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giovedì 25 febbraio 2016

1 Marzo 2016: sciopero sociale, contro l'Europa dei fili spinati che non vuole più immigrati

1 Marzo 2016: sciopero sociale, contro l'Europa dei fili spinati che non vuole più immigrati
L'Unione Europea inizia con un mandato chiaro: nel 1957 il Trattato di Roma intende eliminare, per i cittadini europei, gli ostacoli alla circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali.
La libert
à di movimento dei cittadini e delle cittadine europei/e è collegata e di fatto dipende dalla libertà delle merci.
Non diversamente il trattato di Maastricht nel 1992 e quello di Amsterdam del 1997, quindi Lo spazio "Schengen" non
è altro che il figlio della strategia iniziata nel 1957, lo spazio interno continua ad essere libero e tutelato mentre le frontiere esterne devono essere rafforzate.
La moneta unica nel 2002 e il fallimento della Costituzione Europea del 2004 fanno il paio con il Trattato di Lisbona del 2007 il quale recita la supremazia del diritto comunitario sulle questioni economiche e di mercato.
Tutto questo rende chiarissimo un fatto: le migrazioni in Europa sono state gestite in questi decenni secondo questa ottica, come funzionali alla gestione del capitale, per cui invece di parlare di flussi migratori
è più opportuni parlare di "dispositivo" delle migrazioni, che sono solo funzionali al potere economico capitalista.
Fino alla crisi del 2008, in Europa i migranti erano considerabili "wanted but not welcome", senza diritti ma ricercati per favorire i processi di flessibilizzazione del lavoro.
Ora con la crisi e con la flessibilizzazione compiuta, gli immigrati vengono trattati solo come un problema umanitario e si fa appello alle Convenzioni dei diritti umani solo per dividere gli immigrati e classificarli in diverse tipologie che vanno dall'accettabile al non desiderabile, il clandestino. Che
è clandestino solo in relazione al capitale.
Donne, uomini, lavoratrici e lavoratori che vengono repressi ogni volta che cercano di affermare il loro diritto ad un lavoro giusto e riconosciuto, alla lotta ed all'auto-organizzazione sociale e sindacale.
Anche quest'anno il primo marzo è lo sciopero dei migranti e di tutti i lavoratori e tutte le lavoratrici che vorranno e potranno essere solidali nell'unità di classe, nell'unità della lotta e dei diritti in Italia e in Europa.
Con e per chi è qui per lavorare e si vende a giornata,

per chi è arrivata in Italia per essere più libera, e si è ritrovata a scegliere se essere puttana o schiava,
per chi costruisce il proprio futuro e quello dei suoi cari camminando senza casco su delle impalcature,
per chi sostituisce i figli di qualcuno, ma non ruba i bambini, cura i vecchi,
per chi ora sa che la povertà è il peggior peccato, quello per cui non c'è assoluzione,
per chi paga per le colpe di quelli che hanno il suo accento, anche se è innocente,
per chi è diverso, ed è per quello che è partito, e ora è diverso anche qui, e nessuno gli permette di dimenticarlo,
per chi è partito, e non è mai arrivato,
per chi non può urlare perché si è cucito le labbra,
per chi non può lottare perché non ha resistito,
per chi resiste, insiste, lotta, ancora,
per loro e per tutti noi, perché non ci siano più frontiere da attraversare, permessi per vivere, pane da mendicare,
ma libertà, giustizia e solidarietà
Alternativa Libertaria/fdca
1 marzo 2016

sciopero sociale 1 marzo

Nel 2015 centinaia di migliaia di uomini, donne e bambini hanno attraversato i confini d’Europa scatenando una crisi politica e istituzionale senza precedenti. La risposta è stata tanto il più violento razzismo istituzionale, quanto una grandiosa solidarietà. I migranti hanno reso evidente che il regime dei confini e il governo della mobilità sono l’altra faccia delle politiche di austerity, una leva fondamentale attraverso cui precarizzare tutto il lavoro. Mentre le destre e i discorsi xenofobi soffiano sul vento della paura e della diffidenza, stare dalla parte dei migranti significa oggi lottare concretamente contro una precarietà e una riduzione degli spazi di libertà che riguarda tutti e tutte. Questo è il messaggio lanciato in Europa dalla piattaforma dello Sciopero Sociale Transnazionale, con la convocazione di una giornata di scioperi e azioni decentralizzate e coordinate il prossimo primo marzo, con lo slogan: «24 ore senza di noi contro i confini e la precarizzazione».
Insieme a diverse realtà che già si stanno mobilitando dalla Germania alla Polonia, dal Regno Unito ai Balcani, passando per la Svezia, la Francia e la Grecia, il primo marzo può essere anche in Italia una giornata in cui porre al centro le lotte dei migranti, per avviare nuovi percorsi di connessione e coalizione tra le diverse figure del lavoro. Il primo marzo può essere una giornata in cui dare visibilità e un volto pubblico a tutte quelle vertenze ed esperienze grandi e piccole che, pur presenti nei territori, faticano a trovare una reale forza politica espansiva. Un giorno nel quale prendere parte di fronte al tentativo di ridurre al silenzio i migranti e, insieme con loro, tutti quelli che cercano di sottrarsi allo sfruttamento e migliorare così la propria vita.
La chiamata transnazionale per il primo marzo apre la possibilità di avviare percorsi duraturi per rovesciare la frammentazione delle condizioni sociali e di lavoro in una forza collettiva da far pesare sul piano europeo, rilanciando lo sciopero come strumento di lotta contro le pratiche di sfruttamento costruite intorno al lavoro migrante, alla gestione della mobilità e all’accoglienza. Si tratta di avanzare rivendicazioni – come quella di un salario minimo, di un reddito e un welfare europei senza limitazioni legate alla cittadinanza e di un permesso di soggiorno europeo indipendente dal contratto di lavoro e dal reddito – che possono aprire, proprio per la loro scala europea, nuovi spazi di politicizzazione. Si tratta allo stesso tempo di valorizzare, rafforzare e diffondere le pratiche di accoglienza e mutualismo che si oppongono al governo della mobilità europeo aprendo spazi di libertà a livello locale.
Sappiamo che quella dello sciopero è una sfida difficile, perché difficili sono le attuali condizioni sociali e politiche. Pensiamo però che le questioni del lavoro migrante e del razzismo istituzionale, della precarizzazione diffusa, dell’attacco ai salari e al welfare, devono conquistare la scena nello spazio europeo. Anche se difficile, lo sciopero è un progetto concreto che può trovare nel prossimo primo marzo un momento di sperimentazione. «24 ore senza di noi» significano anche allargare lo spazio del «noi», creando le condizioni affinché tutti coloro che sono sfruttati e vivono in uno stato di precarietà a tempo indeterminato lottino insieme.
Facciamo appello ai migranti, ai precari e alle precarie; agli operai e le operaie che ai migranti sono legati nelle fabbriche e lungo le catene transnazionali dello sfruttamento; ai lavoratori pubblici e privati, del terzo settore, della logistica; ai lavoratori autonomi di seconda generazione e partite Iva; agli studenti e ricercatori che rifiutano i tagli e la mobilità; ai rifugiati e ai lavoratori e lavoratrici dell’accoglienza che negli ultimi mesi hanno lottato contro le politiche dell’emergenza e dell’esclusione e contro la propria quotidiana precarietà; gli insegnanti, che rifiutano la degradazione della scuola pubblica e le politiche di subordinazione e discriminazione dei migranti cui il governo li vuole obbligare; alle realtà impegnate in pratiche di mutualismo e accoglienza; al mondo dell’associazionismo impegnato contro le diverse forme del razzismo: tutte queste figure oggi frammentate possono trovare nel primo marzo un momento di convergenza inedito.
Facciamo appello per avviare percorsi territoriali di coordinamento, al fine di permettere, all’interno della cornice comune, una partecipazione diffusa e più ampia possibile alla giornata. Invitiamo a organizzare momenti di lotta che possano convergere in momenti comuni di piazza nel pomeriggio del primo marzo, in modo da dare a tutti e tutte, anche chi non potrà partecipare ad altre iniziative, la possibilità di prendere parte alla giornata.
Come affermato dalla piattaforma dello Sciopero Sociale Transnazionale nell’appello del primo marzo, «non abbiamo né un’identità né un passato da difendere, ma solo un processo aperto per tempestare il presente»!
Prime adesioni:
Strike Meeting
Acrobax – Roma
AdL Emilia Romagna
Assemblea Lavoratori dell’Accoglienza – Roma
Associazione Cross-Point – Brescia
Bios Lab – Padova
Centri Sociali Emilia Romagna
CLAP – Roma
Cobas empolese
Communia Network
Comunità in Resistenza/CSA Intifada – Empoli
Confederazione USI
 ∫connessioni Precarie
Coordinamento Collettivi Sapienza
Coordinamento Lavoratori Autoconvocati – Contro la crisi
Coordinamento Migranti Emilia Romagna
Cs. Astra/Laboratorio Puzzle – Roma
ESC – Roma
Exploit – Pisa
La Boje – Mantova
LUR – Libera Università Roma
Migranti Ex SET – Bari
Resistenze Meticce – Roma
Rimake – Milano
Sial Cobas – Milano
Solidaria – Bari
Zero81 – Napoli

