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per giulio

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sabato 29 luglio 2017

FIAT/FCA Serbia cronaca di una lotta

comunicato del 12 luglio della Confederazione dei Sindacati Autonomi di Serbia
http://sindikat.rs/ENG/news.html#
Kragujevac, il più grande sciopero nella storia recente di FIAT

FIAT Serbia  è definitivamente entrata in una fase di turbolenza con uno dei più grandi scioperi nella recente storia dell'impresa che va avanti da più di 2 settimane. Da sedici giorni di fila 2500 operai della più grande fabbrica di auto della Serbia stanno resistendo all'indifferenza dell'azienda ed ai tentativi del governo di farli tornare al lavoro. L'azione sindacale ha già causato serie perdite per tutti: la produzione si è ridotta di almeno 5000 veicoli, il salario che gli operai percepiranno dopo lo sciopero sarà ben inferiore al minimo necessario a loro ed alle loro famiglie per sopravvivere, l'immagine della Serbia, così cara ad un governo pronto ad attrarre investimenti esteri dipingendo il paese come "un posto con la forza lavoro meno cara e più disciplinata che ci sia", ha perso parte della sua credibilità...Eppure, fatta eccezione per gli operai e per i loro sindacati, nessuno ha fatto uno sforzo visibile per trovare una soluzione al conflitto. Sembra che FIAT sia attaccata al suo principio di non negoziare durante lo sciopero, mentre il governo non ha alcuna forza per convincere FIAT a fare diversamente.
L'origine del conflitto sta nell'abolizione del terzo turno introdotta l'anno scorso. Più di 800 operai vennero licenziati ed il loro lavoro distribuito tra gli altri rimasti. Il carico di lavoro è cresciuto notevolmente, costringendo spesso i lavoratori a correre da una postazione all'altra per realizzare le necessarie operazioni. I carrelli elevatori che secondo le regole FIAT non possono mai superare la velocità di 5 km/h ora stanno già funzionando a 14 km/h! Altri problemi sono il trasporto di coloro che lavorano nel turno serale (che non sono in grado di prendere gli ultimi autobus notturni) e il pagamento di bonus di efficienza. E, naturalmente, salari molto bassi (poco più di 300 euro) che sono inferiori alla media nazionale del settore metalmeccanico (i lavoratori hanno chiesto solo un aumento di 50-60 euro). Qui bisogna tener conto dell'assurdità del fatto che i salari dei lavoratori durante tutto l'anno vengono pagati dal bilancio serbo, che consente a FIAT di ottenere un profitto extra! La colpa di tutto ciò è di uno dei precedenti governi, che - soprattutto per ragioni politiche - era troppo ansioso di firmare un contratto che privava la Serbia di una parte della sua ricchezza e limitava la sua sovranità.
E questo è esattamente il caso, dato che per il suo rigido rigetto della contrattazione collettiva, la gestione aziendale è in netta violazione non solo della Convenzione ILO 144 sulle consultazioni trilaterali, ma anche della legislazione serba (la nostra legge del lavoro vede il dialogo durante il periodo di sciopero non come questione di libera scelta, ma come obbligo di entrambe le parti sociali). Inoltre, FIAT ha rifiutato per due volte di rispettare le decisioni dell'Ispettorato del Lavoro che la obbligava a iniziare i negoziati - un terzo rifiuto potrebbe condurre, almeno in teoria, alla chiusura dell'azienda). Sembra che il governo si stia impegnando a spingere verso una convergenza fra le due parti: c'è un'idea di pubblicare un decreto che permetterebbe il "congelamento" dello sciopero per un giorno (venerdì). I lavoratori andrebbero a lavorare proprio quel giorno, permettendo alla direzione di rispettare il principio di non negoziare durante gli scioperi, cosa che potrebbe aiutare a trovare una soluzione valida. Poi, domenica sera, l'assemblea generale dei lavoratori voterebbe per la cessazione o la continuazione dello sciopero.
Il clima tra gli scioperanti è "caldo" e sono ben pochi quelli pronti ad accettare la sospensione della lotta.  Si teme la lotta possa radicalizzarsi nel corso delle previste manifestazioni di protesta dalla fabbrica alla sede del municipio e ci sono segnali che lo sciopero potrebbe diffondersi ad altre aziende del settore metalmeccanico. Sembra che la Serbia si stia svegliando dal sogno neoliberista e dalle idee dell'armonia naturale tra le parti sociali. Questi sono i Balcani e qui la situazione è diversa da quella in Europa occidentale. Lottando per la democrazia negli anni '90 abbiamo ottenuto il capitalismo e ora siamo costretti ad affrontare una delle sue forme più barbariche e disumane. L'unico modo per cambiarlo è essere fermi e uniti. Il forte sostegno di tutte le fabbriche FIAT in Europa e nel mondo ha dato ai lavoratori serbi una motivazione aggiuntiva per continuare con la loro azione e vincere.
(traduzione a cura di AL-Ufficio Relazioni Internazionali)

