ADERISCI AD ALTERNATIVA LIBERTARIA/FdCA

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campagna contro la contenzione meccanica

per giulio

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venerdì 20 dicembre 2013

SCORCIATOIA NAZIONALISTA O AUTODETERMINAZIONE DI CLASSE? - 85° Consiglio dei delegati FdCA

Aumenta incontrastata la pressione del Capitale europeo nei confronti delle classi subalterne del continente, che in una fase di contrazione produttiva e di conseguente riduzione delle risorse, concentra la sua attenzione famelica su più fronti. Sul fronte del lavoro assistiamo al continuo restringimento delle conquiste e dei diritti acquisiti in decenni di lotte dai lavoratori e dalle lavoratrici, con lo scopo evidente da una parte di ridurre all’osso i costi produttivi, a favore del profitto, e dall’altra di contrastare la risposta, se pur ancora insufficiente, della classe lavoratrice, con il tentativo di espellere dalle fabbriche qualsiasi forma di reale dissenso, specialmente se esso veste i panni rappresentativi dell’autorganizzazione e dell’autonomia di classe. Tale attacco si traduce in espansione del lavoro non contrattato, aumento degli orari lavorativi con basse tutele e bassissimi salari e conseguente aumento dell’ intensità dello sfruttamento. Intanto continua e s’intensifica l’assalto alle risorse ed ai beni collettivi. Abbiamo visto che fine hanno fatto i referendum sull’acqua: la vittoria elettorale non supportata da una reale dimostrazione di forza nei territori, non è servita ad arrestare la tendenza alla privatizzazione delle risorse collettive. E così come sempre avviene in un periodo di crisi economica e di ulteriore impoverimento delle classi sociali più deboli, i capitalisti aumentano le loro ricchezze con la svendita delle proprietà pubbliche mobili ed immobili; spesso usando la scusa del ripianamento del debito pubblico, nascondendo ad arte che non è nemmeno con delle entrate una tantum che si possono risarcire gli sprechi del parassitismo borghese. Siamo al piglia adesso più che poi, grande esempio di lungimiranza capitalista! La stessa lungimiranza che non fa mollare l’osso del TAV allo Stato e al Capitalismo italiano, pubblico e privato, allettati dai guadagni facili veloci e devastatori, alimentati dalle risorse pubbliche. Lo stesso avviene per il welfare, che dopo decenni di lotte sindacali e sociali era considerato uno dei più avanzati dell’occidente, e che subisce oggi un’erosione continua ed inesorabile, mettendo sempre più in discussione concetti che ritenevamo inattaccabili, come quelli di istruzione e assistenza sanitaria accessibili e di qualità per tutti. Per non parlare delle pensioni, che dopo aver subito la speculazione dei cosiddetti “fondi pensione”, sono sempre più ridotte, per i sempre più rari fortunati che ne beneficeranno, a puri simulacri di sopravvivenza. In un momento in cui, a causa della deindustrializzazione, con l’aumento della disoccupazione dovuta alla chiusura di fabbriche ed alle ristrutturazioni, sarebbe necessario un intervento nella modifica degli ammortizzatori nel senso della loro estensione alle decine di migliaia di lavoratori rimasti senza reddito. Il tutto avviene in un contorno dominato da una profonda crisi delle rappresentanze storico-istituzionali, politiche e sindacali della sinistra, che vuoi per incapacità e/o per complicità, non riescono più a impersonare, nemmeno parzialmentele esigenze delle classi sociali subalterne. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: la deindustrializzazione con la progressiva chiusura delle fabbriche; l’aumento dell’esercito dei disoccupati, i suicidi di chi non riesce più a garantire una vita dignitosa a se stessi e ai propri cari; la privatizzazione dei servizi integrati con il conseguente peggioramento della gestione e l’aumento delle bollette; la progressiva distruzione della sanità e della scuola pubbliche; la distruzione del nostro patrimonio naturale; l’inquinamento di interi territori con la scusa della produzione necessaria al mantenimento dell’occupazione. Un generale impoverimento sociale ed economico che colpisce prevalentemente e con più intensità le classi storicamente sfruttate dal Capitale ma che intacca oggi anche la prosperità del cosiddetto “ceto medio”, il cui malcontento, così come storicamente accade, viene pilotato ed orchestrato ad arte dalla destra fascista, protetta e sostenuta dalle forze di Stato. Mentre ben altra sorte tocca a tutte le manifestazioni di dissenso e di opposizione sociale che si rifanno ai valori solidali e di classe della sinistra. Oltre alla crisi strutturale del capitalismo ciò che determina questo scenario sono anche le politiche imposte dalle grandi borghesie europee, specialmente quelle finanziarie, degnamente supportate dalla BCE, che impone in tutta Europa la sua dittatura finanziaria fatta di autoritarismo padronale e di vincoli di bilancio. In questo panorama c’è chi propone soluzioni nazionaliste come l’uscita dall’euro ed il ritorno alla moneta nazionale, il tutto condito dagli slogan tipici dell’ultra destra fascista ed identitaria. Soluzioni nazionaliste, che vengono proposte come se fossero la panacea alle macerie prodotte, è importante continuare a ribadirlo, dalle disfunzioni strutturali, fisiologiche e periodiche del sistema economico capitalista. Non esistono soluzioni nazionaliste buone per le classi subalterne. Esse sono figlie dell’interclassismo populista e social-fascista. Anche se spesso, con le loro sirene nazional-popolari incantano molte correnti stataliste della sinistra marxista. Questo succede specialmente quando il panorama sociale è caratterizzato dalla debolezza dei rapporti di forza delle classi sociali subalterne e c’è chi pensa di risolvere i problemi legati allo sfruttamento economico delegando lo Stato a prendere misure di tipo protezionistico. Ma l’uscita dall’euro, ad esempio, e la conseguente svalutazione monetaria nazionale, provocherebbe soltanto dei benefici momentanei e farebbe precipitare ben presto in una situazione di crisi economica in cui sarebbero sempre le classi economiche più deboli a pagare il prezzo più alto. Non c’è una scorciatoia quindi: o cambiamo i rapporti di forza in nostro favore con la lotta e l’azione diretta nei territori e nei luoghi di lavoro, o rimarremo sempre preda delle mistificazioni e dell’inquinamento delle ideologie borghesi. Occorre quindi che l’insofferenza e lo sconforto individuale diventino, nei territori e nei luoghi di lavoro, rabbia collettiva e organizzazione di classe a prassi libertaria, con la capacità sociale di lottare per tutti i diritti primari, da quello dell’abitare, a quello dell’assistenza sanitaria, e la capacità politica di respingere qualsiasi sirena nazionalistica ed avanguardistica. Nuove forme di rappresentanza non possono fondarsi che sulla ricostruzione delle organizzazioni di massa, capaci di difendere gli interessi immediati dei lavoratori su base anticapitalistiche, nei posti di lavoro e nel territorio, e di un movimento politico che attinga dall’anarchismo di classe, organizzato e rivoluzionario, strumenti e contenuti per la difesa degli interessi storici delle classi subalterne, nella prospettiva di un cambiamento sociale comunista e libertario. Tutto ciò significa seminare, li dove i nostri e le nostre militanti sono presenti, la pratica dell’autogestione e dell’azione diretta, e di propagandare con tutti i mezzi che abbiamo a disposizione, il germe dell’autonomia di classe, cercando e facilitando la nascita di forme di resistenza, di autorganizzazione e autogestione economica e sociale. Come abbiamo già detto in altri nostri comunicati: “La democrazia diretta non si improvvisa ma si coltiva, non passa solo dai forum ma cresce nei posti di lavoro, ha bisogno della solidarietà, dell’autogestione, della memoria, della lotta di classe.” Consiglio dei Delegati Federazione dei Comunisti Anarchici Reggio Emilia, 15 Dicembre 2013

