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lunedì 13 aprile 2020

Pandemie, capitalismo e sorveglianza Pandemie, capitalismo e sorveglianza

 













Questi ultimi mesi hanno segnato un drastico e assolutamente imprevisto cambiamento di abitudini e innescato scenari inediti con cui tutte e tutti noi stiamo cercando faticosamente di fare i conti.
Ma la tragedia non è per tutti. Mentre si gioca con la vita dei lavoratori in nome della tenuta economica del paese, mentre tante e tanti di noi si chiedono come sopravvivere, come sempre qualcuno ci guadagna. E molto.
Il 6 gennaio 2020, sull’inserto Economia del Corriere della Sera, Maria Teresa Cometto redige un interessante articolo sui giganti dell’hi-tech, segnatamente Apple, Microsoft, Amazon, Alphabet (Google) e Facebook, capaci di sfidare le regole delle borse e dei mercati e di vantare un valore complessivo che va oltre quello del PIL tedesco. Dei veri e propri colossi, paragonabili all’impero finanziario dei Rockfeller, ma infinitamente più invasivi nelle vite di ognuno di noi. E che ora, con l’emergenza Covid-19 in atto, rischiano di divenire ancora più potenti di quanto non siano già.
Con le attività commerciali quasi tutte chiuse, con molte persone costrette a stare in casa per provare a indebolire il tasso di contagio del virus, i servizi immateriali stanno subendo un incremento senza pari.  Come è facilmente immaginabile, lo smartphone, i computer e le smart tv sono diventati accessori indispensabili per usufruire dei servizi, fare compere attraverso applicazioni scaricabili dal Play Store di Google e dall’Apple Store, informarsi e tenere contatti con parenti ed amici.
In un aberrante video online da qualche giorno, Urbano Cairo, proprietario tra le altre cose del Corriere della Sera, invita con entusiasmo i suoi venditori a contattare inserzionisti pubblicitari per sfruttare il momento di grande accesso ai mezzi di comunicazione che la situazione attuale ha accentuato. Nella sua vomitevole positività, Cairo ci mostra il vero volto del capitalismo, fatto di spietata noncuranza per l’emergenza, che viene vista solo ed unicamente come fonte di guadagno per il proprio gruppo editoriale.
Ebbene, se da un lato è pensabile che ogni gruppo editoriale tiri acqua al proprio mulino, dall’altro i cinque colossi citati in apertura paradossalmente non avrebbero bisogno di una mossa del genere, essendo noi utenti che forniamo loro la gran parte dei loro immensi profitti, attraverso la cessione volontaria dei nostri dati personali, rivenduti a peso d’oro ad analisti ed aziende che possono fornire profilazioni estremamente accurate dei nostri gusti e delle nostre esigenze per fornirci prodotti e servizi di cui sentiamo di avere necessità.
Questo meccanismo, oltre ad accentrare quantità di denaro raramente vista in passato nelle mani di pochissimi gruppi, ci pone nella condizione di mettere parte del nostro libero arbitrio nelle mani di un algoritmo, che sempre più deciderà per noi di cosa necessitiamo e da quali aziende è meglio rifornirsi.
Ne sa qualcosa Jeff Bezos, AD di Amazon, la più grande società al mondo di commercio elettronico, che nel contesto emergenziale in atto trova le condizioni ideali per incrementare gli affari, nonostante le legittime proteste e scioperi che hanno interessato alcuni stabilimenti in Piemonte, Lombardia e Lazio.
Ma l’azienda di Bezos non si occupa solo di commercio, Amazon possiede l’infrastruttura per custodire i Big Data delle agenzie di intelligence americane, una enorme “nuvola” virtuale che raccoglie tutte le informazioni generate dalla specie umana tramite telefonate, msm , email, conversazioni, like su F.B., messaggi Twitter, video, foto e ogni altro tipo di dati immessi sulla rete.
Un altro dato estremamente interessante è che l’estrazione del plusvalore che per esempio si realizza nei magazzini Amazon con un “super” sfruttamento del personale, adottando una organizzazione che ricorda la classica catena di montaggio ed il vecchio cottimo tipico dell’organizzazione tayloristica, facendo correre i propri dipendenti nei magazzini tra i corridoi con un countdown timer per riempire i cesti nel più breve tempo possibile e con lo “strangolamento” dei corrieri per le consegne, è affiancato da un extra profitto derivato dalla inconsapevole cessione dei dati personali a fini commerciali. Così facendo il capitalismo, invadendo definitivamente la sfera personale, guadagna cifre inimmaginabili da questo meccanismo peraltro con il consenso pressoché generale.