18 luglio: lo sciopero alla FIAT continua http://sindikat.rs/ENG/news.html#
In conferenza stampa, Zoran Markovic, Presidente del sindacato CATUS in FCA e Presidente del Comitato di Sciopero ha annunciato che lo sciopero sarebbe continuato. Al tempo stesso ha invitato l'intera forza lavoro serba a venire a Kragujevac il 19 luglio alle ore 11.00 per partecipare alla grande manifestazione davanti al municipio. Nella consultazione del 17 luglio su entrambi i turni gli operai hanno votato per il proseguimento dello sciopero. Nel primo turno la decisione è passata col 97% e nel secondo turno col 98%.
Praticamente, ciò significa che circa 2000 operai su 2500  ha deciso di non fermare la protesta finchè i dirigenti FIAT non si esprimono sulle rivendicazioni operaie. E cioè un aumento del salario lordo dagli attuali 38.500 dinari (circa 320 euro) a 50.000 dinari (416 euro), riorganizzazione del lavoro, pagamento dei bonus di efficienza e rifinanziamento del fondo per le spese di trasporto dei pendolari al di fuori dell'orario di lavoro.


19 luglio: sciopero sospeso http://sindikat.rs/ENG/news.html#

La scorsa notte il primo ministro serbo Ana Brnabić ha raggiunto un accordo con gli operai FIAT di Kragujevac sull'interruzione dello sciopero e l'inizio del negoziato.
All'incontro tenutosi nel municipio di Kragujevac, a cui ha preso parte anche il presidente del CATUS Ljubisav Orbovic, si è convenuto che il negoziato sarebbe iniziato a mezzodì.
In conferenza stampa Ana Brnabić ha ringraziato gli operai per la riuscita della riunione ed ha annunciato che avrebbe presenziato al negoziato perchè era estremamente importante per lei mantenere la promessa data agli operai ed ai loro sindacati.
Non posso dare garanzie sugli esiti perchè il Governo è un partner minore”, ha precisato il Primo Ministro.
Ad ogni modo, quello che può garantire è di stare a fianco degli operai per tutto il tempo e negoziare insieme, con il sostegno del Governo.
Brnabić ha dichiarato che insieme al suo team ed al ministro dell'economia Goran Knezevic, avrebbe insistito perchè venissero accolte gran parte delle richieste sindacali. 
Secondo quanto ella dice, molti problemi hanno a che fare col processo di produzione e si possono risolvere con i quadri intermedi. Dopo essere stata ampiamente informata sui problemi interni allo stabilimento FIAT, lei ha dichiarato che il Governo dovrebbe essere regolarmente informato su quanto succede in FIAT.
Il presidente del comitato di sciopero della FIAT Zoran Marković ha detto che la protesta è stata revocata ed ha invitato gli operai a tornare al lavoro il 19 luglio. Ha aggiunto che dopo l'incontro col primo ministro Ana Brnabic, il sindacato ed il comitato di sciopero hanno deciso di interrompere lo sciopero per continuare le trattative con i rappreentanti della FCA e col governo serbo. 
Vorrei informare tutti i lavoratori che questa non è una sconfitta, anche perchè saranno in molti a presentarvela così. Il fine non è che FIAT se ne vada, bensì il miglioramento delle nostre condizioni di lavoro e salariali, espresse nelle nostre 4 rivendicazioni”, ha dichiarato Marković.
Che si aspetta un negoziato risolutivo, rapido e preciso.
(traduzione a cura di AL-Ufficio Relazioni Internazionali)