Organizzare l’assalto al cielo - recensione tratta da Micromega rivista

Un libro ricostruisce la storia della Prima Internazionale, ovvero del pionieristico tentativo di stabilire legami di solidarietà e di azione fra i lavoratori di tutto il mondo. Una ricognizione storica approfondita e puntuale, utilissima a fare anche il punto sulla genealogia di idee e parole d'ordine oggi molto in voga a sinistra. di Marco Zerbino Capita spesso, nei rari dibattiti teorici che ancora si fanno a sinistra, di sentir propagandare come innovative e più adatte alla comprensione e alla trasformazione del tempo presente categorie che non mancano di rivelarsi, ad un'analisi attenta, piuttosto antiche. È questo ad esempio il caso, a nostro avviso, dell'idea di una possibile “terza via” fra Stato e mercato, pubblico e privato, incarnata dal cosiddetto “comune”, che permetterebbe più o meno magicamente di eludere il nodo del potere politico a chi auspica una trasformazione radicale all'insegna dell'eguaglianza e della libertà dell'attuale società divisa in classi. Un approccio, quello del “né Stato, né mercato”, che è in realtà andato incontro a ripetute “metemsomatosi” (mutamenti di corpo, non certo di anima) nel corso degli ultimi duecento anni, e che pure viene spesso presentato come innovativo e conseguente agli “errori ed orrori” novecenteschi del socialismo reale e dello stalinismo. Senza voler negare il problematico lascito di questi ultimi, non si può tuttavia non riflettere sul fatto che, in questo caso specifico, le soluzioni ai problemi posti da tale pesante eredità rischiano di riportarci a fasi ancora precedenti della storia del movimento operaio e della sinistra, non necessariamente meno cariche di abbagli, delusioni e sconfitte. Bisogna pertanto essere grati a uno storico come Mathieu Léonard – che pure, sospettiamo, sarebbe intelligentemente in disaccordo con quanto abbiamo appena sostenuto a proposito dell'inconsistenza di presunte “terze vie” – per averci consentito di ripercorrere, in un suo recente volume sulla Prima Internazionale da poco pubblicato anche in Italia (La Prima Internazionale. L'emancipazione dei lavoratori sarà opera dei lavoratori stessi, Edizioni Alegre, 2013, pp. 352, € 22,00), quella storia originaria e fondamentale, nella quale un ruolo di primo piano venne giocato proprio dal contrasto fra gli “autoritari” (Marx, Engels e i socialisti tedeschi) che assegnavano un ruolo prioritario alla lotta per la conquista del potere statale, e gli “antiautoritari” (Proudhon prima, Bakunin e i suoi dopo), che insistevano invece sulla necessità di abbattere il sistema capitalista dando vita ad una libera associazione di produttori in grado di rendere lo Stato stesso un'entità superflua. Contrasto talmente acceso da portare, nel giro di pochi anni, alla fine poco gloriosa di un laboratorio teorico e organizzativo che conserverà comunque un valore seminale per la successiva storia del movimento operaio. Come recita infatti la quarta di copertina di questa lunga e dettagliata ricerca, “... è all'interno di questa dimensione plurale”, quella cioè caratterizzante il primo sviluppo dell'Associazione Internazionale dei Lavoratori (Ait, dalla sigla francese), “che si formano le correnti di sinistra che hanno segnato il Novecento: marxiste, anarchiche e socialdemocratiche”. Il tutto, però, si compie in mezzo a conflitti fortissimi (a riprova del fatto che la storia del movimento operaio è sempre stata ed è tuttora lotta per l'egemonia fra tendenze politico-culturali eterogenee) e in un clima caratterizzato, oltre che da nobili finalità e da generosissimi sforzi e sacrifici personali, anche da odi e diffidenze più o meno motivati, aspri scontri congressuali e, talvolta, veri e propri pregiudizi e calunnie (dalle invettive di Bakunin contro “gli ebrei tedeschi” capeggiati da Marx ed Engels fino all'atteggiamento assunto da questi ultimi col dare strumentalmente credito alle calunnie di Utin contro il “gigante russo”). Ed è forse anche questo il pregio di un libro che rifugge da qualsiasi intento propagandistico e agiografico: quello di riuscire a dare al lettore l'idea, da un lato, della magmaticità, del carattere aperto, sofferto e contrastato dello sviluppo storico e della lotta per l'egemonia di cui sopra (importante, ad esempio, la maniera in cui Léonard illustra la faticosa e per nulla scontata ascesa del marxismo al rango di dottrina “ufficiale” dell'Ait, che si compie veramente solo quando l'Internazionale stessa è ormai sulla via dell'implosione) e, dall'altro, di come sempre di storia di uomini si tratti, di come le idee, anche le più avanzate, si trovino necessariamente ad essere incarnate in individui che, per quanto grandi e geniali, rimangono esseri umani pieni di limiti personali e costantemente esposti al condizionamento del tempo e del luogo in cui vivono (non è forse questa, del resto, una delle lezioni fondamentali del marxismo?). È quindi importante, e lo è da un punto di vista genuinamente storiografico, documentare come lo sviluppo e la progressiva espansione dell'Ait attraverso quelle che l'autore chiama fase cooperativa (1864-1866), fase collettivista (1866-1869) e fase della lotta di classe (1869-1870) si siano verificati non all'interno di un vuoto, ma a stretto contatto con gli eventi storici che caratterizzarono anni drammatici, segnati, oltre che da aspri conflitti fra capitale e lavoro e dall'esplosione rivoluzionaria che porterà alla nascita della Comune, da ben due guerre, quella austro-prussiana del 1866 e quella franco-tedesca del 1870. Senza il movimento autonomo della classe operaia a quel tempo in ascesa in buona parte dell'Europa, vale a dire senza gli scioperi del 1867-68 e quelli del 1869, l'Ait non sarebbe mai diventata una “forza reale”, secondo l'espressione usata da Léonard, che richiama a questo proposito anche le parole di Franz Mehring (“Tutto quel sangue sparso venne a nutrire l'Internazionale”). D'altro lato, l'autore da anche opportunamente conto di come gli anni della guerra franco-tedesca, del crollo del Secondo Impero e della Comune, siano segnati da una tensione costante, tanto in seno all'Ait quanto, più in generale, all'interno della classe lavoratrice francese e addirittura nello stesso Consiglio della Comune, fra le spinte più avanzate, genuinamente internazionaliste, e la zavorra dello sciovinismo e dei pregiudizi antitedeschi (la cui persistenza fra i lavoratori transalpini è del resto comprensibile, dato il contesto). Sullo sfondo, ma neanche troppo, rimangono inoltre altri fantasmi: quello dell'antisemitismo (profondamente diffuso fra le classi popolari e le élite intellettuali, anche socialiste, dell'epoca, tanto da fare ripetutamente capolino, come già ricordato, nella polemica di Bakunin e dei suoi contro Marx), le accuse incrociate di panrussismo e di pangermanesimo e, certo non ultimo, il pervicace sessismo che impregna il movimento operaio ottocentesco (significativi, da questo punto di vista, i ripetuti riferimenti dell'autore alla misoginia dei proudhoniani e la menzione dell'episodio dello sciopero delle setaiole di Lione, “appuntamento mancato tra il movimento operaio e il movimento femminista”). Tornando quindi alla nostra osservazione iniziale, se è vero che la storia del passato serve (anche) ad avere delle coordinate di massima per orientarsi nel presente, bisogna ammettere che il lavoro di Léonard si presta molto bene allo scopo, e proprio per ciò che si diceva poc'anzi. Cominciata sotto l'egemonia ideologica del proudhonismo, dunque all'insegna del rifiuto della lotta politica e di una preminenza assegnata alle questioni economico-sociali e in particolare al tentativo/possibilità di edificare una società libera dallo sfruttamento tramite l'associazione dei lavoratori in cooperative, la storia della Prima Internazionale prosegue con la vittoria del principio collettivista, che coincide grosso modo con il congresso di Bruxelles (settembre 1868): fu allora che sembrò ormai “largamente condiviso”, scrive l''autore “il principio secondo cui le miniere, le ferrovie, i canali, le strade, le linee telegrafiche e i boschi debbano essere collettivizzati. Resta da mettersi d'accordo su chi li debba gestire”. Messe da parte le utopie proudhoniane miranti ad instaurare una società di piccoli proprietari beneficianti del credito gratuito (“una fantasia degna di un bottegaio”, aveva sibilato Marx in Miseria della filosofia), il fronte collettivista ormai vittorioso si spacca e due diverse concezioni del “collettivo” si confrontano in quel congresso: “secondo una di queste, è l'associazione dei lavoratori a incarnare la volontà dell'intera società sostituendosi allo Stato; secondo l'altra, è lo Stato, entità astratta e proteiforme, a rappresentare la volontà dei lavoratori”. Come si vede, siamo qui in presenza di una questione ancora oggi dibattuta, come testimonia la fortuna della già richiamata categoria di “comune” e di “bene comune”, che si sforza (alla maniera di un De Paepe durante l'assise di Bruxelles) di tirare fuori dal cilindro hic et nunc un “collettivo”, un “partecipato”, allo stesso tempo “non statale”. Fin qui, tuttavia, (e tuttora, temiamo) la questione viene posta nel dibattito interno all'Ait in maniera piuttosto astratta, e sarà solo tramite le traumatiche e sanguinose vicende della guerra franco-tedesca e della Comune di Parigi che si aprirà la terza fase, che Léonard definisce “della lotta di classe” e che sfocerà nel progressivo predominio delle teorie marxiane (compiutosi tuttavia a prezzo di una scissione della componente anarchica che nel volgere di pochi anni porterà l'Ait “ufficiale” all'autoestinzione). Segnaliamo incidentalmente l'estremo interesse, come documento comprovante la crescente influenza e notorietà di Marx tanto in seno all'Ait quanto a livello di opinione pubblica mondiale, dell'intervista rilasciata dal pensatore di Treviri al giornale statunitense The World nel luglio del 1871, che Léonard ha opportunamente inserito nell'appendice del volume (contenente anche l'indirizzo inaugurale dell'Ait, scritto sempre da Marx nel 1864, e gli statuti provvisori di quest'ultima redatti poco dopo l'assemblea di fondazione tenutasi al Saint-Martin's Hall di Londra nello stesso anno). A partire dall'esperienza parigina matura in molti aderenti all'associazione la consapevolezza della centralità della questione politica. Nella Comune Marx individua, secondo le celebri parole de La guerra civile in Francia (testo che nasce come documento di indirizzo del Consiglio generale dell'Ait e che l'autore del Capitale comincia a scrivere l'ultimo giorno della settimana di sangue), “la forma politica, finalmente scoperta, nella quale si poteva compiere l'emancipazione economica del lavoro”. Il “vero segreto” della Comune veniva quindi identificato da Marx con il suo essere “essenzialmente un governo della classe operaia”. Poiché è precisamente in questa fase, come scrive Léonard, “che il nome di Marx esce dalle cerchie iniziatiche”, è facile capire come l'ultimo stadio di sviluppo della storia della Prima Internazionale sia caratterizzato dalla crescente tematizzazione della questione del potere politico e della sua necessaria conquista da parte della classe lavoratrice. Un potere egualitario, all'insegna della democrazia più radicale, “partecipato” e “comune” (lo dice il nome!), se vogliamo, ma non di meno statale (sia pure di uno Stato che pone le premesse per la propria stessa estinzione e che prende le mosse dalla distruzione della macchina burocratico-poliziesca ereditata dal regime precedente, come avrà modo di argomentare diffusamente Lenin in Stato e rivoluzione). Su questo tema, e su quello correlato della necessità del centralismo organizzativo in vista dell'“assalto al cielo”, si consumerà la rottura con la componente anarchica al congresso dell'Aja (settembre 1872), che vede l'espulsione di Bakunin, e sarà questa impostazione ormai apertamente politica e “statalista” (ma quest'ultima è evidentemente un'etichetta impropria e fuorviante) a dare l'impronta alla fase successiva della storia del movimento operaio, caratterizzata dalla nascita dei partiti di ispirazione socialista su base nazionale. A questo proposito, e per concludere, ci sembrano opportune alcune osservazioni critiche riguardanti le valutazioni che Léonard propone nelle pagine conclusive del volume. L'autore, di tendenza libertaria, sembra stabilire in effetti una linea di continuità fra il nuovo corso sopraccennato, che emerge più o meno verso la fine degli anni Settanta dell'Ottocento, e la tendenza al riformismo. Come se la scelta del partito come forma organizzativa, la ripulsa dell'astensionismo e la partecipazione, in quanto partito, al gioco politico nazionale comportassero automaticamente il passaggio ad un'ottica gradualista, di collaborazione di classe e nazionalista. Ora, se è senz'altro vero, sul piano degli eventi storici, che gli anni Settanta e Ottanta del XIX secolo vedranno l'emergere dei grandi partiti socialdemocratici, Spd in primis, e di quella Seconda Internazionale che morirà di scarso internazionalismo il 4 agosto del 1914, la correlazione fra la forma organizzativa del partito e il riformismo appare quanto meno discutibile. Così come appare dubbia anche un'altra idea dell'autore, quella per cui il tentativo di tenere insieme la forma partito, la rivoluzione e la marxiana dittatura del proletariato avrebbe come necessarie conseguenze lo stalinismo e la tirannide più pura. Questa seconda convinzione di Léonard è a nostro avviso leggibile fra le righe del giudizio liquidatorio che lo storico francese da del bolscevismo, assimilato al blanquismo e messo in una relazione diretta e molto poco problematica con il “modello unico del Partito-Stato”. Stupisce che l'autore di questa rigorosa ricerca, che riconosce senz'altro il valore del marxismo come strumento analitico, citi, a proposito del problema della “burocrazia rossa”, Bakunin (che pure ebbe senz'altro delle importanti intuizioni in proposito) e non la figura e il pensiero di Lev Trotskij, anche solo per criticarli o distanziarsene. Di fatto, quella dell'organizzatore dell'armata rossa fu una critica della burocrazia svolta su basi marxiste, e qualche riferimento ad essa nel contesto di cui si è detto sarebbe stato quanto mai opportuno. Quanto alla questione del rapporto fra stalinismo e bolscevismo, notiamo en passant che Trotskij dedicò uno dei suoi scritti al tema, scagliandosi contro l'idea dello “sviluppo del bolscevismo nel vuoto” e volendo con questo significare che le cause del Termidoro burocratico non dovevano essere ricercate in una sorta di autogenerazione del concetto “bolscevismo”, che conterrebbe in se lo “stalinismo”, ma nelle concrete condizioni storiche, materiali, che caratterizzarono la vita del giovane Stato sovietico rimasto isolato, ancorché in piedi e vittorioso, dopo la conclusione della guerra civile. Piccole omissioni, forse dovute ad esigenze di spazio, in un libro che conserva intatto il suo valore e che si occupa in realtà di una fase ancora precedente, caotica, creativa, e proprio per questo molto interessante, dello sforzo storico di organizzare e dare l'assalto al cielo. (16 dicembre 2013)

meglio riassumere… Dal forcone alla …forchetta. Perché la ricetta è sbagliata. - da rimarchevole.wordpress.com il meta blog della provincia di (PU)