Mestre (VE) Rete contro guerra e militarismo : Diciamo NO all’intervento militare in Libia


Diciamo NO all’intervento militare in Libia

 

Che si tratti di giorni o qualche settimana, una cosa è certa: si stanno scaldando i motori per un nuovo intervento militare in Libia.  Forze speciali sono già sul posto per preparare l’arrivo di un contingente di oltre 6000 militari europei, italiani compresi, e statunitensi. L’Italia, che si candida a guidare questa nuova missione militare, ha già inviato 4 cacciabombardieri AMX del 51° Stormo di Istrana (Tv) presso la base di Trapani Birgi in Sicilia.

Dobbiamo sin da ora dire no a questa nuova aggressione al popolo libico.

Diciamo NO perché, da che mondo è mondo, chi è causa di problemi non può ergersi a soluzione degli stessi. E le potenze imperialiste occidentali, con la NATO, hanno provocato l’esplosione della situazione libica con l’intervento militare del 2011, lasciando poi che il vuoto politico creato venisse riempito da fazioni, bande, tribù in conflitto tra loro e con le potenze straniere.

Diciamo NO perché le guerre non portano la pace, come sostengono vertici militari e  governi: le guerre provocano lutti, dolore, devastazione, odio e violenza infinita.

L’intervento militare in Libia, con la scusa di stroncare l’ISIS e stabilizzare il paese, servirà solo ai fabbricanti e ai commercianti di armi per arricchirsi con l’apertura di un nuovo “mercato”; servirà solo a soddisfare le mire espansioniste delle grandi potenze e, innanzitutto, dello Stato italiano, che già in passato ha martoriato quella terra con 30 anni di occupazione  macchiandosi di crimini ignobili verso il popolo libico.

Questa guerra, fortemente voluta dagli USA, dall’Unione Europea e dalla NATO, provocherà inevitabili reazioni, trasformando anche il territorio italiano in obiettivo di attentati e atti di ritorsione, e andrà ad alimentare quella spirale bellica, infame e senza fine, che dall’Afghanistan all’Iraq, dalla Siria all’Ucraina, dallo Yemen all’Africa sub-sahariana, sta coinvolgendo l’intero pianeta avvicinandoci sempre più ad un nuovo disastroso conflitto mondiale.

Con la scusa di aiutare il popolo libico, questa guerra in realtà garantirà solo gli interessi delle multinazionali del petrolio e gli equilibri del terrore nel Mediterraneo, ormai trasformato in una area super militarizzata, chiusa ai profughi e i migranti, ma aperta ai mercanti di morte e alle avventure delle potenze imperialiste.

Pretendiamo - e lottiamo - per un Mediterraneo smilitarizzato, per la chiusura di tutte le basi militari e delle fabbriche di armi, perché siano i popoli, oggi sottomessi, a liberarsi dai loro oppressori, con il supporto solidale e internazionalista di tutti coloro che sono impegnati a costruire una società libera dalle guerre, dal razzismo, dallo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, dell’uomo sulla donna, dell’uomo sull’ambiente.

La vera minaccia alla pace proviene dall’interventismo dei nostri governanti e delle classi dominanti per la difesa dei loro interessi, dalla militarizzazione della nostra terra, dagli enormi investimenti in strutture e strumenti di guerra a scapito del lavoro, dei servizi sociali, del benessere collettivo, della salvaguardia del territorio.

Invitiamo chi condivide le nostre idee a mobilitarsi, ovunque e come meglio crede, contro l’intervento militare in Libia; facciamo sentire alta la protesta; costruiamo un forte movimento di opposizione alle politiche avventuriere e imperialiste di cui il governo Renzi è protagonista e complice.

 

