, ma proprio l’ospedale generale, l’intera medicina dunque. Per cui, cosa si può fare?, mi domandi.
Ricominciamo
con varie iniziative, a ottobre, per esempio, un convegno a Castiglione
delle Stiviere, per andare a stanare questa pratica proprio nell’OPG
perfetto (anche se ora si è trasformato in una mega REMS), talmente
perfetto che si legano agevolmente gli internati, anzi, vi è internata
una donna che da una decina d’anni è costantemente legata, di giorno in
carrozzina e di notte al letto. Coinvolgere persone che possano
raccontare questa battaglia fuori dallo specifico degli addetti ai
lavori. Persone della società dello spettacolo, per dirla alla Debord,
per esempio Pierpaolo Capovilla, del Teatro degli Orrori, che si sta
spendendo molto su questo tema, e ne canta nei suoi dischi, o Paolo
Virzì, che nel suo ultimo film descrive bene cosa succede a chi entra
nella morsa del circuito psichiatrico, e ci mostra Michaela Ramazzotti
legata al letto. Ma servirebbero altri, come loro. Che realizzino altre
opere esplicite, film come 87 ore, per esempio, dove viene
mostrata la lenta agonia del maestro Mastrogiovanni legato a un letto
per quattro giorni fino a morire, ecco, questo è un documento che
bisognerebbe proiettare nelle scuole. Cose così, insomma.
[ght] Questa campagna contro le fasce di contenzione
deve fare i conti con una società sempre più cinica e propensa a
delegare la soluzione di tutto ciò che individua come “problema” a
comodi “specialisti” di turno. Cogliere i devianti come problema
comporta facilmente la concessione di una sorta di “delega in bianco” in
favore di ogni pratica volta a toglierli dalla vita sociale. Da questo
punto di vista, evitata ad arte una terminologia troppo esplicita, la
segregazione in luoghi separati e il ricorso a forme di contenzione
tutto sommato possono anche non essere viste con ostilità dall’attuale
opinione pubblica. Una volta etichettati come devianti, saranno gli
“esperti”, i “tecnici”, a farsi carico del “problema-devianti”. Farmaco o
non farmaco, cinghia o non cinghia, l’importante è lavarsene le mani
una volta che il problema viene rimosso dalla vita pubblica. Ripensando
alla battaglia di Franco Basaglia e Franca Ongaro viene da pensare che
se da un certo punto di vista la società degli anni ’60 e ’70 non era
poi tanto più “aperta” mentalmente rispetto all’attuale, è anche vero
che proprio in quel periodo si stavano aprendo “brecce di libertà”
all’interno della cultura e della società italiana che oggi onestamente è
difficile individuare. Cosa ne pensi?
[pc] Sottoscrivo ciò
che dici. Ci siamo tutti rassegnati e consegnati al potere/sapere degli
psichiatri, che nell’arte della manomissione delle parole, per dirla
con Carofiglio, sono dei veri talenti. Hanno suddiviso il grande
contenitore della follia in più di trecento partizioni, come a dire che
oggi nessuno più è folle, ma nessuno più può dirsi del tutto normale,
tutti noi abbiamo almeno due tre diagnosi possibili, ormai. Diagnosi che
accettiamo passivamente, supinamente. Anzi, siamo a tal punto acritici
che talvolta ci presentiamo e ci raccontiamo con quella diagnosi, io
sono un borderline, io sono un bipolare, poco ci manca che le mettiamo
perfino nel nostro biglietto da visita: Mario Rossi, depresso. Le
diagnosi psichiatriche ristrutturano la nostra identità, un po’ come
accade per i segni zodiacali, con la differenza che i segni zodiacali
lasciano il beneficio del dubbio (non è roba scientifica, per quanto
suggestiva), le diagnosi psichiatriche invece non lasciano dubbi, perché
sono opera di scienziati della mente (è scienza, insomma).