Disoccupazione galoppante, partiti che si scannano per la legge elettorale, Berlusconi che minaccia rivoluzioni a misura del suo doppioppetto, Renzi che si trasforma a seconda delle platee, Grillo che fa il portavoce di tutti, il nostro Paese più che di una uscita dall’euro meriterebbe un ingresso alla neuro. Ma, visto che pare che finalmente l’estrema destra italiana, quella dell’autarchia e della moneta stampata in casa con l’effige di Benito, abbia trovato il modo di fare rete e di movimentare dei “Forconi”, movimento già spaccato appena nato (vedi le polemiche tra leader, ovviamente maschi -Fierro e Fiore- di questi giorni ma anche le inedite alleanze forconiane Fiore-Morsello-Sgarbi di poco tempo fa), visto che pare che la destra tenta la mossa greca, cioè tenti la sommossa per poi fare la mossa … ed entrare in forze in parlamento (dal forcone alla forchetta), ci pare il caso di approfondire il tema cardine di questo movimento, L’uscita dall’euro come soluzione miracolosa ai nostri mali. Lo facciamo ricordando ai tanti che si sono fatti affascinare da questo marchio dei “Forconi” che in Italia esiste da tempo una rete di persone, gruppi e associazioni che si occupa, che battaglia, che informa seriamente sulla questione del DEBITO, che cerca e pratica alternative. Sono i tanti gruppi e persone che si occupano di microcredito, di etica bancaria, di gruppi di mutuo aiuto, di gruppi di acquisto, di cooperativismo. Proprio in questi giorni Attac Italia sta facendo un appello per una diversa gestione, una socializzazione, della Cassa depositi e prestiti, un altro esempio è l’esperimento della moneta di scambio Scec fatta in tante regioni, e dell’autofinanziamento proposto dalla rete dei Gas italiani, i gruppi di acquisto che sorreggono l’economia di tanta produzione bio italiana vera. Lo abbiamo ricordato anche lo scorso anno in una dettagliata mostra intitolata “Ma cos’è questa crisi” esposta presso l’Infoshop di Fano a cura di Alternativa libertaria-FdCA, Fano in transizione, Gruppo cohousing, Femminismi e Rete 99%, della quale riportiamo sul blog i materiali costitutivi che comprendono interessanti tabelle e grafici. Se fosse per la zero credibilità del sedicente “Movimento di liberazione dalle banche”, sito web che propugna un programma politico di uscita dall’euro coniugata con un governo “transitorio retto dalle forze dell’ordine”, cioè un colpo di stato fascista, non perderemmo neanche tempo a discutere ma inviteremmo tutti a prepararsi a difendere l’Italia dai nuovi Beniti. Però tante persone, disperate, incazzate, schifite dalla politica istituzionale, si sono incuriosite e avvicinate ai Forconi, per questo ci sembra il caso di portare elementi seri e circostanziati per spiegare perché l’uscita dall’euro è, scusate il termine, una puttanata. Anche Paolo Barnard, un tempo collaboratore di Report ed ora diffusore del verbo di un economista (milionario) americano, Mosler, che propone l’uscita dall’euro, ci pare ben poco credibile, e andiamo a citare uno degli economisti marxisti più autorevoli in Europa e nel mondo, una persona che non ha interessi personali a dire null’altro che ciò che scientificamente studia, per il perché. Si tratta di Riccardo Bellofiore, autore nel 2012 di un breve volumetto intitolato “La crisi globale, l’europa, l’euro, la sinistra” che ci pare un utile strumento per capire senza lasciarci andare a catastrofismi e a un astrattismo privo di relazione con la realtà complessiva della nostra società. Un versione riassunta in una articolo del 2011 sulla situazione in Grecia, autori Riccardo Bellofiore e Jan Toporowski, ci dà il senso della complessità della situazione e indica soluzioni più complesse ma certo più valide e soprattutto gestibili a livello democratico-popolare: “La Grecia non è responsabile della crisi europea. Se l’euro fosse ristretto a Germania e ‘satelliti’ la crisi poteva scoppiare in Belgio (rapporto debito pubblico/PIL al 100%). La variabile chiave non è il debito, in rapporto al PIL o in assoluto, ma quanto la banca centrale si rifiuta di rifinanziare. L’ideologia per cui le banche centrali dell’UE devono acquistare titoli privati, persino tossici, non titoli di stato, è stata incrinata: ma troppo timidamente. La BCE ha aderito a fondi di stabilizzazione, ampliato la durata delle concessioni di liquidità, esteso la gamma dei titoli che accetta, e rifinanzia i titoli di stato sui mercati secondari. Si dovrebbe però garantire stabilmente la liquidità del mercato dei titoli pubblici: anche solo sui mercati secondari, con un intervento annunciato, credibile e continuo. Il default non dovrebbe essere un problema. Parte della sinistra ne pare convinta e propugna il diritto al default. Si suggerisce anche di uscire dall’euro per guadagnare competitività. Bisognerebbe chiedersi cosa succederebbe al sistema bancario se ciò che si desidera accadesse. Il default unilaterale lo fa crollare: il governo si rifiuta di pagare le proprie banche, dovendo tornare a chiedergli prestiti; per le banche svanisce il valore dei titoli di stato, e finiscono insolventi. L’uscita dalla moneta unica aggrava le cose, per una previa fuga dei depositi in euro, seguita dal valore delle passività che schizza verso l’alto nella nuova valuta. L’accordo di giovedì mattina è ingannevole. Si è concordata con i creditori della Grecia una sorta di bancarotta dentro l’euro. Può a prima vista avere il merito di ‘tagliare’ buona parte di crediti inesigibili, evitando di uccidere il malato con i salassi. L’haircut è però finanziato in modo improbabile da un fondo di stabilizzazione su cui (oltre Halevi sul manifesto) vale quanto profeticamente scrive Münchau lunedì scorso sul Financial Times: moltiplica fittiziamente le munizioni per il soccorso costruendo un effetto leva e una ‘assicurazione’ sui prestiti di tossicità pari all’opaco meccanismo sottostante i subprime. A termine amplifica, non risolve, la crisi. Dietro la parola d’ordine del ‘diritto all’insolvenza’ stanno ragioni forti: resistere all’austerità; contestare l’illegittimità di parte della spesa pubblica, e le condizioni imposte dalla finanza per finanziarla. La campagna per un audit sul debito è giusta. Ma l’insolvenza non è la bacchetta magica. E per chi ci facesse un pensiero, l’Italia non è lo stesso gioco della Grecia. Non è destinata al default, né si salva con l’illusionismo. Giacché sul Fatto quotidiano ha ricordato due cose. Al debito pubblico corrisponde ricchezza privata, detenuta da investitori, banche, compagnie assicurative, fondi italiani, per circa il 30%: lavoratori e ceto medio sarebbero colpiti duramente. Poi, praticare un default selettivo è di difficile praticabilità: si può selezionare le passività di cui negare il pagamento, non i creditori. L’attesa di un default dei paesi in difficoltà e della implosione dell’area attivano una tenaglia descritta da Pitagora. Sul piano globale: i fondi fuggono dall’euro verso il dollaro, con gli Stati Uniti che evitano per adesso la discesa nel baratro. Dentro l’area dell’euro: si fugge dai titoli degli stati a rischio verso quelli degli stati forti. Il depauperamento di famiglie e imprese aggrava la deflazione da debiti nelle aree in difficoltà, portando a una contrazione della domanda (interna) e lasciando l’onere del traino sulle spalle di una (ipotetica) domanda estera. A seguito della paralisi del sistema bancario, dell’esplosione del debito estero, dell’esclusione dal credito internazionale e del razionamento di quello interno, default + svalutazione aumentano il peso del riaggiustamento sul potere d’acquisto dei lavoratori. E’ vero che nel caso italiano (secondo esportatore di manufatti in Europa) un balzo verso l’alto della competitività non è una chimera. Il recupero dei profitti non sarebbe però legato a un miglioramento tecnico-organizzativo, e seguirebbe (in un paese dipendente dall’estero per materie prime e alta tecnologia) un forte aumento dei prezzi delle importazioni. La crisi va battuta fermando l’effetto domino e aprendo una speranza: affrontando contemporaneamente crisi finanziaria e crisi reale. Dal lato finanziario occorre riscadenzare i pagamenti e abbattere i costi del debito. In Grecia, le banche hanno sostenuto il debito pubblico, rifinanziandosi con la BCE. Meccanismo indiretto ma efficace, se pure ‘disegnato’ perversamente: con tassi di interessi da usura, e nutrendo la speculazione. I governi colpiti da tassi d’interesse usurari sui titoli a lunga possono, però, abbassarli. Emettono un largo ammontare di propri effetti a breve scadenza, acquistati dalle banche attratte da un interesse più alto dei loro depositi presso la banca centrale. La moneta raccolta è usata per acquistare le proprie obbligazioni a lunga nel mercato secondario. Il prezzo di mercato sale, abbattendo il tasso effettivo d’interesse; e le banche non vendono i titoli di stato in perdita. La manovra consente al governo di piazzare i titoli a lunga a rendimenti effettivi più bassi di quelli attuali, finanziando le operazioni correnti e restituendo l’indebitamento a breve. L’ossessione di istituzioni e commentatori sulla ricapitalizzazione delle banche elude invece il cuore della questione. Ha ragione Schumpeter: un sistema bancario è solido solo se lo è l’economia in cui opera. Il nuovo capitale non sarà mai sufficiente. Non migliora l’attivo delle banche,e i debiti cresceranno comunque per i bisogni di finanziamento dei governi. Il problema è far divenire sicuri titoli di stato potenzialmente rischiosi: il che comporta garantirne permanentemente la liquidità sui mercati secondari. Solo il rilancio dell’economia reale può portare a un pareggio del bilancio pubblico, come pretende la BCE. Il pareggio è obiettivo sensato esclusivamente per la spesa corrente e in riferimento al reddito di pieno impiego. Oggi ci vogliono investimenti pubblici per combattere disoccupazione e precariato. Tutto ciò richiede disavanzi primari dello stato: un accrescimento del rapporto debito pubblico/PIL, riassorbito tramite un aumento del denominatore. Disavanzi ‘buoni’ (Parguez), produttivi non solo di domanda, reddito e occupazione più alti, ma anche di migliore composizione della produzione. Il vero problema è la deflazione da debiti, lo ‘sgonfiamento’ maligno (perché ricade sull’economia reale) dei bilanci. Il governo deve fornire asset solidi alle banche: prendere a prestito di più, ma per coprire spese che contribuiscono allo sviluppo reale dell’economia, a valori d’uso per la società. Dal lato delle entrate, l’equilibrio di bilancio va perseguito aumentando l’imposizione fiscale sui ceti abbienti: maggiore progressività del prelievo, patrimoniale, lotta all’evasione, sono ineludibili. Dal lato delle spese, il settore privato non è trainante nella ‘reflazione’. La spesa dei governi, al netto degli interessi, sul debito, deve essere aumentata (altrimenti la base imponibile sarebbe falcidiata, e il rapporto debito/PIL crescerebbe). Gli stati possono aumentare i salari nel pubblico impiego, accrescere il salario minimo e introdurre sostegni al reddito. Con la ripresa bisognerebbe favorire un aumento più generalizzato dei salari. L’austerità impedisce che si generino i desiderati avanzi per pagare il debito. Per questo va posto esplicitamente l’obiettivo che i disavanzi primari siano mantenuti sino a che la crescita nominale non riduca la quota del debito. Le misure su salario/reddito e disavanzi intendono far emergere, in condizioni socialmente accettabili, quel processo inflazionistico europeo che renderebbe l’uscita dal debito relativamente veloce e indolore. Non sarebbe così se i disavanzi si concentrassero soltanto sui paesi che sperimentano una deflazione dei prezzi (al netto dell’inflazione da materie prime, tariffe, trasporti, etc.), e si mantenesse l’intento di sopprimere l’aumento dei prezzi. La BCE deve mutare esplicitamente indirizzo, mantenendo liquido il mercato dei titoli di stato per accompagnare i necessari disavanzi pubblici primari. Qui si apre il tema più complesso. La stabilizzazione finanziaria deve accompagnarsi alla reflazione della domanda, ma quest’ultima deve tradursi in una riqualificazione della spesa pubblica, che muti i caratteri dell’offerta e rafforzi il welfare. La crisi è capitalistica. E’ appena a metà del suo decorso naturale: fatto di svalorizzazione e centralizzazione del capitale; dell’apertura di nuovi orizzonti alla valorizzazione; di nuove ‘recinzioni’ dei beni comuni. Porta con sé un violento attacco contro il lavoro nel pubblico e nel privato, domestico e migrante, nella produzione e nella riproduzione. La disoccupazione di massa di un lavoro tutto precario è la ‘nuova normalità’. E’ urgente rispondere alla domanda di una diversa prosperità e di una difesa dall’insicurezza pervasiva (la capital asset inflation ha maturato consenso nel ceto medio e nel mondo del lavoro perché forniva una illusoria difesa). E’ urgente un programma minimo il cui centro siano la socializzazione degli investimenti, le banche come public utilities, lo Stato garante diretto di buona e piena occupazione, il controllo dei capitali. Un altro intervento di Bellofiore, del quale suggeriamo la lettura integrale, è quello apparso su Sbilanciamoci sempre nel 2011, a caldo sulla questione greca e con indicazioni chiare sulla politica economica da attuare per uscire dalla crisi: “(…) La Grecia non c’entra La crisi europea non è dovuta alla Grecia. Il colpevole non è l’indebitamento pubblico di un particolare paese, nel suo ammontare assoluto o in proporzione al Pil. Quello che conta è la volontà o meno della banca centrale rilevante, qui quella europea, di rifinanziare i disavanzi dello Stato. Se il ‘fallimento’ viene escluso come soluzione, la via d’uscita sta nella alternativa, o nella combinazione, di inflazione e crescita. L’inflazione è oggi impedita dalla stessa crisi, ma prima o poi tornerà attraente. La crescita viene sabotata all’interno dalle politiche europee, mentre la domanda esterna va svanendo. Resta solo la deflazione da debiti. Ci si potrebbe chiedere se non sarebbe meglio uscire dall’euro. L’evoluzione della situazione, prima o poi, potrebbe portare a una dissoluzione della moneta unica. Allo stato delle cose è però un consiglio della disperazione. Basterebbe, in fondo, ricordarsi dello stesso caso italiano dei primi anni Novanta, in cui le condizioni erano migliori, e come ne è uscito il lavoro. Esisteva una alternativa? Negli anni Novanta, Suzanne de Brunhoff aveva suggerito di introdurre non una ‘moneta unica’ circolante tra il pubblico, ma una ‘moneta comune’: una moneta di riserva per le regolazione dei saldi tra banche centrali europee, dentro un accordo di cambi fissi. Fissi, ma aggiustabili: con modifiche delle parità nell’eventualità di deficit commerciali permanenti di alcuni paesi, con un impegno simmetrico da parte dei paesi in surplus alla riduzione dei loro avanzi. E già nel 1992 Jean-Luc Gaffard, aveva ricordato il ‘paradosso della produttività’. Un salto di produttività richiede un previo finanziamento: la nuova produzione scaturisce solo successivamente. La convergenza reale tra le economie europee avrebbe richiesto politiche opposte a quelle di Maastricht: creazione di credito a sostegno dell’innovazione privata; crescita di disavanzi statali ‘produttivi’. Inizialmente, l’una e gli altri non possono che dar luogo a più elevata inflazione e ad un innalzamento del rapporto debito/Pil. L’aumento dei prezzi e lo ‘squilibrio’ fiscale saranno però riassorbiti al successo di quelle misure e di quelle politiche. Un inedito new deal Il superamento degli squilibri ‘reali’ europei non richiede di intervenire solo con la reflazione della domanda. E neppure dal solo lato del salario in rapporto alla produttività. Occorre, simultaneamente alla stabilizzazione finanziaria, un intervento sull’offerta. Come ha osservato Yanis Varoufakis, gli eurobond, oltre che consentire di soccorrere a costi contenuti i paesi in difficoltà, devono finanziare una espansione congiunta degli investimenti pubblici su scala europea. Un inedito New Deal che intervenga direttamente sui vincoli strutturali alla crescita, migliorando qualità del prodotto e innalzando la forza produttiva del lavoro. Strumento di una ‘riforma’, non solo di una ‘ripresa’. Questo apre alla questione dei contenuti della ‘riforma’: della composizione, e non solo del livello, della spesa e della produzione. Il problema che ci si squaderna davanti non è tanto la democrazia, quanto puramente e semplicemente il capitalismo. Come ci ricorda Alain Parguez, ci sono disavanzi ‘cattivi’ e disavanzi ‘buoni’. I disavanzi ‘cattivi’ sono il risultato non pianificato del collasso delle economie, delle varie terapie shock, degli interventi deflazionistici, della stessa insostenibilità della finanza perversa. I disavanzi ‘buoni’ sono pianificati ex ante, il loro scopo è la costituzione di uno stock di risorse utili e produttive. Un ‘mezzo’ alla produzione di ricchezza e non di (plus)valore. Un investimento di lungo termine in ricchezza tangibile (infrastrutture, riconversione ecologica, mobilità alternativa, etc.) e intangibile (salute, istruzione, ricerca, etc.). Le questioni del genere e della natura divengono cruciali. E il welfare non si esaurisce nella erogazione di sussidi monetari, ma è intervento sui valori d’uso che costituiscono la ‘riproduzione’. Qui torna utile la riflessione di Minsky nel suo Keynes e l’instabilità del capitalismo del 1975. La sua prospettiva è quella di una ‘socializzazione dell’investimento’, accoppiata ad una ‘socializzazione dell’occupazione’ e ad una ‘socializzazione della banca’. Dobbiamo tornare alla prima casella, sostiene Minsky. Al 1933. Ripensare un keynesismo del New Deal. Siamo alle domande di base: ‘per chi il gioco è fissato’; ‘quale è il tipo prodotto che si vuole’. Una società dove un migliore consumo è trainato dall’investimento pubblico, come motore della domanda autonoma e di un diverso sviluppo. Impossibile, scrive, senza la ‘socializzazione dei quartieri generali’, il consumo come dimensione ‘comune’, il controllo dei capitali, la regolazione della finanza, le banche come public utilities e il loro drastico snellimento. In questa ottica, per Minsky come per Parguez, lo Stato deve provvedere ad una creazione ‘diretta’ di occupazione. Lo dicevano pure Ernesto Rossi e Paolo Sylos Labini. È chiaro che è un discorso dimezzato. Manca il lato del lavoro, non come oggetto ‘passivo’ ma come soggetto ‘attivo’. C’è solo il lato di una politica di ‘piano del lavoro’: un orientamento della politica economica al valore d’uso. Senza l’altro lato, il lato delle lotte del lavoro socializzato, non si va da nessuna parte. Ma come lamentarsene troppo, quando la sinistra si scorda entrambi i lati e recede alle spalle di un keynesismo radicalizzato? La questione che abbiamo davanti non è nazionale e non è tecnica: è politica e sociale. Ed è europea. Una sinistra degna di questo nome dovrebbe affrontarla su questa scala: continentale. Non mi illudo che questa coscienza sia diffusa. In fondo, spesso, quando va bene, ci si barcamena tra alternative protezionistiche, acrobazie salarialiste, proposte di basic income, e così via. O si affoga nella confusione del lavoro o della moneta definiti beni comuni, o si chiama a occupare le sedi europee per ascoltare le lezioni degli economisti critici. Se la natura della crisi è quella che si è detta in queste pagine, e dunque se questa è la sfida, vi è la necessità che si metta mano ad una sinistra di classe. La sinistra alternativa è morta: prima ce ne si accorge meglio è. “ Sulla questione dei forconi, e del progetto di riciclo ideologico neofascista, suggeriamo due link: -Il comunicato stampa dei comunisti anarchici FdCA sulla questione -Un sunto delle posizioni abbastanza confusionarie della destra estrema italiana, su A rivista anarchica. Fedeli… alle linee.