Rete contro guerra e militarismo

Nascono le CLAP - Padova // Camere del Lavoro Autonomo e Precario

Nascono le CLAP - Padova // Camere del Lavoro Autonomo e Precario
 Nel corso degli ultimi anni il concetto di precarietà - e il ruolo che esso assume all'interno delle nostre vite - è radicalmente mutato. Per anni quel termine identificava una specifica condizione lavorativa e di vita, propria delle giovani generazioni che al termine del loro ciclo formativo si affacciavano al mondo del lavoro. Una condizione caratterizzata da minori diritti e garanzie, ma accompagnata dalla prospettiva di veder regolarizzata la posizione lavorativa, dopo un periodo di tempo più o meno lungo. La precarietà conservava dunque dei limiti, spaziali e temporali, che permettevano di distinguere tra lavoro stabile e precario, tra precari e garantiti, tra occupazione e disoccupazione.
Con l'arrivo della crisi e l'approvazione degli ultimi provvedimenti in materia di lavoro tali distinzioni non sono più significative, perchè quei limiti sono definitivamente saltati: oggi la precarietà è diventata la dimensione esistenziale di milioni di soggetti, interessa indistintamente nuove e vecchie generazioni ed invade ogni ambito della vita, non aprendo a nessuna prospettiva differente. Questo peggioramento strutturale delle condizioni di vita è accompagnato da una profonda crisi delle rappresentanze sindacali. Il risultato è che ad oggi milioni di soggetti non godono di nessuna tutela e si trovano ad affrontare, in uno stato di solitudine ed isolamento, una quotidianità totalmente esposta al ricatto della precarietà.
Il progetto delle CLAP – Padova, che prende le mosse dall’omonima esperienza romana nata nel 2013, si colloca in questo contesto e si pone l'ambizioso obiettivo di individuare nuove forme di auto-organizzazione e sindacalizzazione dal basso, che sappiano rispondere alle esigenze e ai bisogni delle variegate figure del lavoro contemporaneo. In particolare, ci rivolgiamo a tutt* i lavoratori e le lavoratrici saltuari/ie, ai ricercatori e alle ricercatrici, ai/alle disoccupat*, agli/alle stagist*, ai/alle tirocinanti, alle partite iva con salari da fame, ai lavoratori e alle lavoratrici in nero e più in generale a tutt* coloro che ogni giorno vedono calpestati i loro diritti. Ci rendiamo ovviamente conto di quanto queste figure siano diverse tra loro, ma ci sono almeno due elementi che le uniscono: da un lato la dinamica di sfruttamento della quale sono vittima, dall’altro la totale assenza di diritti e l’impossibilità di accesso al welfare.
Siamo convinti che partire da ciò che ci accomuna sia l'unico modo per rispondere all'attacco frontale che ogni giorno viene portato alle nostre vite. Dobbiamo unire le forze, metterci in gioco in prima persona, prendere in mano le nostre esistenze e individuare tutt* assieme, in una dimensione di cooperazione e solidarietà, le traiettorie da percorrere. Solo così avremo la capacità di far sentire la nostra voce, e di mettere al centro della nostra rivendicazione la richiesta di salari più alti, di nuovi diritti e di un sistema di welfare all'altezza dei tempi, che garantisca a tutt* una casa in cui abitare e un reddito di base incondizionato.
CLAP – Padova troverà casa negli spazi del BiosLab, dove oltre a noi troverai professionist* qualificat* in grado di fornirti consulenza fiscale, previdenziale e legale e darti il supporto necessario per affrontare, anche da un punto di vista vertenziale, i problemi che incontri sul tuo posto di lavoro.
//Ci trovi ogni 1° e 3° Giovedì del mese dalle 18:00 alle 20:00c/o BiosLab - Via Brigata Padova, 7 - Padova//A partire dal 3 marzo 2016//Per info e appuntamento padova@clap-info.net | FB: CLAP – Padova | www.clap-info.net
Giovedì 25 febbraio 2016 ore 19:00
CLAP - Camere del Lavoro Autonomo e Precario, Padova e SLIP - Sportello del Lavoro Indipendente e Parasubordinato
Presentano:
Lavoro autonomo, partite IVA, “atipici”, indipendenti, freelance. La frammentazione delle forme contrattuali e l’assenza di diritti e welfare universali pongono con urgenza la necessità di trovare forme di ricomposizione e rivendicazione comuni alle lavoratrici e ai lavoratori precari/e. Mentre il Governo cerca di correre ai ripari con la proposta di uno Statuto del lavoro autonomo e la CGIL presenta una Carta dei diritti universali del lavoro, la “Coalizione 27 Febbraio”, che riunisce venti associazioni del lavoro autonomo e indipendente, sta elaborando una bozza di una Libera Carta delle pretese e dei diritti dei lavoratori autonomi e dei freelance: un testo aperto e partecipato dai soggetti reali che vivono materialmente la condizione di instabilità lavorativa ulteriormente esacerbata dal Jobs Act.
La Libera Carta è ora in tour: dopo Milano, Napoli e Roma approda a Padova il 25 Febbraio presso il BiosLab, dove il 3 Marzo aprirà la terza sede nazionale delle Camere del Lavoro Autonomo e Precario. Insieme a Slip - Lo Sportello del Lavoro Indipendente e Parasubordinato di Adl Cobas discuteremo di diritti e welfare, fiscalità e lavoro subordinato, lotte comuni e alleanze da costruire in vista della discussione in Parlamento dello Statuto proposto dal governo prevista per il mese di Marzo.
A problemi comuni dobbiamo trovare soluzioni comuni. Incrociamo le lotte!
Parteciperanno:
  • Luca Dall’Agnol, SLIP - Sportello del Lavoro Indipendente e Parasubordinato
  • Caterina Peroni, CLAP - Camere del Lavoro Autonomo e Precario, Padova
  • Roberto Ciccarelli, Stampa Romana – Coalizione 27F
  • Francesco Raparelli, CLAP - Camere del Lavoro Autonomo e Precario, Roma
  • Giancarlo Garna, direttivo nazionale Associazione Nazionale Archeologi
  • Giulio Todescan, Re:fusi – giornalisti veneti freelance
  • Francesca Bettocchi, MGA – Mobilitazione Generale degli Avvocati
  • Coordinamento Delle Ricercatrici e dei Ricercatori non Strutturat*

mercoledì 24 febbraio 2016

Primo marzo: per i diritti dei migranti, contro la precarietà del lavoro, per il reddito di dignità, per la pace

La Fiom aderisce alla giornata transnazionale di mobilitazione del prossimo primo marzo convocata dalla Transnational Social Strike Platform e invita le strutture a favorire la partecipazione delle lavoratrici e dei lavoratori alle iniziative che si svolgeranno nei vari territori.
Il progetto dello sciopero sociale pone al centro le lotte dei migranti e prova a realizzare connessioni e coalizioni tra le diverse figure del lavoro e le diverse vertenze presenti nello spazio europeo. Questo va nella direzione che la Fiom intende perseguire con la coalizione sociale, che ha l'obiettivo di riunificare e ricostruire i diritti di cittadinanza delle donne e degli uomini nel lavoro e nella vita, di ricucire lo strappo che si è creato nel tessuto sociale e quindi di rafforzare la democrazia.
La Fiom intende essere protagonista di una battaglia democratica di contrasto alla xenofobia e di accoglienza a migranti e rifugiati. Si deve tornare alle pratiche fondanti del sindacalismo per il quale accoglienza non è solo solidarietà ma è anche ricerca comune di giustizia sociale.
La Fiom parteciperà alla giornata di mobilitazione con le proprie rivendicazioni e le proprie proposte sui migranti:
- La legge Bossi-Fini va cancellata e con essa l'odioso reato di clandestinità;
- L'iter amministrativo verso la cittadinanza deve diventare trasparente ed avere tempi certi. Deve essere considerato come diritto e non come favore da elargire con tempistiche lunghe che non vengono mai rispettate, condizionate dalla discrezionalità della pubblica amministrazione.
- Lo Ius soli va modificato perché così com'è viola la Costituzione. I bambini nati e vissuti in Italia vengono distinti in base alla capacità economica delle loro famiglie, escludendo tutti i figli di cittadini stranieri regolarmente soggiornanti che non riescono a soddisfare il requisito di reddito richiesto per l’ottenimento del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo.
- La tassa sul permesso di soggiorno deve essere ridotta drasticamente, come ci ha invitato a fare la Corte di giustizia dell'Unione europea
Sul tema della precarietà del lavoro e del reddito di dignità la Fiom è impegnata a portare avanti la campagna nazionale della Cgil per la carta dei diritti universali del lavoro, che ha l'obiettivo di estendere diritti a chi non ne ha e riscriverne di nuovi per tutti.
L'appuntamento del primo marzo è anche un appuntamento in cui ribadire la nostra contrarietà alla guerra e al terrorismo. La Fiom condanna la follia distruttiva della violenza e del terrore che attraversa il mediterraneo, l'Europa, il medio oriente e l'Africa.
Non vogliamo nuove spedizioni ed avventure militari. Vogliamo costruire la pace e fermare la spirale di violenza e di follia umana con il diritto, le libertà, il dialogo, la solidarietà, la cooperazione, la giustizia sociale, il lavoro dignitoso, il rispetto dell'ambiente, la costruzione di una difesa comune europea, a partire dalla difesa civile non armata e nonviolenta con l'istituzione dei corpi civili europei di pace. L'Italia non può e non deve essere coinvolta in nuove guerre, né essere promotrice di politiche di guerra.
 
Fiom Cgil Nazionale

martedì 23 febbraio 2016

YPG: Noi non c'entriamo niente con l'attentato di Ankara. La Turchia invece sta prerarando l'attacco di terra alla Rojava

Il Comando Generale delle YPG ha dichiarato che non esiste nessun legame tra loro e l'attentato, sottolineando come Davutoğlu abbia lanciato le sue accuse per preparare il terreno all'offensiva turca in Rojava ed in Siria. Il Comando Generale ha messo in evidenza che le YPG non sono impegnate da tempo in nessuna attività militare contro lo Stato turco nonostante gli attacchi e le provocazioni messe in essere da quest'ultimo.

Qui di seguito il testo integrale del comunicato diffuso dal Comando Generale delle YPG:

"Come è noto al nostro popolo ed all'opinione pubblica, la rivoluzione in Rojava è entrata nel suo quarto anno di vita. Come forze delle YPG, stiamo proteggendo il nostro popolo nella regione della Rojava fin dal primo giorno della rivoluzione. In condizioni molto difficili, stiamo proteggendo il nostro popolo da bande barbariche come l'ISIS e  Al-Nusra. Non si contano le dichiarazioni di Stati e di organi di stampa in cui è stato ripetutamente denunciato il sostegno che la Turchia ha fornito a questi gruppi terroristici. A parte contro questi gruppi terroristici che ci attaccano, le YPG non hanno in corso alcuna attività militare contro gli Stati vicini o contro altre forze. Nonostante tutti gli attacchi e le provocazioni subiti lungo il confine della Rojava, il nostro atteggiamento è stato di lungimirante responsabilità non dando mai luogo a ritorsioni contro la Turchia. Durante i 4 anni trascorsi, la Rojava è diventata l'area più sicura lungo il confine turco-siriano e non vi è stata nessuna azione militare condota dalle YPG per tutto questo tempo. Questa verità è ben nota ai militari turchi ed al governo dell'AKP. Che stanno deliberatamente distorcendo la verità scaricando su di noi la responsabilità per le esplosioni di Ankara.

