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martedì 23 luglio 2013

ricalibrare l'anarchismo in un paese colonizzato - conversazione con anarchici palestinesi -grazie ad: Ahmad Nimer a cura di Joshua Stephens

conversazione con anarchici palestinesi :

ricalibrare l'anarchismo in un paese colonizzato

grazie ad: Ahmad Nimer

a cura di Joshua Stephens


“A dire il vero sto ancora cercando di liberarmi di quel po' di
nazionalismo che mi porto addosso" dice scherzando Ahmad Nimer, mentre
conversiamo in un bar di Ramallah. Il nostro argomento di conversazione
è di quelli inverosimili: come si fa ad essere anarchici in Palestina.
“In un paese colonizzato. è alquanto difificile portare le persone
verso soluzioni antiautoritarie ed antistataliste. Bisogna fare i conti
con una mentalità strettamente anticolonialista piuttosto diffusa ma
anche limitata dal nazionalismo", dice sconsolato Nimer. Infatti, gli
anarchici palestinesi hanno oggi un problema di visibilità. Nonostante
l'attivismo anarchico di alto profilo in Israele ed a livello
internazionale, non sembra esserci tra i molti attivisti palestinesi
una altrettanta consapevolezza dell'anarchismo.

“Il dibattito attuale
sui temi anarchici si incentra soprattutto sulla questione del potere:
rifiutare il potere-su a favore del potere-con. “Quando si parla di
anarchismo come concezione politica, lo si definisce in quanto rifiuto
verso lo Stato”, commenta Saed Abu-Hijleh, docente di geografia umana
presso l'Università An-Najah di Nablus. “Se ne parla in termini di
libertà e di una società che si organizza senza l'interferenza dello
Stato”. Ma come fa un popolo senza Stato ad abbracciare l'anarchismo,
il quale implica opposizione alla forma Stato quale condizione del suo
inverarsi?

In Palestina, spesso ci sono stati storicamente elementi di
auto-organizzazione nella lotta popolare. Anche se non esplicitamente
ascrivibili al'anarchismo in quanto tale. “Le persone già organizzano
le loro vite su basi orizzontali o non gerarchiche”, dice Beesan
Ramadan, anarchica del posto, la quale definisce l'anarchismo come una
“tattica” dubitando della necessità di darsi delle etichette. Prosegue:
“è già nella mia cultura e nel modo in cui gli attivisti palestinesi
hanno agito. Durante la Prima Intifada, ad esempio, quando veniva
demolita la casa di qualcuno, le persone si organizzavano
spontaneamente per ricostruirla. Da anarchica palestinese faccio
riferimento alle radici della Prima Intifada. Che non nacque da una
decisione formale, anzi contro la volontà dell'OLP”. Yasser Arafat
dichiarò l'indipendenza nel novembre 1988, dopo la Prima Intifada
iniziata nel dicembre 1987, e Ramadan aggiunge “per dirottare gli
sforzi della Prima Intifada.”

La questione palestinese si è
ulteriormente complicata negli ultimi decenni. Il contesto della Prima
Intifada fatta di un'ampia auto-organizzazione orizzontale venne
sostituito nel 1993 dalla creazione della verticistica Autorità
Palestinese (AP) in seguito agli Accordi di Oslo. “Ora qui in
Palestina,” osserva Ramadan, “noi non abbiamo a che fare con un
significato di autorità come quello che altrove viene contestato…Noi
abbiamo la AP e abbiamo l'occupazione e le nostre priorità non fanno
che mescolarsi sempre. La AP e gli Israeliani sono sullo stesso livello
poichè la AP è uno strumento nelle mani di Israele per opprimere i
palestinesi.” Anche Nimer la pensa così, sostenendo che si va
diffondendo sempre più la convinzione che la AP sia una sorta di
“occupazione per procura”.

“Essere anarchici non significa portare la
bandiera rossa&nera o fare il black bloc,” precisa Ramadan riferendosi
a quella nota tattica di protesta anarchica di vestirsi di nero e di
coprirsi il volto. “Io non voglio imitare nessun gruppo dell'occidente
nella loro maniera di "fare" gli anarchici....qui non funziona perchè
qui abbiamo bisogno di creare una piena consapevolezza popolare. Le
persone qui non capirebbero.” Tuttavia Ramadan ritiene che la bassa
visibilità degli anarchici palestinesi ed in modo più ampio la scarsa
consapevolezza dell'anarchismo tra i palestinesi non significhi
necessariamente che siano in pochi. “Io penso che ci sia un buon
numero di anarchici in Palestina,” ci tiene a dire pur concedendo
subito dopo che “…per la maggior parte, per ora, si tratta di
individualità [sebbene] siamo tutti attivisti ciascuno a suo modo.”