La polizia reprime l’azione degli anarchici cubani

A Cuba , la repressione di stato contro gli oppositori sta aumentando . A Cuba gli anarchici stanno lottando per disvelare la funzione della nuova riforma del mondo del lavoro imposta dal governo, progettata per spianare la strada ad un nuovo modello statale, da stato comunista-capitalista a stato capitalista-liberale. I nostri compagni anarchici sono stati arrestati , detenuti e licenziati a causa delle loro prese di posizione. Nel l'ultimo periodo , i membri anarchici di Observatorio Critico sono stati minacciati perché continuano a discutere pubblicamente e a denunciare le conseguenze di queste riforme . Domenica 29 settembre 2013 per esempio , 13 compagni hanno lottato per esprimere queste posizioni nel parco di El Curita . La polizia è intervenuta impedendo la discussione. Il Partito Comunista e l'Unione dei Lavoratori di Cuba hanno sollecitato pubblici dibattiti , ma solo nei luoghi di lavoro controllati delle istituzioni statali e delle sezioni sindacali. Un compagno, Isbel Díaz Torres, è stato arrestato. I poliziotti gli hanno riferito che non permetteranno alcuna attività controrivoluzionaria. E’ chiaro quanto siano differenti i due concetti di rivoluzione : quella della polizia e dello stato che mira a dare continuità all’esercizio del potere , e quella dei compagni che cerca di liberare e socializzare la capacità di autogestione popolare . Un altro compagno , Jimmy Roque , è stato recentemente licenziato. Queste intimidazioni e l'uso di metodi repressivi devono essere denunciati . Faremo del nostro meglio per aiutare i nostri compagni cubani che stanno affrontando la lotta, sostenendo la loro ricerca della “rivoluzione nella rivoluzione” . INTERNAZIONALE DELLE FEDERAZIONE ANARCHICHE (IFA) 2 dicembre 2013

Gli avanzi del nuovo - di G. Cremaschi

Il peggior lascito del ventennio berlusconiano si chiama Matteo Renzi. Nonostante il colpo di fulmine che ha provocato in Maurizio Landini, penso che il segretario del PD rappresenti l'ennesima riverniciatura delle politiche liberiste che ci han portato a questa crisi e che ora la stanno aggravando. Lo dimostrano i primi suoi atti di governo. Il suo staff sta preparando un altro attacco all'articolo 18, quello che nell'Italia garantista solo verso i potenti suscita scandalo perché stabilisce che chi è licenziato ingiustamente, se il giudice gli dà ragione, deve tornare al suo posto di lavoro. Questo principio di civiltà ha già molte limitazioni, non si applica sotto i quindici dipendenti ed è reso nullo dalla marea di contratti precari. Inoltre con un accordo con il governo Monti CGIL CISL UIL hanno accettato di liberalizzare i licenziamenti cosiddetti economici, che in una crisi come questa significa via libera alla cacciata di tante e tanti. Ma nonostante questo ultimo atto di autolesionismo sindacale Renzi vuole di più. Il progetto per il lavoro annunciato dal suo staff prevede la cancellazione dell'articolo 18 per tutti i nuovi assunti. In cambio verrebbero diminuiti i contratti formalmente precari. Questo per la ovvia ragione che essendo possibile il licenziamento a discrezione, il contratto precario perderebbe ragione d'essere. Se posso cacciarti quando voglio perché devo scervellarmi a trovare il contratto capestro più adeguato, semplicissimo no? È ovvio che questo è solo un passaggio intermedio verso l'abolizione totale della tutela contro i licenziamenti ingiusti. Infatti se tutti i nuovi assunti saranno privi di quella tutela per un bel po' di tempo, le aziende saranno interessate a chiudere e licenziare per riassumere senza diritti. E chi li dovesse mantenere sarebbe considerato un privilegiato da combattere. Il renziano Pietro Ichino sostiene anni che nel mondo del lavoro vige l'apartheid come nel Sudafrica prima della vittoria di Mandela. Peccato che così si faccia l'eguaglianza a rovescio. Come se in quel paese, invece che estendere ai neri i diritti dei bianchi, si fosse deciso di rendere tutti eguali togliendo quei diritti a tutti. La soppressione dell'articolo 18 non è certo una novità. Da sempre in Italia è rivendicata dalle organizzazioni delle imprese quando non sanno che dire e fu tentata dal governo Berlusconi nel 2002. La CGIL di allora però riuscì a impedirla. In Spagna i governi hanno da tempo liberalizzato i licenziamenti, e quel paese oggi è l'unico grande stato europeo con un tasso di disoccupazione superiore al nostro. In Francia ci provò il presidente Sarkozy a introdurre una misura simile a quella che piace oggi a Renzi. Fu fermato da una gigantesca protesta giovanile e popolare. La seconda iniziativa del neoeletto leader è stata quella di mettersi di traverso rispetto a quella che è stata chiamata la Google tax. Cioè un tenuissimo provvedimento di tassazione sugli affari delle grandi multinazionali che operano nella rete e che hanno sede legale in paradisi fiscali. Queste società guadagnano miliardi da noi e non pagano un centesimo, come ha ricordato quel comunista di Carlo De Benedetti. E come soprattutto ricorda la Corte dei Conti, che da tempo afferma che la quota più rilevante dei tanti miliardi che mancano al fisco viene dalla elusione fiscale delle grandi società che giocano con le sedi legali all'estero. Il progressista Renzi ha subito detto a Letta che questa tassa non s'ha da fare, e così è stato. Viene da chiedersi, ma dove sta il nuovo in tutto questo? Sviluppare l'economia con la flessibilità del lavoro e la detassazione dei ricchi e delle multinazionali, è il principio guida delle politiche liberiste che hanno dominato negli ultime trenta anni. Siamo ancora qui, sono queste le "riforme"? Se è così, il progetto di Matteo Renzi più che essere il nuovo che avanza, è l'avanzo di quel nuovo che ci ha portato al disastro attuale. [www.rete28aprile.it]