Vorremmo che il nostro messaggio giungesse anche ai popoli della Turchia e del mondo intero: noi non abbiamo nulla a che fare con questo incidente. Non abbiamo nulla a che vedere con questo attentato specifico così come non siamo mai stati coinvolti in attacchi contro la Turchia. Lo stato turco non può provare in alcun modo nessun nostro coinvolgimento in qualsiasi attentato contro la Turchia, dato che non siamo mai stati coinvolti in azioni simili.  Le accuse del Primo Ministro turco Davutoğlu secondo cui "L'attentato di Ankara è stato diretto dalle YPG" è una menzogna ed è quanto di più lontano dalla verità. Con le sue dichiarazioni, Davutoğlu intende spianare la strada ad un'offensiva turca in Siria ed in Rojava, per dissimulare le relazioni della Turchia con l'ISIS, che è cosa nota ormai a tutto il mondo.

Come Unità di Difesa Popolare-YPG, ribadiamo ancora una volta che non abbiamo nessun legame con le esplosioni in Ankara ed invitiamo tutti gli stati vicini ad avere rispetto per la rivoluzione della Rojava e per la volontà popolare
". Fonte ANF.

KQ aggiunge che il Partito di Unione Democratica (PYD), a cui sono affiliate le YPG, ha dichiarato che sono "totalmente da respingere" le accuse di un suo coinvolgimento.

Anche Saleh Muslim, co-presidente del PYD, ha respinto le accuse contro le YPG dell'attentato in Turchia. "Le YPG non considerano la Turchia come un nemico" ha dichiarato all'agenzia Reuters.

domenica 21 febbraio 2016

Palestina-Israele, gli 11 anni di lotta unitaria a Bil'in, seme per la terza intifada dei giovani.*

All'inizio, la lotta unitaria nel villaggio di Bil'in agita dagli israeliani di Anarchici Contro il Muro insieme agli attivisti locali si esprimeva solo con azioni dirette effettuate il venerdì contro la costruzione del muro della separazione. La risposta dello stato israeliano si espresse a sua volta in uno sforzo prolungato teso a bloccare la partecipazione degli attivisti israeliani, ma che risultò fallimentare a causa delle condizioni geografiche, della tenacia degli attivisti israeliani e della nostra ingenuità. Uno degli ostacoli agli sforzi repressivi delle forze di stato fu la diffusa simpatia verso queste manifestazioni che veniva espressa sui media israeliani ed a livello di opinione pubblica. In un tentativo disperato, l'esercito giunse a inviare degli infiltrati che dessero inizio al lancio di pietre da parte dei manifestanti sui soldati. Dopo un po' di tempo l'azione di lanciare pietre istigata dall'esercito è talmente ruscita che...i giovani del villaggio hano iniziato a lanciare pietre come loro tattica abituale. Per anni è stata documentata su tutti i media ed ha contribuito a creare la cultura della sassasiola in tutta la gioventù resistente palestinese. Questo è stato uno dei fattori significativi che hanno alimentato gli ormai 4 mesi della vecchia "Intifada dei ragazzi". Bil'in Venerdì 19-2-16 - A centinaia hanno manifestato dal centro del villaggio fino al cancello del nuovo muro della separazione - celebrando gli 11 anni della lotta persistente contro il muro/recinzione della separazione, contro i coloni e contro l'occupazione. Agli attivisti di Bil'in si sono uniti molti residenti, attivisti provenienti da Ramallah e dai villaggi vicini. C'erano anche circa 70 Israeliani con gli Anarchici Contro il Muro - tra cui 7 militanti della federazione comunista-anarchica Ahdut (Unità), e decine di attivisti internazionali (tra cui anarchici statunitensi). Dopo il lungo percorso sulla strada solitamente interdetta del nuovo muro della separazione, ci siamo avvicinati al cancello del muro. Le forze di stato israeliane hanno cercato di disperderci, ma il vento da nord ed il coraggio di molti manifestanti li ha sfidati. Una parte del corteo si è ritirata fino ad essere fuori bersaglio del lancio dei candelotti lacrimogeni, ma in molti si sono scontrati con le forze di stato e sono rimasti nei pressi del cancello per un lungo periodo fitto di scontri. Gradualmente, ci siamo ritirati e siamo ritornati al villaggio. https://www.facebook.com/Mohammed.Yasin.photography/posts/660615090744523 https://www.facebook.com/photo.php?fbid=882320458533954 https://www.facebook.com/hamza.burnat/posts/969309203123134 https://www.facebook.com/haytham.alkhateeb/posts/10207526299488587 https://www.youtube.com/watch?feature=player_embedded&v=vR4kgMdrp_k https://www.facebook.com/mekomit/videos/1702366206676945/ https://www.facebook.com/haytham.alkhateeb/videos/10207526231006875/ https://www.youtube.com/watch?v=vR4kgMdrp_k dvidreeb https://youtu.be/wnwCHg4hs5A israelpn https://www.youtube.com/watch?v=LiGd2onQaCE https://www.facebook.com/taki.bornat/videos/vb.100000357077106/1056601771028382 https://www.facebook.com/hamde.a.rahma/videos/1664436753826695/ =================================



*Ilan Shalif http://ilanisagainstwalls.blogspot.com/


Anarchici Contro Il Muro

http://www.awalls.org


Blog di Ahdut (Unità - organizzazione comunista anarchica israeliana): http://unityispa.wordpress.com/

Documento politico di Ahdut sulla lotta palestinese: http://www.anarkismo.net/article/27038


Traduzione a cura di Alternativa Libertaria/FdCA - Ufficio Relazioni Internazionali


lunedì 15 febbraio 2016

La NATO contro i Curdi: la battaglia per A’zaz

Più si chiude l'accerchiamento contro la reazione fondamentalista armata in Siria, più il regime di Ankara, che l'ha generosamente sponsorizzata per cinque anni di carneficina, inizia a innervosirsi. La Turchia vede vanificarsi i suoi sforzi dopo l'irruzione sulla scena dei guerriglieri curdi delle YPG contro lo Stato islamico, dopo l'intervento russo e dopo il forte coinvolgimento delle milizie Hezbollah nella lotta contro questa alleanza eterogenea di opportunisti e fondamentalisti in armi che non cercano altro che di rovesciare Assad e porre fine alle milizie curde. Ecco dunque che la Turchia ha provveduto a intensificare i suoi bombardamenti contro i Curdi che operano nel nord, mentre appaiono sempre più evidenti da parte turca i segni di tentare un intervento diretto nel conflitto siriano, per allungare la durata di una avventura militare criminale che non ha fatto altro che portare dolore e morte.
E' a questo punto che cadono le maschere. La NATO, rappresentata dallo stato turco, da due giorni sta bombardando senza pietà le unità di difesa popolare curde YPG che stanno avanzando a nord di Aleppo nelle città di A'zaz e Tal Rifaat [1]. I bombardamenti, che hanno ucciso almeno 23 civili [2] si sono concentrati sulla base aerea di Menagh, conquistata nel 2013 da una coalizione di "ribelli", tra cui Al Qaeda (il Fronte Al-Nusra) ed altri che poi sono confluiti nello Stato islamico. Menagh è un obiettivo strategico per i rifornimenti alla "ribellione" al servizio delle petrol-teocrazie e degli interessi di USA e UE. Ahmet Davutoglu ha detto che di questi bombardamenti è stato informato il vicepresidente USA Joe Biden, che anche se non approva pubblicamente l'intervento militare, non lo ha condannato né ha provveduto a frenare lo Stato turco, che non agirebbe mai senza l'assoluta certezza del sostegno USA. Ricordiamo che la NATO aveva detto, nel bel mezzo della crisi con la Russia, che avrebbe difeso a spada tratta la "integrità territoriale" dello Stato turco, argomento che il regime di Ankara usa per attaccare i Curdi, dicendo che sono una minaccia per il loro concetto monolitico di unità nazionale. Questo potrebbe essere solo il preludio ad un intervento diretto da parte delle truppe di terra turche, eventualità che Erdoğan aveva già minacciato la scorsa settimana. La facciata della presunta unità contro lo Stato islamico è una farsa: lo Stato turco, e con esso la NATO, puntano alla destabilizzazione e all'estensione del bagno di sangue siriano, e contemporaneamente alla lotta contro il movimento libertario curdo.