comunicato della Confederazione dei Sindacati Autonomi di Serbia del 24 luglio 2017 cfr.http://sindikat.rs/ENG/news.html#429

I dirigenti FIAT hanno preso visione delle richieste operaie ed hanno offerto un aumento salariale del 9.54%, come comunicato dalla Radio Televisione Serba.
L'offerta proposta ai rappresentanti degli operai stabilisce che i salari aumenteranno del 9.54%, il che significa che il salario lordo di base passerà da 38.500 dinari (circa 320 euro) a 42.000 dinari (350 euros). L'aumento sarà corrisposto in due tranche: il 3.15% in agosto ed il 6.39% a febbraio 2018. Anche il bonus di efficienza verrà rifinanziato, come pure il fondo per le spese di trasporto. Sulla richiesta operaia di migliorare le condizioni di lavoro nellaa fabbrica di Kragujevac, verrà istituita una commissione speciale con lo scopo di determinare  le postazioni in cui gli operai prestano operazioni multiple e fissare i problemi. Il Presidente del sindacato, Zoran Markovic, ha dichiarato che l'assemblea dei sindacati ha autorizzato i rappresentanti degli operai a proseguire il negoziato.

(traduzione a cura di AL-Ufficio Relazioni Internazionali)

sabato 15 luglio 2017

FOGLIO ALTERNATIVA LIBERTARIA GIUGNO 2017

Il foglio telematico di Alternativa Libertaria

In questo numero parliamo di costruire reti di solidarietà, di  mutualità e autogestione, di monete elettroniche

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Costruire solidarietà…, riconquistare spazi franchi di agibilità…, riguadagnare l’utopia….