Un altro motivo per cui quello che Shoshana Zuboff definisce capitalismo della sorveglianza trarrà enormi profitti dalla crisi sanitaria in atto è la sorveglianza digitale che i grandi gruppi della telecomunicazione sta mettendo in atto per monitorare gli spostamenti delle persone sottoposte a quarantena, e non solo. La tecnologia di sorveglianza di una cella telefonica non è certo una novità, ma per la prima volta viene utilizzata in modo tanto palese. E’ chiaro che, come ogni tipo di tecnologia, l’utilizzo che ne viene fatto può essere più o meno buono. E’ assolutamente plausibile però che questo, a emergenza terminata, possa diventare uno strumento repressivo di controllo sociale atto a contrastare in maniera più efficace le lotte dei movimenti sociali e che addirittura punti a prevenire qualsiasi forma di dissenso, inserendosi perfettamente in quel vero e proprio apparato repressivo rappresentato dai recenti decreti sicurezza voluti dall’ex ministro dell’interno Salvini e comunque ad oggi mai modificati né cassati dall’esecutivo. A tal proposito sarà necessario, oggi più di prima, porre grande attenzione a un uso responsabile e cosciente dei dispositivi tecnologici di uso comune, privilegiando tecnologie open-source e antitracciamento laddove fattibile.
Tornando ai big data, il monitoraggio degli spostamenti permetterà agli analisti di verificare in tempo reale i tragitti di un dato soggetto, i supermercati davanti ai quali transiterà, i chioschi di benzina che troverà sulla propria strada e via discorrendo, garantendo un’ulteriore profilazione, sempre più efficace e pervasiva.
In tutto questo sta passando come una rivoluzione positiva la sperimentazione della tecnologia 5G, che permetterà una velocità di accesso ai dati e una capacità di archiviazione che ad oggi nemmeno riusciamo ad immaginare. Come già detto, la tecnologia non è sbagliata di per sé, ma prima di un utilizzo massivo di qualsiasi innovazione tech, andrebbero valutati gli effetti sulle persone e sull’ambiente.
Anche perché sappiamo che questa pandemia, come quelle di cui non ci siamo troppo accorti e quelle che verranno, è in buona parte dovuto al continuo sfruttamento intensivo del suolo per attività produttive e di coltivazione, che ha tolto habitat ai selvatici e favorito il loro spostamento verso aree densamente abitate, favorendo i cambi di specie alla base di questi virus. Altri studi stanno aprendo scenari inquietanti che riguardano la diffusione del virus attraverso le polveri sottili e l’inquinamento atmosferico.
Abbiamo a che fare con un meccanismo di controllo sociale gigantesco, che da un lato indirizza le scelte e dall’altro reprime il dissenso, un meccanismo estremamente difficile da combattere, ma, come tutte le cose, non indistruttibile.
La necessità da parte delle Stato di dotarsi di strumenti di controllo e repressione per meglio governare i comportamenti “irresponsabili” nel contesto dello stato di emergenza, è una contraddizione intrinseca al processo di individualizzazione che sta alla base del modello odierno della produzione capitalista.
Il passaggio storico che si è andato definendo con la dissoluzione dalla grande fabbrica fordista come necessità di neutralizzazione della soggettività operaia degli anni sessanta-settanta, ha prodotto, attraverso lo strumento ideologico del pensiero neo-liberista, un’atomizzazione sociale dove l’individuo, nella piena solitudine, ha l’illusione di affermare se stesso attraverso un darwinismo sociale della lotta per la sopravvivenza. Da qui, la necessità per lo Stato di ricostruire quel un senso di appartenenza che trova attuazione attraverso suggestioni identitarie e un senso generale di angoscia collettiva che ci rende l’uno il sorvegliante e il delatore dell’altro.
Uscire da questa condizione di isolamento e dalla retorica identitaria è un passaggio obbligatorio per ricostruire quel senso di comunità e solidarietà che, nel contesto di questa circostanza critica, non poteva che materializzarsi negli ambienti del mondo del lavoro salariato e delle pratiche di mutuo-aiuto e di autorganizzazione. Dalla dicotomia tra solidarietà sociale e un individualismo egoistico e meritocratico, che è alla base di un sistema economico rapace e cinico, dobbiamo partire per immaginare i nessi tra libertà ed eguaglianza in ogni spazio quotidiano.

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