Ma
pure rispetto ai loro luoghi, gli psichiatri hanno messo in gioco il
meglio della loro semantica: i manicomi non esistono? Perfetto. Vuol
dire che la manicomialità la distribuiremo in altri contenitori più
piccoli, meno appariscenti, che chiameremo soprattutto con acronimi:
SPDC, CSM, CT, OPG, REMS, eccetera. I ricoveri ad infinitum non sono più
possibili? Non c’è problema. Esiste un gioco dell’oca della cronicità
per cui realizzo l’internamento circolare: dieci giorni in SPDC, un mese
in Casa di Cura che ora si chiama STIPT, sei mesi in CT. Compi un reato
ma sei deviante? Un anno in REMS, e poi ricominci il giro, magari
ripassando dal SPDC.
[ght] Nel tuo La società dei devianti
ragioni sui comportamenti che possono adottare gli operatori
psichiatrici nella pratica quotidiana al fine di evitare trattamenti
disumani nei confronti dei devianti. Inviti, ad esempio, a praticare un
colloquio continuo con i pazienti, a portarli fuori dai luoghi di
ricovero, a revocare i TSO, a sciogliere i legati ed a ridurre i
farmaci. Attraverso tali comportamenti, sostieni, sarebbe più facile
convincere i giovani operatori del settore, i pazienti e i loro
famigliari che esistono altri modi per affrontare i disturbi mentali.
Naturalmente gli operatori, così come le famiglie dei pazienti, si
trovano a vivere in un mondo in cui l’aspetto produttivo, con i suoi
ritmi sempre più infernali e dilatati nel tempo e nello spazio, sottrae
buona parte del tempo e delle energie che possono essere dedicate a chi è
in difficoltà. La stanchezza psicofisica degli operatori e dei
familiari di certo si riversa negativamente su chi è in difficoltà. Non
credi che nel mondo degli operatori psichiatrici una campagna
finalizzata a un trattamento “più umano” dei pazienti debba intrecciarsi
a rivendicazioni di tipo sindacale volte a rendere il lavoro meno
sfiancante? Mi riferisco al numero di operatori impiegati in rapporto ai
pazienti, ai turni di lavoro ecc.
[pc] Assolutamente
sì. Lavoro in un reparto dove ci sono minimo dodici persone ricoverate.
Tre infermieri non bastano, non possono bastare. Però il numero fa la
differenza, ovviamente. Se già con
tre-infermieri-che-non-vogliono-legare è possibile non legare le
persone, per mia esperienza, figuriamoci con sei (se quei sei vogliono
non legare). E’ ovvio che se invece ti trovi con
infermieri-che-vogliono-legare, anche con dodici (potendoti dunque
permettere un rapporto uno a uno) leghi le persone, non si sfugge.
Discorso a parte per i medici. I medici sono coloro che, in fin dei
conti, decidono se legare o non legare. I medici, per mia esperienza,
più sono e meno decidono. O meglio, più sono e meno sono coraggiosi, e
più si nascondono dietro le fasce. E più legano. Ma perché legano? Non
lo so. A me pare che la maggior parte dei medici abbiano più
dimestichezza con i libri, con le diagnosi, con i farmaci, con le
molecole, che con le persone in carne e ossa. Sarà per la lunga
formazione a cui sono stati sottoposti, formazione medica che invece di
avvicinarli alle persone li allontana, che in qualche modo li
disumanizza, apprendistato che gli fa perdere di vista la persona, che
li addestra quasi esclusivamente allo studio del caso (clinico), caso
(clinico) che diventa cosa. Oggetto. E qui torna attuale Franca Ongaro
Basaglia quando ci ricorda che la medicina si forma sul corpo morto, e
il medico impara a conoscere l’uomo vivo (malato) studiando il cadavere
nelle aule di anatomia patologica, e memore di questo debito tende, il
medico, sempre, a ricondurre l’uomo vivo (malato), a corpo morto,
disteso sul letto d’ospedale, allettato, clinico, esanime, o coi farmaci
o con le fasce.
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