Scommettendo sulla strategia dell'incudine e martello, mentre colpisce i Curdi in territorio siriano e rifornisce i gruppi reazionari armati per distruggere le milizie YPG, lo Stato turco colpisce anche i Curdi nel proprio territorio, cercando di schiacciare il loro spirito ribelle. Sono mesi che è stato imposto lo stato di emergenza nei territori curdi dentro lo stato turco, che si susseguono  operazioni militari di carattere repressivo, che si bombardano le città. Mentre i media occidentali sono rimasti scioccati dalla distruzione del patrimonio culturale, storico e archeologico messa in atto dallo Stato Islamico in luoghi come Palmyra (Siria) e l'hanno denunciato ai quattro venti, sono rimasti muti davanti alla distruzione sistematica del patrimonio mondiale che lo Stato turco sta compiendo nella regione curda ai suoi confini: in base alle informazioni del Comune di Diyarbakir (02/10/16) il quartiere Sur della città è stato bombardato e le sue mura storiche, patrimonio dell'UNESCO, sono state gravemente danneggiate. E' stato colpito il 70% degli edifici di questa parte della città antica, mentre 50.000 persone che abitavano nel Sur sono state sfollate dalle loro case dalla violenza e dal terrore di stato.
L'Occidente credeva di poter utilizzare i Curdi per opporsi ai settori fondamentalisti "incontrollabili", ma non ha fatto i conti con il loro ritorno di fiamma. I Curdi sono un attore politico maturo, con molta esperienza di lotta per poter essere tenuti a rimorchio ed essere considerati come semplici marionette al servizio delle grandi potenze. Quando gli Stati Uniti hanno dato inizio alla loro strategia di ridefinizione del Medio Oriente, immaginando che sarebbero sorti ovunque regimi fantoccio, associati alle teocrazie del Golfo e disposti a dare via il loro petrolio per nulla, non avevano fatto i conti con i Curdi, nè col loro progetto socialista libertario di democrazia radicale; né hanno tenuto conto delle enormi forze popolari che si sarebbero scatenate in seguito alla loro strategia interventista. È vero, non è ancora finita la fioritura di un  Medio Oriente libertario annunciato dal potere popolare che proviene dal Kurdistan e che si irradia a tutta la regione; ma è anche vero che gli Stati Uniti non sono stati in grado di imporsi, la loro egemonia nella regione è stata erosa ed ora i loro alleati sono nudi: non c'è stato un momento negli ultimi decenni in cui gli sceicchi sono stati più nervosi di quanto lo siano ora. Da qui nasce la violenza dell'improvvisato califfo di Ankara contro i Curdi.
Così come la battaglia per Kobanê è stata la chiave per invertire l'avanzata dello Stato Islamico, oggi, la battaglia per  A'zaz  è la chiave per sradicare il fondamentalismo armato e per difendere l'espansione, il consolidamento e il diritto di esistere del progetto di autonomia curdo, libertario e confederale.

José Antonio Gutiérrez D.
15 febbraio  2016

(traduzione a cura di Alternativa Libertaria/fdca - Ufficio Relazioni Internazionali)

martedì 9 febbraio 2016

CONTINUA IL GENOCIDIO NEL KURDISTAN TURCO


 via Carovana per il Rojava - Torino

 Man mano che passano le ore nuove informazione arrivano dalla città di Cizre dove la Turchia sta compiendo un GENOCIDIO.
Nella mattinata è venuta alla luce la presenza di altre 45 persone circa in un terzo scantinato della città. Questa la situazione:
- Primo scantinato (Bostancı Street - Quartiere Cudi)
31 persone si sono rifugiate in uno scantinato il 23 Gennaio dopo che alcuni carri armati avevano iniziato a sparare contro l'edificio dove si trovavano. 7 persone sono morte dissanguate e senza cure a causa del blocco delle ambulanze attuato dalle autorità Turche. Oltre i 7 corpi senza vita, 15 feriti (9 gravi), ed altre 9 persone bloccate senza cibo, acqua, cure sanitarie. Le ultime notizie risalgono ad 11 giorni fa.
- Secondo scantinato (Narin Street - Quartiere Cudi)
62 persone si sono rifugiate in un edificio attaccato dai carri armati Turchi. Nell'attacco 9 persone sono immediatamente morte bruciate vive, mentre un ragazzo di 16 anni è stato ucciso dai colpi di artiglieria dell'esercito non appena uscito dallo scantinato per provare a scappare. Il 7 Febbraio le forze speciali Turche hanno condotto un operazione (esecuzione) che ha portato di decine di persone. Oggi 12 corpi martoriati sono stati portati all'ospedale di Cizre. Si aggiungono ai 27 recuperati ieri sera. Mancano all'appello 23 persone di cui non si hanno notizie.
- Terzo scantinato (Quartiere di Sur)
45 persone attaccate dall'esercito Turco nello scantinato in cui si erano riparate oggi. Carri armati hanno colpito ripetutamente l'edificio facendolo crollare. Infine i soldati hanno cosparso il tutto di benzina ed hanno appiccato il fuoco. 25 persone sono morte bruciate, mentre altre 20 persone si trovano ferite ed in pericolo di vita. Tra di loro c'è Derya Koç, co-presidente dell'HDP nel distretto di Milas. L'esercito ha inoltre lanciato gas lacrimogeni rendendo impossibile respirare.
Al momento il conto totale delle vittime è di 66 persone, nessuna notizia sulla sorte di altre 73.
Chiamiamolo con il suo nome.
Chiamiamolo GENOCIDIO.

lunedì 8 febbraio 2016

Siria: quale destino per i Curdi nei negoziati di Ginevra?