giovedì 12 dicembre 2013

Destra, forconi, forze di stato sulle barricate della reazione

Nulla di strano. Tutto quello che sta accadendo era facilmente prevedibile. La discesa in piazza dei padroncini diseredati e dei ceti medi colpiti dalla crisi e dall’aumento delle tasse sta avendo un successo previsto. L a crisi della rappresentanza politica, o meglio l’impossibilità di organizzare gli interessi di ampi settori sociali falcidiati dalla crisi e dalle ricette neoliberiste sta producendo i suoi effetti. Tentazioni barricadiere cercano incautamente di inserire "i forconi" sociologicamente nella lotta contro lo Stato oppressore, altri adducono che ogni cambiamento epocale, come quello della ristrutturazione capitalistica in atto, genera inevitabilmente turbolenze. Agli analisti di un risico lineare ed improbabile, bisogna ricordare che la rivoluzione sociale comunista e libertaria che abbiamo in mente e nei cuori, è e resta il lato propositivo dello sviluppo rivoluzionario. Eravamo facili profeti quando scrivemmo, alcuni anni fa, che l’abdicazione della CGIL ad assumere un ruolo di difesa degli interessi di classe avrebbe alla lunga prodotto una risultante destroide della protesta. La quale oggi è di destra non solo per la presenza di fascisti nostalgici e di leghisti razzisti, che pure vi sono, quanto per la mancanza totale di ogni prospettiva di cambiamento sociale, e tantomeno in termini solidali ed egualitari. E non è un caso che la destra del paese, a partire dai suoi organi di disinformazione ne tessa le lodi e ne spieghi la sofferenza. Le tasse questi le vogliono ridurre solo per loro, e magari che un bello Stato nazionale gli garantisca pure la pensione e l’accesso alla sanità gratuita, e se proprio bisogna fare dei sacrifici, si possono sempre buttare a mare -in quanto a diritti- tutti gli immigrati e fargli pagare a caro prezzo la loro presenza sull’italico suolo.... Nella storia abbiamo altre volte avuto momenti di scontro di classe con implicazioni e prospettive reazionarie. Spesso non si sono tramutati in Ordine e Disciplina fascisticamente consolidati, nella Vandea in Fancia, dove contadini rissosi ed un po’ bigotti che ancora si erano attardati ad essere plebe reale vennero sterminati dai governanti della repubblica borghese nascente; e nemmeno ai kulaki russi andò meglio, dato che il loro interesse cozzava profondamente con le esigenze del nuovo Stato Sovietico. Ma andò meglio ai bottegai salvati dal fascismo e dal nazismo, che divennero parte importante dei nuovi stati corporativi. I camionisti ed il loro sciopero in Cile vennero caldamente ringraziati da Pinochet. Oggi siamo di fronte ad una ricomposizione della destra sociale, che passa attraverso la destra classica dei cascami berlusconiani, ma anche attraverso l'implosione del PD. Ma la parte da leone la fanno il grillismo diffuso, fatto di attacchi alla casta e al privilegio fini a se stessi, ed il leghismo razzista dispensato per venti anni a piene mani. Sono davvero costoro che possono ricucire in chiave nazionale le anime ed i sentimenti prodotti dalla tragedia di trenta anni di liberismo capitalista, magari con le nazionalizzazioni, con l'uscita dall’euro, con la ripresa del ruolo dello Stato, o come lo chiamiamo? Chi si dice rivoluzionario non dimentichi che concetti come comunità, nazione, lingua,patria, bandiera tricolore, fanno rabbrividire e non appartengono al movimento operaio e socialista, di cui noi storicamente facciamo parte; chi oggi si spiega questi fenomeni in chiave solo sociologica, chi cerca -orfano- di trovare nei forconi germi di una sommossa di classe, tutti costoro dimenticano che non hanno alcuna capacità di agire, ben altri sono quelli che riescono a dare una veste politica al malcontento. Con molta attenzione, occorre rendersi conto che le scorciatoie ed i miti del blocco totale del paese, del barricadismo fine a se stesso, senza costruire coscienza solidale ed ugualitaria in organismi autonomi e libertari, potranno far esplodere tutta la loro carica ribelle, ma solo il tempo deciderà se avranno contribuito alla rivoluzione o a consolidare il potere dello Stato e della reazione. 11 Dicembre 2013 Segreteria Nazionale Federazione dei Comunisti Anarchici

a partire da Orwell - ateneo degli imperfetti di marghera

a partire da Orwell conversazione conLuigi Vero Tarca Docente di Filosofia teoretica Università Ca’ Foscari di Venezia introduce Francesco Codello Laboratorio Libertario Quello che sta accadendo (caso Snowden, servizi segreti, concentrazione mondiale del potere, guerra infinita, etc.) fa sì che Orwell venga sempre più frequentemente evocato come colui che aveva capito dove era diretto il mondo. Ma se Orwell aveva ragione, allora qualsiasi tentativo di ribellarsi o anche solo di immaginare un’alternativa è destinato al fallimento. È possibile uno sguardo che, a partire dal riconoscimento della verità della testimonianza orwelliana, sia in grado di attribuire un significato diverso a quello che sta accadendo? Per fare questo è necessario ripensare alla radice il sistema di riferimento filosofico all’interno del quale leggiamo la realtà, e accedere a una lettura “puramente positiva” di essa. sabato Luigi Vero Tarca Luigi Vero Tarca è professore ordinario di Filosofia teoretica presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia. Allievo di Emanuele Severino, ha elaborato una prospettiva filosofica basata sulla nozione della pura differenza. Ha pubblicato, tra l’altro: La filosofia come stile di vita. Introduzione alle pratiche filosofiche (Bruno Mondadori, Milano 2003; con R. Màdera); Dare ragione. Un’introduzione logico-filosofica al problema della razionalità, Cafoscarina, Venezia 2004); Quattro variazioni sul tema negativo/positivo. Saggio di composizione filosofica (Ensemble ‘900, Treviso 2006); A lezione da Wittgenstein e Derrida. Ovvero come diventa reale un dialogo impossibile (Mimesis, Milano-Udine 2012); Primum philosophari. Verità di tutti i tempi per la vita di tutti i giorni (Mimesis, Milano- Udine 2013; curato con L. Candiotto). Ha inoltre scritto numerosi saggi, tra i quali ricordiamo qui: “Tortura, dolore e potere. Per una lettura orwelliana del tempo presente”, in L. Zagato e S. Pinton (a cura di), La tortura nel nuovo millenio. La reazione del diritto, CEDAM, Padova 2010; “Lo spirito della tecnica: dal potere all’onnipotere”, in Gianluigi Pasquale (a cura di), Ritorno ad Atene. Studi in onore di Umberto Galimberti, Carocci editore, Roma 2012; “Il rovescio del diritto. Può la difesa dei diritti umani comportare un’ingiustizia?”, in L. Zagato e S. De Vido (a cura di), Il divieto di tortura e altri comportamenti inumani e degradanti nelle migrazioni, CEDAM, Padova 2012 sabato 14 dicembre 2013 ore 17,30 Ateneo degli Imperfetti Via Bottenigo 209 / Marghera VE

14 dicembre al Tuttinpiedi

Sabato 14 dicembre h. 18 video Tutti sotto un tetto (occupazioni di case 1972) h.20.00 buffet solidale cucina araba!

Domenica 15 dicembre assemblea sulle lotte nella logistica

Ciao, mentre le prime pagine riportano il “movimento dei forconi”, di una piccola borghesia che si sente minacciata e travolta dalla crisi, sentiamo l’esigenza di una riflessione su un movimento passato sotto silenzio dai media, ma che prosegue e si espande da due-tre anni, dal Nord al Centro e Sud Italia: il movimento di lotta dei lavoratori della logistica, organizzato dal SI Cobas. Un settore giovane di classe operaia, in gran parte immigrata, che svolge il lavoro di smistamento di una buona parte delle merci che noi consumiamo, e che ha avviato un ciclo di lotte, spesso dure e lasciando sul campo molti licenziamenti per rappresaglia (dall’Esselunga all’Ikea alla Granarolo), ma che quasi ovunque ha conquistato migliori condizioni economiche e lavorative e il rispetto dei lavoratori prima trattati con metodi schiavistici. Un movimento che va sostenuto, quale esempio per tutti i lavoratori, e il segnale di una possibile ripresa della lotta di classe in Italia, mentre l’offensiva padronale-governativa tende ad abbassare ovunque le condizioni lavorative al livello dei facchini. Solo da una ripresa delle lotte operaie potrà ripartire il movimento che metta in discussione il capitalismo e riapra la prospettiva di una società senza classi. Per questo come comunisti (COC e GCR) riteniamo utile una riflessione su questo movimento e sulle sue prospettive, invitando diversi protagonisti di queste lotte, tra cui il coordinatore nazionale del SI Cobas Aldo Milani. L’incontro si terrà nella nuova sede di Milano dell’Associazione Eguaglianza e Solidarietà, in via Cadibona 9 (a 8 minuti dalla stazione Vittoria del Passante, lungo viale Molise; fermata Cadibona della linea 90, 93, 91).