Questa mancanza di un movimento anarchico unificato in Palestina
potrebbe trovare una spiegazione nel fatto che gli anarchici
occidentali non hanno mai fatto davvero un'analisi del colonialismo.

“[Gli autori occidentali] non ne hanno scritto” sostiene Budour Hassan,
attivista e studentessa in legge. “La loro lotta lì era differente”. E
Nimer pure aggiunge: “Per gli anarchici negli USA, la decolonizzazione
potrebbe essere una parte della lotta anti-autoritaria; per me invece è
quello che deve accadere”.

Significativamente, Hassan allarga la sua
visione dell'anarchismo oltre le posizioni semplicemente contro lo
Stato o contro l'occupazione coloniale. Lei cita lo scrittore
palestinese e nazionalista arabo Ghassan Kanafani, rilevando come
questi non solo avesse sfidato l'occupazione“, …ma anche le relazioni

patriarcali e le classi borghesi... Ecco perchè io penso che noi arabi
– ed anarchici in Palestina, in Egitto, in Siria, in Bahrein – abbiamo
bisogno di riformulare l'anarchismo in un modo che rifletta la nostra
esperienza del colonialismo, la nostra esperienza di donne in una
società patriarcale e così via”.

“Non basta solo far parte di
un'opposizione politica”, avverte Ramadan, la quale aggiunge che per
molte donne, “se ci si oppone all'occupazione, bisogna anche opporsi
alla famiglia”. Infatti, la tanto enfatizzata presenza delle donne
durante le proteste, afferma Ramadan, nasconde il fatto che in realtà
molte donne devono combattere per poterci essere. Persino il
partecipare alle riunioni serali costringe le giovani donne a lottare
contro vincoli sociali che la loro controparte maschile non intende
mettere in discussione.

“Come Palestinesi, è necessario stabilire
rapporti con gli altri anarchici arabi”, dice Ramadan influenzata dalla
lettura dei materiali anarchici proenienti dall'Egitto e dalla Siria.
“Abbiamo tanto in comune e, a causa dell'isolamemto, finiamo con avere
a che fare con anarchici internazionali i quali a volte, per quanto
bravi politicamente, restano bloccati in alcune loro idee sbagliate e
nell'islamofobia”.

In un breve articolo pubblicato su Jadaliyya ed
intitolato “Luci anarchiche, liberali ed autoritarie: Note sulle
primavere arabe”, l'autore Mohammed Bamyeh sostiene che le recenti
rivolte arabe riflettano“…una rara combinazione di metodi anarchici e
di intenzioni liberali”, mettendo in rilievo che “…lo stile
rivoluzionario è anarchico, nel senso che richiede poca organizzazione,
poca leadership, o almeno coordinamento [e] che si tende a mantenersi
sospettosi verso i partiti e le gerarchie anche dopo la vittoria
rivoluzionaria”.

Per Ramadan, anche il nazionalismo costituisce un
grosso problerma. “Il popolo ha bisogno del nazionalismo in tempi di
lotta”, è pronta a concedere [ma] a volte può divenire un ostacolo…

Vuoi sapere qual è il significato negativo del nazionalismo? Che tu
pensi solo come palestinese, che i palestinesi siano gli unici a
soffrire nel mondo”. Anche Nimer aggiunge: “Si sta parlando di oltre 60
anni di occupazione e di pulizia etnica e di 60 anni di resistenza
nutrita dal nazionalismo. E' troppo, fa male. Le persone possono
passare dal nazionalismo al fascismo, abbastanza rapidamente”.

Le folle egiziane in Piazza Tahrir al Cairo lo scorso dicembre hanno dato
una speranza agli anarchici palestinesi. Mentre il presidente Mohamed
Morsi consolidava il suo potere esecutivo, legislativo e giudiziario, i
gruppi anarchici prendevano parte alle manifestazioni. Questi egiziani
si autodefiniscono anarchici e fanno riferimento all'anarchismo come
tradizione politica. Tornando a Ramallah, Nimer riflette: “Spesso sono
pessimista, ma non siate riduttivi verso i palestinesi. Potremmo
esplodere in qualsiasi momento. La Prima Intifada ebbe inizio con un
incidente d'auto”.

(traduzione a cura di FdCA-Ufficio Relazioni
Internazionali)



questo articolo è apparso inizialmente nel febbraio
2013 sulla rivista libanese The Outpost.

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