La settimana scorsa si doveva tenere a Ginevra una riunione nel quadro dei colloqui indiretti tra il governo siriano e le varie fazioni dell'esercito di "opposizione" raggruppate sotto il nome di Alto Comitato per i negoziati. Non c'era bisogno di essere chiaroveggenti per capire che questi negoziati sarebbero falliti, ma in questo caso, non sono nemmeno iniziati. L'inviato speciale delle Nazioni Unite per la crisi siriana, Staffan de Mistura, ha deciso di rinviare l'incontro al 25 febbraio. Questo rimarchevole assortimento di gruppi finanziati a colpi di petrodollari dai fondamentalisti sauditi e dagli sponsor occidentali (tra i quali, il più dichiaratamente islamista Jeich Al Islam, non si preoccupa neppure di darsi un veste democratica) si sta rendendo conto che la loro avventura militare -applaudita dall'Occidente fino a che i  rifugiati non sono diventati un problema- è irrimediabilmente crollata, lasciando dietro di sé una scia di moltitudine di morti, di mutilati e di sfollati. La famelica "opposizione" siriana tratta per guadagnare tempo in quanto è sull'orlo del collasso, ed è chiaro che non è in grado di esigere la partenza immediata di Assad. Il problema è che l'unica decisione accettabile per l'Occidente come pure per le teocrazie e per la Turchia, è che Assad  lasci, in qualsiasi modo e in qualsiasi momento - cosa ha in occidente quel sostegno che non sembra avere in Siria. L'unica cosa che si è pronti a discutere è la data di partenza di Assad e le sue condizioni. Questa è la sostanza di ciò che sarà discusso il 25 febbraio.
Curiosamente, il partito curdo PYD, che è, tra l'altro, un attore politico chiave nel futuro della Siria e l'unica forza che ha combattuto lo Stato islamico sul terreno, è stato escluso dalla riunione. È paradossale che esso venga boicottato come membro della riunione, mentre i media occidentali spesso presentato i kurdi come "amici" dell'Occidente, facendo attenzione a non parlare degli obiettivi politici di questo movimento ed a limitare la loro simpatia ad immagini semi-erotizzate di giovani donne armati di fucili. Questa visione è tipica del modo di Hollywood di percepire la realtà dei media, ideologicamente ed economicamente dominata dagli Stati Uniti, in cui si guarda al mondo come se fosse un film in cui si devono distinguere facilmente i buoni dai malvagi. Così come si può dire che l'imperialismo non ha amici o nemici, ma che persegue solo i suoi interessi, anche i Curdi hanno la loro agenda, il loro progetto politico, e lavorano perchè si realizzi. Lo fanno da soli, tra la profonda simpatia da parte dei settori popolari in tutto il mondo, anche con uno sguardo di simpatia da parte dei poteri che in realtà cercano solo di strumentalizzarli. E' in questo senso che ha preso forma, ad un certo punto, una convergenza fugace tra Stati Uniti, Europa e Curdi quando si trattava di combattere lo Stato Islamico; tuttavia, i Curdi saranno la prima vittima dei cambiamenti di umore della politica imperialista degli Stati Uniti quando cercheranno  una soluzione alla crisi siriana, che serva ai loro interessi strategici.

Dal punto di vista degli Stati Uniti, i Curdi sono necessari come truppe d'assalto per affrontare lo Stato Islamico, ma non sono considerati come autonoma e legittima forza politica nella ricerca di una soluzione politica alla crudele guerra civile. Ma perchè? Perché gli USA hanno bisogno di mantenere buone relazioni geostrategiche con la Turchia, un membro chiave della NATO. Il governo islamico turco insiste per rovesciare Assad a causa dell'orientamento laico-nazionalista  di quest'ultimo e della sua alleanza con Hezbollah in Libano e con l'Iran, che ha portato alla costituzione di un blocco di contrasto alle ambizioni egemoniche delle dittature teocratiche del Golfo, a loro volta alleate naturali del regime di Ankara. Ma oltre alla sua ambizione di consolidare la propria posizione di leader nella regione, il piano turco ha come obiettivo strategico quello di eliminare il movimento kurdo su entrambi i lati del confine. Erdogan si basa sulla laicità dello Stato autoritario fondato da Kemal Atatürk, mentre sogna il ritorno alla grandezza del califfato ottomano. In una certa misura, Erdogan è diventato il personaggio che è riuscito a colmare il divario tra laicismo e Islam politico, tra lo stato moderno e il califfato, accontentando tutte le fazioni della classe dominante turca.

Sia dal punto di vista del suo progetto egemonico che di quello di mantenere lo stato autoritario basato sulla premessa modernista di "un popolo, una lingua, una bandiera" - in nome della quale vengono giustificati sia il genocidio armeno del 1915 che l'attuale pulizia etnica in corso in alcune regioni della Turchia- per Erdogan i Curdi sono un problema di difficile soluzione. Il progetto curdo basato su una democrazia partecipativa, laica e socialista, su una visione confederalista, sulla difesa del loro diritto di esistere, è ormai una vera e propria spina nel fianco per Erdogan e  per i suoi alleati nelle teocrazie del Golfo. Al centro del conflitto, il movimento curdo in Siria è alla ricerca di un più alto livello di democrazia e di autonomia ed ha dichiarato che la sua priorità non è la partenza di Assad, ma stabilire nuovi rapporti tra la società civile e lo Stato siriano. Consentire  l'esperienza democratica nella Rojava, territorio prevalentemente curdo nel nord della Siria, è dal punto di vista di Erdogan, un pericoloso precedente per i Curdi del Bakur, territorio a maggioranza curda occupato dallo stato turco, per i quali la Rojava è una enorme fonte di incoraggiamento e ispirazione.

Ma rappresenta un'enorme ispirazione anche per il popolo turco, che soffre di una evidente mancanza di democrazia nel paese e che, nel 2013, si era ribellato in una ondata di indignazione che aveva travolto il paese dopo Gezi Park. Erdogan si è praticamente mantenuto  al potere attraverso l'uso del terrore e della violenza estrema nelle recenti elezioni. Questo è il motivo per cui ha chiuso gli occhi per l'evidente collusione tra lo Stato Islamico (un'organizzazione che mantiene legami organici con le teocrazie del Golfo e l'Arabia Saudita),  l'apparato repressivo e l'esercito turco, perché gli torna utile nello scontro con i Curdi e le loro milizie (YPG) in Siria; questo è il motivo per cui alcuni settori dell'establishment turco mantengono legami economici con lo Stato Islamico, principalmente attraverso l'acquisto di petrolio; perché Erdogan dimostra una incapacità sconcertante nell'attaccare lo Stato Islamico, accanendosi con  una determinazione senza pari nella sua lotta contro i guerriglieri curdi sui territori siriani, iracheni e turchi; questo è il motivo per cui Erdogan ha anche adottato un atteggiamento di sfida nei confronti della Russia, il cui intervento fa pendere la bilancia decisamente contro lo Stato Islamico. Non è un caso che la Russia è il paese che insiste sul fatto che, in primo luogo, il destino di Assad rimane nelle mani del popolo siriano e non di un piccolo gruppo composto da milizie finanziate dall'estero, ma anche che i kurdi devono partecipare come attore legittimo di qualsiasi negoziato per trovare una soluzione alla crisi.

Gli Stati Uniti e l'Occidente si trovano in una situazione ambigua. Vogliono neutralizzare lo Stato islamico e, allo stesso tempo, soddisfare i loro soci geostrategici. Ecco perché lo fanno in modo apparentemente contraddittorio. Odiano l'instabilità nella regione causata dalla presenza dello Stato islamico, ma non sono in grado di affrontare la questione in modo determinato in quanto ciò potrebbe ostacolare i loro alleati nella regione: le teocrazie del petrolio e la Turchia, membro della NATO. Questo è il motivo per cui hanno bisogno dei kurdi come truppe d'assalto per affrontare lo stato islamico, ma niente di più. Ecco perché, da veri e propri schizofrenici, considerano i combattenti curdi in territorio turco (PKK) come terroristi, ma quando sono in territorio siriano (YPG), diventano magicamente combattenti per la libertà - anche se condividono la stessa ideologia, lo stesso progetto politico, gli stessi metodi, le stesse armi, gli stessi combattenti e gli stessi leader. Tuttavia, anche se non li considerano come terroristi (per ora), non possono considerarli come attori politici, e guardano dall'altra parte quando l'esercito turco intensifica gli attacchi contro i Curdi sull'altro lato del confine e quando  emergono gravi indizi che la Turchia potrebbe invadere la Rojava con tutta la sua potenza militare, innescando una  carneficina contro i Curdi. Il tutto con l'accordo della "comunità internazionale" guidata da Washington e Bruxelles.

Da questo punto di vista, non è un caso che la "comunità internazionale", Stati Uniti in testa, ora gira le spalle ai suoi "amici" curdi, dando legittimità politica ad una coalizione eterogenea di islamisti e opportunisti dell'ultima ora -la cosiddetta opposizione democratica siriana, che non esisterebbe senza i petrodollari e le armi forniti dagli sceicchi autocratici del Golfo e dal piccolo califfato di  Ankara. Nel momento in cui si dovranno prendere decisioni di merito, il futuro della Siria si giocherà in un oscuro ufficio a Ginevra, fuori dalla portata della volontà del popolo kurdo e del popolo siriano. I Curdi hanno bisogno di capire quale sia il loro posto nello scacchiere del Medio Oriente: servire da carne da cannone in guerra e sottomettersi quando sarà l'ora di decidere il destino della regione? In tutta questa faccenda, l'ONU ha dimostrato, ancora una volta, la sua incapacità di risolvere alcunchè, cedendo alla volontà di chi grida più forte e lasciando persistere la crisi, piuttosto che contribuire  a superarla. Cosa ci si potrà aspettare dai negoziati di Ginevra, quando riprenderanno? Niente, come al solito.