Battere il padrone-Fincantieri, il governo Letta e la UE

Lavoratori, lavoratrici, sulla questione-privatizzazioni mancava solo il carico da 90, ed è puntualmente arrivato. E' arrivato con l'intervento del commissario dell'UE Rehn che pretende dal governo Letta: 1)tagli ancora più pesanti alla spesa pubblica, a cominciare dalla spesa sociale; 2)privatizzazioni più ampie e immediate. E tutto ciò fa gioco al governo proprio per stringere i tempi delle due operazioni. Anche i dirigenti della FIOM si sono accorti di questa accelerazione, e si sono decisi a indire uno sciopero per il 12 dicembre con manifestazione a Roma per dire "No alla svendita-privatizzazione di Fincantieri", che metterebbe "a repentaglio i cantieri e con essi l'occupazione di migliaia di lavoratori". Era ora!, verrebbe da dire, accogliendo e rilanciando l'invito "tutti a Roma!". Ma questo appello alla lotta somiglia tanto ad un mezzo bluff, a una iniziativa una tantum, che non avrà seguito, decisa soltanto per mettere un po' di pressione (non troppa, comunque...) sul governo e magari sul futuro segretario del Pd, e per recuperare un po' del credito perduto tra i lavoratori. Per bloccare l'offensiva combinata della direzione Fincantieri, del governo, dell'Unione europea e degli "investitori" nord-americani invitati da Saccomanni al grande banchetto, però, non possono bastare atti dimostrativi: ci vuole ben altro! Questo blocco di interessi capitalistici è determinato a perseguire la svendita dei salari, delle condizioni di lavoro, dei diritti operai, ad imporci una catena di sacrifici senza fine. E lo si può contrastare e battere sul campo solo con una lotta vera, dura, ampia, che è la sola ed unica arma vincente a disposizione dei lavoratori. No, la lotta proletaria non è roba del passato. Ce l'hanno fatto vedere nelle scorse settimane i tranvieri di Genova (di Roma, di Livorno...), le popolazioni della cintura di Napoli massacrate dal biocidio, i lavoratori immigrati della logistica, irriducibili nonostante la repressione statale e padronale. Ce l'hanno fatto vedere gli operai della Electrolux, capaci di dare vita il 28 novembre a uno sciopero europeo di tutto il gruppo contro i licenziamenti in arrivo. E ce lo fanno vedere gli operai e gli sfruttati di paesi solo apparentemente lontani, dalle acciaierie dell'Egitto alle fabbriche tessili del Bangladesh e della Cina... Non c'è altra via per uscire dal tunnel sempre più buio in cui il sistema del capitale in crisi, sprofondato nella crisi più devastante della sua storia, ci ha costretti ad entrare e nel quale rischiamo di restare soffocati. Lavoratori, lavoratrici, sta a voi decidere se la giornata del 12 dicembre può (o no) essere trasformata nel momento iniziale della mobilitazione generale vera, forte, e non solo simbolica, di tutto il cantiere. Ma in ogni caso per fermare l'attacco in corso sarà determinante ritessere stretti rapporti con gli altri cantieri del gruppo, costituendo un coordinamento operaio tra di essi, perché se ogni cantiere continuerà, come negli ultimi anni, a procedere per proprio conto lasciando libero il padrone di stato di mettere un cantiere contro l'altro, non ci sarà partita. Per mobilitare tutte le energie dei dipendenti di Fincantieri, operai e impiegati, poi, bisogna unire, e non separare - come fanno FIOM, FIM e UILM - la lotta contro la privatizzazione e quella contro l'estensione del 6x6 e i peggioramenti che il padrone sta apportando all'organizzazione del lavoro. E bisogna rilanciare la denuncia e l'azione contro il super-sfruttamento e i metodi mafiosi che spesso imperano nelle ditte in appalto, per stringere in un solo fronte i dipendenti diretti di Fincantieri e gli operai degli appalti. E poiché le privatizzazioni decise dal governo e dagli enti locali riguardano centinaia di migliaia di proletari di Eni, Grandi Stazioni, Sace, aziende di trasporto locale, dobbiamo mettere in cantiere assemblee operaie congiunte tra i lavoratori dei diversi settori sotto minaccia, a cominciare da quelli dei trasporti. Ma si può e si deve guardare anche oltre. Perché il bisogno di dare finalmente una risposta forte, militante, ben organizzata all'attacco generale che stiamo ricevendo è sentito da una parte crescente della classe lavoratrice. Per questo, nel momento in cui anche a Marghera ripartirà la lotta, si tratti del 12 dicembre o di un altro giorno, questa lotta deve saper parlare all'intera classe lavoratrice con una lingua semplice: noi salariati, proletari, che produciamo l'intera ricchezza sociale lavorando sui materiali che ci dà la natura, e non abbiamo altra risorsa che le nostre braccia e i nostri cervelli, dobbiamo unirci contro il blocco degli sfruttatori e dei parassiti (padroni, governo, UE, borse, banche, dirigenti statali, etc.) che ingrassano, anche in tempi di crisi!, sul lavoro delle nostre braccia e dei nostri cervelli. Ed è solo la auto-attivazione e l'auto-organizzazione di massa, su larga scala che permetterà di unirci, e di rovesciare gli attuali rapporti di forza tra capitale e lavoro attraverso un potente seguito di lotte sui luoghi di lavoro e nelle piazze, la ripresa e la globalizzazione delle lotte e dell'organizzazione di classe sostenuta da un programma coerente con i bisogni vitali dei lavoratori. 5 dicembre 2013 Comitato di sostegno ai lavoratori Fincantieri Piazzale Radaelli 3 – Marghera comitatosostegno@gmail.com

venerdì 6 dicembre 2013

WAR GAMES! SOLO GAMES? - Gruppo Libertario Remo Tartari

La base NATO di Poggio Renatico, che per inciso davano tutti per spacciata ed in via di smantellamento, in realtà “lavora” che è una meraviglia: all'inizio del 2013 il Combined Air Operations Center 5 è stato disattivato dopo aver ceduto le proprie funzioni di comando e controllo al neo-costituito CAOC di Torrejon de Ardoz in Spagna, in realtà la base continua ad essere un centro operativo, e non certo di seconda categoria! Infatti sarebbe interessante sapere perché nonostante tutto all'interno del perimetro si continui a costruire ... mah, miracolo italiota! E tutto ciò nel silenzio più totale. Comunque il fatto che nella sonnacchiosa provincia estense si stia operando una “innocua” guerra simulata con scenari di crisi “internazionali” la dice molto lunga su ciò che ci aspetta in futuro, soprattutto tenendo presente che gli stati in tutto il mondo si stanno armando pesantemente. Perché tutto questo? “Loro” sanno qualcosa che “noi” non sappiamo? O che al massimo possiamo solo immaginare? Dal nostro punto di vista queste esercitazioni di guerra simulata, il progressivo riarmo degli stati, sono solo la fase preparatoria di una conflagrazione su scala mondiale. Il generale prussiano von Clausewitz osservava giustamente che: « La guerra non scoppia mai in modo del tutto improvviso, la sua propagazione non è l'opera di un istante. », quindi è ovvio che qualcosa di serio all'orizzonte c'è. Quello che purtroppo non ravvisiamo all'orizzonte è una chiara coscienza antimilitarista in grado di opporsi alla probabile futura macelleria globale. Ovviamente quando parliamo di coscienza antimilitarista non devono intendersi le sparate ad effetto di certi partiti della “Sinistra Komunista” che si ricordano della campagna NO F35 solo sotto elezioni e solo il tempo di una foto ed un trafiletto sui fogli del mainstream informativo casereccio. Purtroppo la popolazione vive in una costante incertezza ed è incapace di comprendere ciò che sta per verificarsi complice anche una certa propaganda patriottarda, tuttavia invitiamo tutti, per quanto possibile e nel proprio piccolo a comprendere l'importanza di questa lotta che non può e non deve essere strumentalizzata. Ricordate che in guerra non periscono mai “loro” ma sempre e comunque “noi”. “Nessuna guerra di qualunque nazione, in ogni era, è stata dichiarata dal popolo.” Eugene V. Debs

giovedì 5 dicembre 2013

Appello alla mobilitazione e alla solidarietà LIBERTA' PER BAHAR KIMYONGUR

LIBERTA' PER BAHAR KIMYONGUR Giovedì 21 novembre scorso, la Digos di Bergamo ha arrestato il compagno Bahar Kimyongur, cittadino belga di origini turche, in base ad una richiesta di estradizione da parte della Turchia. Bahar era appena arrivato all'aeroporto Bergamo, proveniente da Bruxelles: il motivo della sua venuta in Italia era partecipare a due incontri pubblici sulla situazione in medioriente. Bahar Kimyongur è un militante antimperialista, da molto tempo attivo nella solidarietà con i prigionieri politici in Turchia e nell'opposizione alle politiche del regime turco, soprattutto rispetto alla repressione e all'espansionismo nell'area mediorientale. Attualmente animava il Comitato contro l'ingerenza in Siria, rendendosi protagonista della lotta contro la guerra imperialista, condotta per procura – armando i cosiddetti “ribelli” - e direttamente dalle potenze della Nato, Turchia in primis, da Israele e dai regimi arabi reazionari (Arabia Saudita, Qatar, Giordania...). Per questa sua militanza è già stato incarcerato in Olanda e Belgio, accusato dell'appartenenza al gruppo comunista turco Partito - Fronte di Liberazione del Popolo Rivoluzionario (DHKC-P), dove è stato processato e infine assolto. Quest'estate è stato arrestato in Spagna, ove si trovava in vacanza con la famiglia, sempre per l'estradizione richiesta dalla Turchia, successivamente liberato su cauzione ed ora in attesa di processo. Martedì 3 dicembre il tribunale competente di Brescia ha deciso per gli arresti domiciliari in Italia del compagno Bahar, che ora si trova a Massa Carrara. Oggi il compagno Bahar si ritrova incarcerato dallo stato italiano, che dimostra come l'Italia è un paese imperialista, uno dei maggiori partner economici della Turchia, il paese che ha consegnato Ocalan ai boia turchi, che in nome degli interessi economici e politici nell'area mediorientale “sacrifica” facilmente la vita di un compagno che lotta contro questa società. Quando la polizia di Erdogan, a giugno, massacrava le masse popolari che manifestavano a Piazza Taskim, la ministra degli esteri del governo di larghe intese – la presunta eroina dei “diritti umani” Emma Bonino - commentava “questa non è una primavera”, dando sostanzialmente appoggio ai massacri del fascista turco. Esprimiamo la nostra massima solidarietà al compagno incarcerato e invitiamo tutte le realtà di lotta alla mobilitazione per esprimere il nostro dissenso contro questa operazione di polizia con un presidio a Venezia nei pressi del consolato turco per sabato 14 dicembre alle 10.00. Invitiamo tutte/i le/i compagne/i interessati alla mobilitazione e solidarietà alla riunione di preparazione del presidio lunedì 9 dicembre dalle ore 21.00 al Tuttinpiedi. CON BAHAR KIMYONGUR CONTRO LE GUERRE E LA REPRESSIONE DELL'IMPERIALISMO! MOBILITARSI CON OGNI MEZZO PER LA SUA LIBERAZIONE! Tuttinpiedi, 5 dicembre 2013 tuttinpiedi@gmail.com

ILVA E VIRGOLA di Sergio Bellavita

Nell'agosto del 2012 davanti alla pesante contestazione da parte di centinaia di lavoratori dell'Ilva di taranto del comizio di Cgil Cisl Uil, mi permisi di invitare ad una riflessione profonda il sindacato e a non sottovalutare quel segnale. Quell' invito venne liquidato da Landini, dalla segreteria di Taranto e dalla maggioranza del gruppo dirigente Fiom come un regalo a teppisti da stadio e delinquenti comuni e divenne parte del processo che di li a pochi mesi opero' la mia destituzione da segretario nazionale con la rottura della maggioranza congressuale che aveva retto la Fiom dal 2002. Si e' incaricato il voto degli operai Ilva della scorsa settimana di mostrare quale fosse la reale portata di quel segnale. Oggi gran parte del gruppo dirigente che ha gestito negli ultimi tre anni l'acciaieria di Taranto, a partire dal segretario Landini, ammette la sconfitta e non potrebbe essere diversamente. Tuttavia per la fiom il risultato delle elezioni rsu all'Ilva di taranto non e' solo una semplice, per quanto dura, sconfitta in un rinnovo della rappresentanza sindacale di fabbrica. Non e' un infortunio, un evento che può essere circoscritto a un territorio o a un settore. Se per l'Usb e il sindacalismo di base il risultato dell'Ilva e' una vittoria senza precedenti nel settore metalmeccanico privato, per la Fiom e' il primo vero pesante crollo di consenso tra gli operai negli ultimi vent'anni e come tale ha un valore generale. Ciò accade a tre anni di distanza dal referendum di Mirafiori, da quel no della Fiom a Marchionne che, su Pomigliano e quella resistenza operaia, aveva costruito la straordinaria manifestazione del 16 ottobre 2010 conquistando un consenso tra i lavoratori che andava ben al di la' dei metalmeccanici. E' quindi in questi tre anni di storia sindacale e politica che vanno ricercate le ragioni di una debacle di tali dimensioni. La Fiom non e' sconfitta in quanto incompresa e persino contrastata da un sottoproletariato, anch'esso parte del sistema clientelare costruito dai Riva a suon di milioni di euro, che non ha riconosciuto la radicalità la e determinazione del sindacato, ipotesi a cui qualche dirigente allude. Un'idea alquanto bizzarra che auto assolve i gruppi dirigenti e che prevede come unica soluzione la sostituzione degli operai... La Fiom e' sconfitta perchè vissuta dai lavoratori come parte del palazzo,parte di un teatrino della politica ormai logoro e privo di ogni credibilità, specie quando il teatrino e' condito dalla pubblicazione delle intercettazioni telefoniche che palesano il consociativismo della sinistra politica e sociale cortigiana. Si paga il prezzo dell'accettazione della Fiom dei tanti provvedimenti dei governi a difesa degli interessi dei Riva contro i magistrati che, per l'acciaio e non solo, hanno derogato al diritto alla salute dei lavoratori e della popolazione consentendo di continuare a produrre,inquinare e uccidere. Dialoganti con i governi e i potentati ma durissimi nella gestione della vita interna all'organizzazione, sino al punto da cancellare, destituire parte di delegati e iscritti Fiom all'Ilva. In una vicenda certamente complessa, delicata e tutt'altro che trasparente che, ho gia' avuto modo di richiedere nelle sedi formali, andrebbe indagata con una commissione interna, allo scopo di rendere evidente, una volta per tutte, al comitato centrale della Fiom quanto accaduto a Taranto. Quello che sappiamo con certezza e' che c'e' stato un grande consenso dei lavoratori ai delegati cacciati dalla Fiom e oggi raccolti sotto le bandiere dell'Usb, un'organizzazione che nell'ultimo anno a Taranto ha sostenuto scioperi anche a oltranza,proteste e manifestazioni per il diritto alla salute, alla sicurezza,al lavoro, rivendicando l'esproprio ai Riva dell'Ilva senza demonizzare la questione del reddito. Quello che sappiamo con certezza e' che la parte cacciata e' stata considerata per anni il riferimento di fabbrica della Fiom, il volto barricadero all'Ilva che ha subito licenziamenti, provvedimenti disciplinari e mobbing da parte dell'azienda. Se questo e' il quadro, non e' difficile capire le ragioni del tracollo di consensi tra gli operai e il travaso di voti dalla Fiom all'Usb. Quando un'organizzazione si mostra cosi slegata dalla citta', cosi incapace di misurarsi con la inevitabile complessita' e contradditorieta' di quel rapporto citta' fabbrica, quando i proclami di un nuovo modello di sviluppo si infrangono sulle polveri di un'acciaieria il risultato e' certo. Proprio per questte ragioni il voto Ilva assume un carattere generale. In un quella che poteva essere una vertenza esemplare su salute,ambiente,diritto al lavoro e al reddito, contrasto alle politiche del Governo, nuovo intervento pubblico in economia, denuncia del malaffare padronale e del suo vasto sistema di corruzione la Fiom e' mancata clamorosamente o peggio e' apparsa complice. La sostanza e' che siamo di fronte al primo esplosivo segnale del mesto rientro della maggioranza del gruppo dirigente Fiom in quella normalità "confederale" che e' esattamente la negazione di 15 anni di battaglie dentro e fuori la Cgil. Anche chi non e' addentro ai tecnicismi sindacali comprende senza difficoltà che le parole e le azioni della Fiom di Genova 2001, dei 21 giorni di Melfi,delle lotte per il contratto nazionale, della battaglia contro il protocollo del welfare nel 2007, dell'alterita' alla deriva Cgil consacrata in due congressi su posizioni alternative e cementata da una pratica contrattuale coerente sono ben altra cosa di quelle che accompagnano l'abbraccio all'accordo del 28 giugno che accoglie le deroghe e di quello all'accordo del 31 maggio che cancella le libertà sindacali. I nodi prima o poi vengono al pettine. Il ripetuto utilizzo dell'orgoglio operaio del no a Pomigliano e Mirafiori di tre anni fa non paga più per la semplice ragione che parla di un ricordo appunto, non dell'attualità, non di una pratica che ancora tenta di rispondere alla condizione dei lavoratori in una fase difficilissima. Il ricordo di una radicalità e di una determinazione oggi sacrificata al pragmatismo, alla responsabilità ed al realismo rassegnato dei gruppi dirigenti. Con il voto Ilva e il rientro nella maggioranza Cgil al congresso si certifica la chiusura della lunga stagione Fiom che, dal 1996 al 2011, seppur in maniera contraddittoria, ha segnato la storia sindacale di questo paese impedendo la normalizzazione del quadro sindacale e la corporativizzazione del sistema puntando su democrazia,indipendenza e conflitto. Emendare il documento Camusso e' apporre una qualche virgola a un testo che rivendica la bonta' della propria linea sindacale di questi anni. Guarda caso quella che ha consentito la distruzione del sistema di protezione sociale senza colpo ferire. virgole significative certo, ma pur sempre virgole. Il sindacato e' un'altra cosa. [www.rete28aprile.it]

dalla razza alla cultura - Ateneo degli Imperfetti Marghera (VE) 7 dicembre 2013

dalla razza alla cultura incontro con Marco Aime Docente di Antropologia culturale Università di Genova introduce Elis Fraccaro Laboratorio Libertario sabato 7 dicembre 2013 ore 17,30 Ateneo degli Imperfetti Via Bottenigo 209 / Marghera VE A torto in molti abbiamo pensato che il razzismo fosse un residuo del passato, relegato agli archivi polverosi della storia. Purtroppo, nel nostro paese, assistiamo quotidianamente a manifestazioni di pensiero e di azione improntati a idee razziste. Atteggiamenti che talvolta nascono dall’ignoranza e dalla non conoscenza, ma che in altri casi sono frutto di precise scelte politiche, che trasformano idee razziali in leggi. Non a caso abbiamo avuto per oltre un decennio al governo un partito dichiaratamente razzista. Ci sono però alcune differenze, rispetto alle forme del passato: oggi non si discrimina più solo in nome della razza, ma in quello della cultura. Si dice cultura, ma si pensa alla razza, trasformando così la cultura, che è frutto di un processo dinamico di costruzione, sempre attivo, in un dato statico e inamovibile. sabato Marco Aime (Torino, 1956). Insegna Antropologia culturale presso l’Università di Genova. Ha condotto ricerche sulle Alpi e in Africa occidentale. Oltre a numerosi articoli scientifici ha pubblicato: Diario dogon (Bollati Boringhieri, 2000); Sapersi muovere. Pastori transumanti di Roaschia in collaborazione con S. Allovio e P.P. Viazzo (Meltemi, 2001); La casa di nessuno. Mercati in Africa occidentale, (Bollati Boringhieri, 2002); Eccessi di culture (Einaudi, 2004), L’incontro mancato (Bollati Boringhieri, 2005), Gli specchi di Gulliver (Bollati Boringhieri, 2006); Il primo libro di antropologia (Einaudi, 2008), Timbuctu (Bollati Boringhieri, 2008); La macchia della razza (Ponte alle Grazie, 2009 – Èleuthera 2012), Verdi tribù del Nord (Laterza, 2012), L’altro e l’altrove. Antropologia, geografia e turismo (con D. Papotti), Cultura (Bollati Boringhieri, 2013).

mercoledì 4 dicembre 2013

MANI / FESTA PER I BENI COMUNI - (Comitato CSBC) Comitato Ex Caserma Salsa Bene Comune

Sabato 7 Dicembre il comitato per l'ex caserma Salsa bene comune organizza una manifestazione per i beni comuni nel quartiere di Santa Maria del Rovere in Piazza dei Martiri di Belfiore. Il programma: Punto ristoro: vin brulè, torte, pasta e fagioli, panini e molto altro; Musica: nel pomeriggio suoneranno gli ESPANA CIRCO ESTE; Speaker Corner (dalle 16 alle 17): ci saranno vari interventi da parte delle associazioni, dei gruppi, o dei singoli su variate tematiche quali scuola, ambiente, spazi... e poi il microfono sarà aperto per chiunque vorrà intervenire; Laboratorio per grandi e piccoli: verrà allestito un albero di Natale costruito con materiali di riuso che poi sarà possibile addobbare collettivamente per rendere la piazza di Santa Maria del Rovere più accogliente e natalizia; Banchetti associazioni: ogni associazione che fa parte del comitato allestirà un'info point; Ed infine come iniziativa cancelleremo la svastica apparsa la settimana scorsa sul muro della ex caserma. Vi aspettiamo in tanti. Continuiamo la campagna per far rivivere il quartiere e perchè il Comune spinga per l'acquisizione dell'ex caserma Salsa! piazza Martiri di Belfiore- Santa Maria del Rovere - Treviso

La Cgil alle primarie? No grazie! di Giorgio Cremaschi

La mail di sostegno a Cuperlo che gira nelle sedi dello SPI, il sindacato pensionati che organizza la metà di tutti gli iscritti alla CGIL, non è solo un goffo infortunio, ma un segno chiaro della crisi del primo sindacato italiano. La CGIL, per il bene suo e di chi rappresenta, farebbe bene tagliare il cordone ombelicale che lega i suoi gruppi dirigenti al PD. Come fa un leader della CGIL ad essere credibile nella critica all'austerità, quando ci sono questi legami con il principale partito dei governi dell'austerità? Il collateralismo con i partiti e i governi è sempre stato un male per il sindacato. Non a caso questo termine è stato inventato nella CISL, quella di una volta che sentiva il bisogno di allontanarsi dalla DC, non quella di oggi collaterale a tutto. Questa mail non è l'errore di qualche funzionario troppo solerte, ma la prova che anche in CGIL il rapporto con la politica oggi è malato e deve cambiare radicalmente. Certo che la CGIL deve fare politica, ma lo deve fare attraverso le sue piattaforme, le sue lotte, il suo punto di vista. Il sindacato fa politica partendo dai bisogni di chi rappresenta, ma i suoi dirigenti non fanno i politici. Cinquanta anni fa il dirigente sindacale che diventava improvvisamente assessore o parlamentare poteva anche rappresentare un successo dei lavoratori, oggi non è così. E a maggior ragione, oggi come ieri, il dirigente sindacale che diventa manager d'impresa fa pensare che questo nuovo incarico sia stato costruito mentre si esercitava il vecchio. L'indipendenza dei sindacalisti è oggi fondamentale e sono necessarie regole di trasparenza sul possibile conflitto di interessi tra dirigenti sindacali, partiti, imprese. Si potrebbe cominciare con una piccola semplice regola: i dirigenti della CGIL, dalla fine dell'incarico, non possono passare a direzioni aziendali pubbliche o private per cinque anni e non possono entrare nelle istituzioni politiche per almeno un anno. Altrimenti pagano forti penali al sindacato che danneggiano. Perché deve essere chiaro che il primo danneggiato dalla scarsa autonomia dei dirigenti sindacali è il sindacato stesso. Questa misura non impedirebbe certo che i dirigenti della CGIL tornino in un posto di lavoro o facciano militanza nei partiti, semplicemente eviterebbe che si usi il sindacato per altre carriere. Questo però non basta perché tutti questi episodi di collateralismo e di conflitto di interessi non possono essere affrontati solo con l'appello alla autoriforma sindacale. Si sa come vanno le cose quando si chiede alle burocrazie di cambiarsi da sole. Per questo è urgente una legge che affronti il tema della rappresentanza e della democrazia sindacale. Così come va cancellato il finanziamento pubblico dei partiti, così i sindacati devono vivere solo con le tessere volontarie e rinnovabili degli iscritti. E basta. I lavoratori in libere elezioni debbono poter scegliere chi li rappresenta senza privilegi per nessuno e gli accordi vanno approvato per referendum dagli interessati. Tre semplici regole che a parole nessuno osteggia, ma che nella pratica non si sono mai realizzate. Mai come in questo momenti di crisi il mondo del lavoro ha bisogno di un sindacalismo forte e indipendente dai conflitti di interesse. PS: Queste semplici proposte sono contenute nel documento di minoranza che abbiamo presentato al congresso CGIL., che significativamente si intitola " Il sindacato è un'altra cosa". Il documento di maggioranza, sostenuto da tutto il gruppo dirigente, da Susanna Camusso a Maurizio Landini, ignora completamente il tema. [www.rete28aprile.it]