José Antonio Gutiérrez D.
04/02/16

(traduzione a cura di Alternativa Libertaria/fdca - Ufficio Relazioni Internazionali)

domenica 7 febbraio 2016

Lettera di Tanya Golan refusnik israeliana

Tanya Golan, militante della federazione comunista anarchica Ahdut (Unità) si rifiuta di prestare servizio militare

 
Tanya Golan, israeliana militante della federazione comunista anarchica Ahdut (Unità),  ha intrapreso la strada dell'obiezione totale al servizio militare, previsto per i diplomati delle scuole superiori. "Tania è anarchica, vegana ed ecologista. Si rifiuta di prestare servizio militare nell'esercito sionista. Diffondiamo la sua dichiarazione di obiezione, in cui esprime le sue motivazioni e le sue critiche di carattere sociale...:"

Mi chiamo Tanya Golan ed ho 20 anni. Ho deciso di fare obiezione al servizio militare nell'esercito israeliano e ritengo sia importante rendere pubblica questa mia scelta per il valore che può assumere.

Fare o non fare il servizio militare è una decisione politica che ciascuno dovrebbe prendere in piena coscienza. Invece c'è una legge che minaccia i giovani per spingerli a fare il militare.
Non ho alcuna fiducia nella gerarchia autoritaria. L'esercito è un braccio della borghesia, del governo e delle fabbriche di armi. Ci sono coloro che traggono profitto dal conflitto israeliano-palestinese e che non molleranno mai il controllo sulla Cisgiordania. Questi poteri hanno creato razzismo e divisioni. Le spese militari del governo israeliano (compresi i finanziamenti che vengono dagli USA) tendono a crescere di anno in anno a detrimento degli investimenti sulla formazione, sulla sanità e sullo stato sociale; eppure non c'è alcuna sicurezza, tante sono le minacce che incombono su Israele. Ritengo che le nostre paure vengano strumentalizzate per distrarci e per impedirci di fare riflessioni più profonde.

Non si può costruire una società giusta sulla base dell'ingiustizia. Mi rifiuto di entrare a far parte di un'organizzazione razzista, fascista, discriminatoria ed oppressiva. Mi rifiuto di entrare a far parte di un'organizzazione che da decenni impedisce a milioni di persone di godere dei diritti civili.

Dall'altra parte, ci sono i Palestinesi, persone come noi, con gli stessi bisogni che abbiamo noi, che vogliono solo vivere la loro vita. Invece: arresti, detenzioni, maltrattamenti messi in atto dall'esercito e dai coloni ebrei, e poi schiavitù salariale, nessun tipo di welfare — noi non possiamo ritenerci al sicuro se offriamo buone ragioni per combatterci.

L'esercito, al pari della scuola, è un'istituzione che plasma la socializzazione. Così come lo scopo principale della scuola è quello di fare della società un'entità monolitica,  quello dell'esercito non è di proteggere il popolo, ma di essere un melting pot (termine israeliano per definire l'esercito come istituzione che omologa le persona)  che tiene vivo lo spirito di adorazione popolare nei suoi confronti, mentre in realtà protegge solo le gerarchie.
L'esercito è un'istituzione con una burocrazia assurda, settori che si relazionano tra di loro al di fuori del mondo reale e settori che si occupano di questioni della società civile. E' quel tipo di struttura che educa i giovanissimi ad un pensiero dogmatico che serve a perpetuare la relazioni gerarchiche tra oppressori ed oppressi. Questa parte della vita di un giovane israeliano non è che lo stadio finale dell'ingresso nell'età adulta in questa parte del mondo, tra il fiume ed il mare.

Io penso che entrare a far parte di un'organizzazione  dovrebbe essere una scelta motivata da una spinta e da riflessioni personali. Così funziona nel caso della Federazione Democratica della Rojava, non così lontano da qui; da cui forse possiamo imparare una cosa o due. Loro non hanno la leva obbligatoria, eppure, nonostante ciò, hanno la stessa percentuale di reclutamento per le YPG e le YPJ che ha Israele per il suo esercito. Se non c'è nessun desiderio di proteggere qualcosa, probabilmente si tratta di qualcosa che non ha bisogno di protezione.

Io respingo i ragionamenti che si fanno a favore del servizio militare, tipo il cameratismo, avere una direzione di vita, fare esperienza, aiutare la comunità. Io ho scelto di non sacrificare me stessa per due anni interi di spari, umiliazioni ed oppressione per niente. Non porterò l'uniforme, per cui non darò il mio contributo alla pressioni pubbliche sul fare il servizio militare. Fare obiezione non è una cosa semplice, ma non lo è nemmeno fare il militare.
Infine ma non meno importante, c'è una questione di giustizia sociale. L'esercito danneggia l'ambiente con lo sversamento di carburante e liquami, si disfa dell'equipaggiamento gettandolo in mare oltre a fare altre attività che mettono in pericolo l'equilibrio della flora e della fauna. E tutto questo succede senza che ci sia il minimo controllo, esattamente come accade con la spesa militare.
Far sentire la propria voce, in ogni situazione, è di grande aiuto, ed io invito tutti a far sentire la propria voce.
Va da sè che le cose brutte succedono proprio quando le persone di buone intenzioni non si danno da fare.

Per dare sostegno a  Tanya:
https://www.facebook.com/events/1703374906542342/

Il pifferaio magico di Sion (Uri Avnery*)