martedì 3 dicembre 2013

ANNOTAZIONI SANITARIE - gruppo libertario Remo Tartari di Ferrara

ANNOTAZIONI SANITARIE Premessa In questi mesi il Gruppo Libertario Remo Tartari è più volte tornato sulla questione del disfacimento del sistema sanitario provinciale ad opera di nani, ballerine e sicari del sistema che in nome dell'autoconservazione non esitano un attimo a sacrificare i diritti del popolo per un garantirsi un futuro che non gli appartiene. Scenario La lotta per la salvaguardia del San Camillo di Comacchio che dura da 13 anni e non arretra di un millimetro, le lotte intraprese da nuovi comitati per la salvaguardia dell'Ospedale del Delta a Lagosanto, quello di Copparo e di Argenta hanno preso in contropiede il sistema politico-consociativo dell'Emilia-Romagna. Il sistema abituato a decenni di impunità anche attorno alle più grandi porcate a scapito dell'interesse collettivo, complici una classe politica di nominati e cooptati ben attenti a mantenere la massa nell'ignoranza attraverso basse strategie tipo “divide et impera”, si trova in una situazione che oggettivamente non è più in grado di gestire. Questa incapacità di gestire il malcontento si evince da una serie di elementi facilmente deducibili da tutti coloro che prestano un minimo di attenzione ai fatti: a) 15 anni fa l'azione dei comitati per il diritto alla salute sarebbe semplicemente passata sotto silenzio in ossequio al miglior centralismo democratico e consociativo di togliattiana memoria [ricordiamo che nel silenzio più totale l'Ospedale di Cento ha semplicemente sbattuto fuori a calci nel sedere l'A.S.L. per passare ad una gestione privata], al contrario oggi La Nuova Ferrara, Estense.com, Il Resto del Carlino e Telestense danno sempre maggior spazio a queste inedite dinamiche della nostra terra; b) Un tempo il sistema non provava neppure a difendersi, adesso assistiamo pure, giusto per fare l'esempio più simpatico, a Nicola Zagatti [cofondatore del Comitato per la Salvaguardia dell'Ospedale del Delta] che via facebook sbertuccia la presidente della provincia estense Marcella Zappaterra ... una comica! Altro siparietto che denota la bassezza morale del meccanismo agit-prop Pdino è il tentativo semi-abortito di creare un contro-comitato di nani, ballerine e postulanti guidati da qualche kommissar che vuole tentare la scalata. Noi sappiamo. Noi vi osserviamo; c) la crisi sta mettendo a dura prova il sistema clientelare e consociativo che nel bene e nel male ha ammansito la popolazione in questi decenni: oggi il buon ufficio del piccolo palazzo periferico o del partito [o meglio la cricca dei postulanti] nella ricerca del lavoro conta poco o nulla, e quando conta penso che i più avveduti ci pensino due volte prima di fare la classica “raccomandazione”, quindi è ovvio che le sparate ad effetto e/o ideologiche non contano un bel niente. Sono finiti i tempi in cui in nome del partito ci si faceva anche umiliare pubblicamente: per questioni anagrafiche qual tipo di persona è ormai sotto un metro di terra; d) il “Sistema Emilia” è in crisi. A Ferrara e provincia, probabilmente l'unica vera zona che ha beneficiato poco o nulla della grande abbuffata, la cosa è ancora più evidente: mentre da Bologna a Piacenza il sistema emiliano ha prodotto un certo circolo virtuoso, in provincia di Ferrara il benessere emiliano è arrivato solo di striscio; e) quando si parla di “Sistema Emilia”, si parla ovviamente del contraltare al sistema democristiano ormai decotto [vedi Lombardia e fine ingloriosa di Formigoni] voluto dal partito azienda PCI-PDS-DS-PD. Questo sistema sta collassando, non solo per colpa della crisi economica, ma soprattutto perché questo sistema è ormai ingestibile anche dal punto di vista sociale e politico: attualmente nel PD assistiamo alla resa dei conti fra i due veri potentati del partito ossia l'area toscana e quella emiliana, con la prima che avanza come uno schiacciasassi e la seconda in ritirata indecorosa [per la prima volta]; f) in questa situazione abbastanza disgustosa anche istituzioni quali Questura e Prefettura collezionano una figuraccia dietro l'altra: si trovano nella posizione scomoda di dover puntellare un sistema ormai putrescente. Non credano che vietando o mettendo paletti a manifestazioni di dissenso dei vari comitati, ponendosi come mediatori spesse volte tutt'altro che imparziali, si mantenga un'immagine positiva; semmai si sta dimostrando il contrario. E noi congoliamo! Pericoli e antidoti I comitati di salvaguardia dei vari ospedali a rischio chiusura si muovono in un orizzonte che vede i partiti di maggioranza in crisi di credibilità e immersi in un clima da resa dei conti interna, quelli di opposizione semplicemente sono degli sprovveduti e verosimilmente degli incapaci conclamati che non vedono l'ora di sostituirsi ai primi per gestire a loro favore un sistema del quale neppure comprendono fino in fondo la complessità. La classe politica è delegittimata? Allora perché non legittimarsi gettandosi in questa lotta per il diritto alla salute? Destra, pseudo-rivoluzionari, sinistra defenestrata, giustizialisti, tutti lì ad aderire sperando forse, anche se non tutti, un futuro tornaconto. Stiano attenti i comitati che i politici di TUTTI gli schieramenti possono essere cavalli di Troia pronti a snaturare qualsiasi lotta legittima per il proprio vantaggio. L'unico antidoto, forse il più bel regalo che il movimento anarchico contemporaneo può dare ai comitati sorti in ogni dove, è la proposizione di un sistema basato sulla libera discussione in cui vengono definiti i percorsi di lotta, un sistema autogestito in cui i politici/politicanti sono svuotati di ogni possibilità di strumentalizzazione e se necessario isolati come elementi portatori di pratiche consociative ed autoritarie. Un sistema autogestito della lotta non può e non deve ragionare in termini localistico-campanilistici: Comacchio, Lagosanto, Argenta, Copparo, ecc. . Nelle altre regioni italiane ormai si ragiona in termini regionali, nel nostro caso ragionare in termini di provincia sarebbe già un ottimo punto di partenza. A margine ricordiamo, giusto per chi non lo sapesse, che il buon Paolo Saltari fu costretto ad abbandonare Pordenone (fu messo in libertà via fax senza troppi complimenti) proprio per la coalizione dei comitati che misero alle strette il potere politico/politicante. Noi anarchici e i comitati Inutile dire che il movimento anarchico estense è in crisi: meglio la delega all'autorganizzazione, lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo piuttosto che la solidarietà e l'autogestione. In definitiva fino a oggi è stato meglio lo schifo che ci troviamo a fronteggiare piuttosto che una società libera ed eguale. Come direbbe Giordano Bruno: “È cosa normale che le pecore ch’hanno il lupo per governatore, vegnano castigate con esser vorate da lui.”. Qualcosa sta cambiando? Difficile dirlo. Gli anarchici non sono certo un “partito”, almeno non nel senso corrente del termine, tuttavia riteniamo con le nostre poche forze che sia opportuno ed eticamente più rispettoso verso i comitati, aderire come semplici individui senza palesare eccessivamente la nostra adesione politica: non vogliamo certo sentire qualche trombetta di regime che accusa il buon Manrico Mezzogori, Nicola Zagatti, ecc. di essere dei pericolosi anarchici. Finché i comitati si muoveranno in un orizzonte di rottura con il sistema il nostro appoggio silente sarà incondizionato e totale. Aforisma Si può essere anarchici o meno, ma guardando al passato, al presente incerto ed al futuro probabilmente molto gramo, pensiamo che questa “chicca” sia di puro buonsenso. “Non chinarsi davanti a nessuna autorità, per quanto rispettata; non accettare nessun principio, finché non sia stabilito dalla ragione.” Pëtr Kropotkin

Il sindacato è un’altra cosa – INTERVENTO AL DIRETTIVO DI GIORGIO CREMASCHI

Il sindacato è un’altra cosa – INTERVENTO AL DIRETTIVO DI GIORGIO CREMASCHI Non voglio qui illustrarvi come da copione il documento alternativo. Credo sia molto chiaro, ha un bel titolo che riassume bene il nostro giudizio sullo stato della CGIL e devo dire che la giornata di oggi l'ha confermato e rafforzato. Mi interessa invece sottolineare due questioni. La prima riguarda le modalità del congresso. Ho visto che tra gli emendamenti accettati c'è ne è uno che propone la trasparenza nei congressi e la pari dignità tra le diverse mozioni. È singolare che in questo congresso si chieda che quello prossimo sia pienamente democratico. Perché non cominciare ora? In particolare cerchiamo di fare un congresso verità, senza quei verbali chiaramente falsi nei quali vige la regola del 100%. Tutti presenti, tutti votanti, tutti per una mozione. E dico subito che quei verbali restano falsi anche se, come qualche battuta di corridoio sussurrava, questa volta si assegna un piccola percentuale alla minoranza. Non nascondiamo la crisi di partecipazione che è evidente, facciamo un congresso che sia una fotografia reale della organizzazione. Se su mille iscritti partecipano in cento è bene che si sappia, del resto è una realtà che emerge in tanti altri momenti. Non diamo obiettivi di partecipazione che gli apparati interpretano come risultati obbligati da far venire fuori. È un danno e vi dico subito che noi lo impediremo. La seconda considerazione riguarda il dato politico del congresso. Il documento che voi avete chiamato unitario e che vede contraria solo la nostra qui piccola minoranza, è lo specchio della crisi della CGIL. La giornata di trattative sugli emendamenti, perché fossero accettati, ma al tempo stesso restassero a segnare una distinzione, ha mostrato a cosa servono. Servono, come fanno i gatti, a segnare il territorio, ogni gruppo dirigente fa vedere che c'è. In questo documento di unitaria c'è solo la decisione di andare avanti così. Perché gruppi dirigenti che nel passato si son divisi pubblicamente improvvisamente condividono le stesse idee di fondo? Non è spiegato. Susanna Camusso ha detto che la sua proposta di partire dalla constatazione della sconfitta non è stata accettata. In effetti la consapevolezza della sconfitta giustificherebbe un documento comune di diversi. Ma di sconfitta non si parla; anzi la premessa politica del documento di maggioranza, che non ha emendamenti, dopo le solite frasi di circostanza sui limiti etc, approva tutto. Quindi, il conflitto tra gruppi dirigenti che avevano rappresentato anche nei sentimenti delle e dei militanti della CGIL e anche nell'opinione pubblica modelli sindacali diversi, le denunce pubbliche sulla crisi drammatica dell'organizzazione, i diversi giudizi, le diverse campagne, via, PUF, tutto sparito senza una spiegazione c'è il documento unitario. E non è un nuovo segno di crisi questo? Nel Partito Democratico, a cui la CGIL è malauguratamente troppo vicina e per noi anche questo danno deve affrontare il congresso, è stata denunciata la stessa crisi. Per anni i gruppi dirigenti hanno rifiutato di discutere sui temi di fondo, su cui si mostravano tutti d'accordo, salvo poi scontrarsi duramente sulle questioni di potere. È quello che si verifica ora in CGIL . Cancellato il confronto sulle grandi differenze restano lo scontro di potere tra sottocorrenti, cordate, gruppi di potere, la personalizzazione senza contenuti. Per questo son francamente contento di aver potuto presentare una alternativa a tutto questo. Perché il sindacato è un'altra cosa. (www.rete28aprile.it)

IX Congresso Nazionale della FdCA

IX Congresso Nazionale della FdCA
1-2 novembre 2014 - Cingia de' Botti (CR)