HAMELIN, una piccola città tedesca (non così distante da dove sono nato), era infestata dai topi. Disperati, i maggiorenti della città chiamarono un acchiappa-topi e gli promisero 1000 fiorini se li avesse liberati da quella piaga.
L'acchiappa-topi prese il suo flauto e si mise a suonare una melodia così dolce che tutti i ratti uscirono dalle loro tane e lo seguirono verso il fiume Weser, dove annegarono tutti.
Una volta liberati da questa piaga, i signori della città non vollero pagare quanto pattuito. Il pifferaio prese di nuovo il suo flauto e suonò una melodia ancora più dolce. Incantati dalle note di quella musica, tutti i bambini della città lo seguirono sino al fiume, dove annegarono tutti.
Binyamin Netanyahu è il nostro pifferaio. Incantato dalla sua musica, il popolo di Israele lo sta seguendo verso il fiume.
Chi si sta rendendo conto di quello che sta succedendo rimane in attesa. Non sa cosa fare. Come salvare i bambini?
Il campo pacifista israeliano è in preda alla disperazione. Nessun salvatore all'orizzonte. Molti non sanno fare altro che stare davanti alla TV a torcersi le mani.
Il dibattito in corso è: la redenzione verrà dall'interno di Israele o dall'esterno?
Il contributo più recente a questo dibattito viene da  Amos Schocken, il proprietario del quotidiano "Haaretz". In uno dei suoi rari articoli ha scritto che solo forze esterne ad Israele possono salvarci.
Per prima cosa voglio dire che stimo Schocken. "Haaretz" ("La Terra") è uno degli ultimi bastioni della democrazia in Israele. Maledetto e detestato dall'intera maggioranza di destra, il giornale guida la battaglia intellettuale per la democrazia e per la pace. E tutto mentre la carta stampata sta vivendo dure ristrettezze finanziarie in Israele come in tutto il mondo. Essendo stato proprietario ed editore di una rivista - che ha perso la sua battaglia- so bene quanto sia eroico e causa di sofferenze fare questo lavoro.
Nel suo articolo Schocken dice che la battaglia per salvare Israele dall'interno è senza speranza e che dunque dobbiamo dare sostegno alle pressioni che giungono dall'estero: a quel movimento in crescita a livello mondiale per boicottare Israele sul piano politico, economico ed accademico.
Un altro israeliano con una certa influenza che la pensa allo stesso modo è Alon Liel, ex-ambasciatore in Sud Africa ed attualmente docente universitario. Sulla base della sua esperienza di diplomatico, Liel afferma che fu il boicottaggio mondiale che mise in ginocchio il regime dell'apartheid in Sud Africa.
Lungi da me contestare la testimonianza di un esperto come Liel. Non sono mai stato in Sud Africa, ma ho avuto modo di parlare con molti protagonisti, neri e bianchi, e mi sono fatto un'opinione un po' differente.
E' molto seducente comparare la situazione di Israele oggi con quella dell'apartheid in Sud Africa. Nei fatti, il paragone è alquanto inevitabile. Ma cosa ci dice?
E' convinzione diffusa in Occidente che fu il boicottaggio internazionale verso l'atroce regime di apartheid sudafricano che ne spezzò le ossa. Si tratta di una convinzione confortante. La coscienza mondiale ha avuto un sussulto ed ha sconfitto i cattivi.
Ma questo è il punto di vista di chi guardava da fuori al Sud Africa. Lo sguardo di chi ci stava dentro appare essere alquanto diverso. Veniva apprezzato l'aiuto della comunità internazionale, ma la vittoria fu tutto merito della lotta della popolazione nera, della sua capacità di resistere, del suo eroismo, della sua tenacia. Facendo ricorso a diversi metodi, dagli scioperi al terrorismo, alla fine hanno reso l'apartheid impossibile.
La pressione internazionale contribuì a far sentire i bianchi sempre più coscienti del loro isolamento. Alcune misure, come il boicottaggio internazionale delle compagini sportive sudafricane, risultarono particolarmente dolorose. Ma senza la lotta della popolazione nera, le pressioni internazionali sarebbero state inefficaci.
Il più grande rispetto è dovuto ai bianchi sudafricani che hanno attivamente sostenuto la lotta dei neri, compresi gli atti di terrorismo, correndo grandi rischi sul piano personale. Molti di loro sono ebrei. Alcuni si sono rifugiati in Israele. Uno di loro era mio amico e vicino di casa, Arthur Goldreich. Per quanto possa sembrare strano, il governo israeliano sosteneva il regime dell'apartheid sudafricano.
Anche da un confronto supeficiale tra i due casi, si può dedurre che il regime dell'aparheid di Israele gode di maggiori vantaggi che non c'erano in Sud Africa.
I bianchi sudafricani al governo erano universalmente detestati perchè avevano abbastanza apertamente sostenuto i nazisti durante la 2GM. Gli Ebrei sono stati vittima dei nazisti. L'olocausto è un volano enorme per la propaganda di Israele. Lo stesso vale per etichettare tutte le critiche ad Israele come anti-semitismo - un'arma molto efficace in questi giorni.
(Vedi il mio ultimo: "Chi è anti-semita? Qualcuno che dice la verità sull'occupazione")
Il sostegno acritico da parte delle potenti comunità ebraiche di tutto il mondo al governo israeliano è qualcosa che i bianchi sudafricani potevano soltanto sognarsi.
E, ovviamente, non c'è nessun Nelson Mandela all'orizzonte. Nemmeno, peraltro, dopo l'isolamento e l'uccisione di Arafat.
Paradossalmente, c'è un po' di razzismo nella convinzione di chi crede che siano stati i bianchi del mondo occidentale a liberare i neri in Sud Africa e non i neri sudafricani a liberare se stessi.
C'è un'altra grossa differenza tra le due situazioni. Induriti da secoli di persecuzioni subite nel mondo cristiano, gli Ebrei Israeliani possono reagire alle pressioni esterne in modo diverso da quello che ci si attende. Le pressioni esterne possono rivelarsi essere controproducenti. Possono ridare fiato a quelle vecchie credenze ebraiche che gli Ebrei sono perseguitati non per quello che fanno, ma per quello che sono. Questo è uno dei principali cavalli di battaglia di Netanyahu.
Anni fa, un gruppo musicale di intrattenimento per l'esercito, cantava e danzava al tempo di una gioiosa canzone che diceva:"Tutto il mondo ce l'ha con noi/Ma a noi non ce ne frega un cazzo…"
Tutto ciò riguarda anche la campagna BDS. 18 anni fa, io ed i miei amici fummo tra i primi a dichiarare il boicottaggio dei prodotti degli insediamenti. Volevamo aprire un cuneo tra gli Israeliani ed i coloni. Ecco perchè non dichiarammo il boicottaggio di Israele in sè, cosa che avrebbe portato la gente comune di Israele nelle braccia dei coloni. Quello che andava boicottato era il sostegno diretto ai coloni.
Questa è ancora la mia opinione. Ma ognuno all'estero fa come vuole. Tenendo sempre in mente però che l'obiettivo principale è quello di influenzare l'opinione pubblica israeliana.
Il dibattito su "interno - esterno" può apparire puramente teorico, ma non è così. Ci sono invece molte implicazioni pratiche.
Il campo pacifista israeliano è in uno stato di disperazione. Le dimensioni e la forza della destra sono in crescita. Quasi ogni giorno, vengono proposte ed approvate nuove odiose leggi, alcune delle quali hanno un inconfondibile aroma fascista. Il Primo Ministro, Binyamin Netanyahu, si è circondato di una stuola di attaccabrighe che vengono soprattutto dal partito Likud, rispetto ai/alle quali egli stesso appare come un liberale. Il principale partito di opposizione nel campo sionista (cioè i laburisti) potrebbero essere definiti come il lato B del Likud.
A parte alcune decine di gruppi minoritari che dimostrano coraggio e fanno un lavoro ammirevole, ognuno nella nicchia prescelta, il campo pacifista è paralizzato dalla propria disperazione. Il suo slogan potrebbe essere "Non c'è più niente da fare". (La cooperazione ebreo-araba in una lotta comune dentro Israele – ora tristemente assente -è pure essenziale)
In questa situazione, l'idea che solo le pressioni dall'estero possano salvare Israele da se stesso può essere confortante. Qualcuno da fuori farà il lavoro al posto nostro. Dunque godiamoci i piaceri della democrazia finchè dura.
So bene che questi non sono i pensieri di Schocken, di Liel e di altri che combattono tutti i giorni la loro battaglia quotidiana. Ma temo che queste possano essere le conseguenze del loro punto di vista.
Dunque, chi ha ragione: coloro i quali credono che solo la lotta da dentro Israele possa salvarci, o coloro che ripongono la loro fiducia interamente nelle pressioni dall'esterno?
La mia risposta è nessuno dei due.
O, meglio, entrambi.
Coloro che lottano all'interno hanno bisogno di tutto l'aiuto esterno che possano ottenere. Tutte le persone etiche in tutti i paesi del mondo dovrebbero ritenere  loro dovere aiutare questi gruppi e queste persone che dentro Israele continuano a combattere per la democrazia, per la giustizia e per l'uguaglianza.
Se gli è cara Israele, dovrebbero correre in soccorso di questi gruppi di coraggiosi, moralmente, politicamente e materialmente.
Ma affinchè le pressioni dall'esterno siano efficaci, devono essere capaci di connettersi con la lotta all'interno, di pubblicizzarla e di guadagnare sostegno per essa. Si può così dare nuova speranza a coloro che ora sono senza. Nulla è più vitale di ciò.
Il governo lo sa. Ecco perchè sta approvando tutta una serie di leggi per isolare i gruppi pacifisti israeliani dal sostegno che ricevono dall'estero.
Facciamo in modo che la buona lotta continui – dentro, fuori, ovunque.
(*) Uri Avnery (1923), pacifista israeliano, fondatore del movimento pacifista Gush Shalom; nel 1982 fece una memorabile intervista ad Arafat
(traduzione a cura di Alternativa Libertaria - Ufficio di Relazioni Internazionali)

IX Congresso Nazionale della FdCA

IX Congresso Nazionale della FdCA
1-2 novembre 2014 - Cingia de' Botti (CR)