Tre azioni che sembrano, in questo periodo storico, difficili, ardue e persino scoraggianti.
Siamo infatti in una realtà plasmata dalle paure e dal terrore, dalle guerre e dalla povertà, in cui lo scontro tra le minoritarie classi dominanti e le centinaia di milioni di proletari si inabissa duro ed implacabile nelle sofferenze dello sfruttamento inflitto a uomini e donne di ogni latitudine mentre si assiste all’opera di devastazione portata avanti dal capitalismo.
Le devastazioni portate dal capitalismo e dagli Stati
Una devastazione economica e finanziaria resettata come austerità e schiavitù dal debito, una devastazione ambientale riqualificata come valorizzazione dello scempio del territorio, una devastazione del mondo del lavoro ridefinita come subordinazione dei lavori e dei saperi, una devastazione dei diritti e delle libertà sindacali ridenominata come regolamentazione/repressione del conflitto all’interno di relazioni industriali dettate dall’impresa, una devastazione delle condizioni di vita sociale riciclata come aggiustamento strutturale sulla spesa pubblica, una devastazione delle relazioni sociali e personali, degli affetti, della cultura, dell’arte, della ricerca, sottoposte  -come fossero merce- alle leggi del mercato.
Un’opera di violenta distruzione e ricostruzione violenta, che dura, nella sua virulenza massima, da dieci anni e che punta a  rendere volatile qualsiasi opzione di cambiamento.
Votare per cambiare, cambiare per votare
Le classi dirigenti non hanno mai amato tanto il voto come in questi anni.
Le elezioni non sono più lo strumento per sancire la rappresentanza, truccata o meno, dei partiti in competizione, bensì il mezzo per adeguare continuamente le strutture e le leggi dello Stato e gli assetti del potere statuale alle necessità delle classi dirigenti nazionali ed europee.
Lo spostamento di sovranità su diversi aspetti politico-economici dagli stati-nazione all’Unione Europea offre la possibilità di usare le elezioni e la conquista dell’esecutivo per cambiare ruolo e compiti dello Stato, cambiando o usando le leggi elettorali vigenti per disfarsi degli avversari, per affermare un nuovo movimento che deve apparire….nuovo.
Questa mutazione in atto dello Stato finge di lagnarsi, ma in realtà non si cura degli alti tassi di astensionismo (nonostante la continua attesa che possa materializzarsi almeno in parte come opposizione sociale organizzata), nemmeno del successo parziale di formazioni politiche della sinistra europea.
La lotta tra le fazioni delle classi dominanti è per il potere, e la democrazia rappresentativa torna utile come legittimazione.
Ci attendono lunghi mesi in cui molte forze della sinistra italiana verranno risucchiate nel tentativo di costruire un soggetto politico alternativo al PD ed al M5S.
Molte energie verranno impiegate. C’è da augurarsi che tutto il loro affaccendarsi non si esaurisca lì. In Italia c’è bisogno di tanta sinistra, soprattutto nella società e nelle lotte sociali.
Si dirà che le ultime tornate elettorali in Europa hanno spazzato via gran parte delle forze di destra e di estrema destra.
Ma è ben magra consolazione.
Sconfitte le destre?
Ogni volta che la destra subisce una sconfitta, fosse anche elettorale, non c’è che esserne soddisfatti.
Tuttavia, la destra razzista e xenofoba, sovranista e nazionalista di questi anni si è diffusa in profondità nelle società europee ed in particolare in quella italiana, dove riesce ad inserirsi nella coalizione elettorale di centro-destra, a costringere il M5S a svelare il suo posizionamento a destra, a portare liste alle elezioni amministrative con qualche successo.
Questa destra non sarà mai messa fuori gioco solo a colpi di elezioni.
Occorre un lavoro capillare nei territori, di vigilanza e di recupero di valori di cultura della solidarietà che contrastino il razzismo in società sempre più ed inevitabilmente multietniche.
Occorre costruire reti antifasciste per porre ampi argini sociali nei quartieri e nelle città, in cui la destra deve sentirsi estranea, priva di sacche di reclutamento.
Il coraggio delle lavoratrici e dei lavoratori
In questa situazione di restaurazione del potere d’impresa ai danni dei lavoratori e delle loro organizzazioni di massa, emergono ancora una volta dal cuore dell’appartenza di classe il coraggio, la voglia di riscatto e di conflitto.
La manifestazione della CGIL a Roma del 17 giugno contro la truffa e la scellerataggine della legge sui vouchers, unitamente allo sciopero nei trasporti e nella logistica indetto da diverse organizzazioni sindacali di base il 16 giugno, dimostrano che ci sono le possibilità per riconquistare spazi di conflitto e di riscatto.
Le lotte sindacali, il cui strumento è il diritto di sciopero e la cui anima è la capacità di coalizione dei lavoratori nei luoghi di lavoro e nel territorio, sono da salutare sempre come una speranza ed una realtà insopprimibili.
La rivoluzione industriale 4.0 non ha archiviato lo sfruttamento e l’estrazione di plusvalore, nè la decurtazione dei salari e gli aumenti di orario ed i demansionamenti, nemmeno i licenziamenti ed i ricatti, la flessibilità ed il precariato: la lotta di classe 4.0 è dunque appena iniziata.
Se la CGIL, dopo la beffa subita dal governo Gentiloni, è sempre più costretta a rivedere il suo posizionamento per sedersi ad eventuali tavoli di contrattazione con rapporti di forza meno sfavorevoli, i sindacati di base sanno che stringe sempre di più il tempo per confederare le forze e non disperdere i risultati di un lavoro difficile di decenni.
Riguadagnare l’orizzonte di una società più giusta
E’ un orizzonte verso il quale si va tutti insieme o si allontanerà sempre di più.
E’ un orizzonte ancora visibile in ogni quartiere, in  ogni città, in ogni Paese.
Verso cui mettersi in cammino ogni volta che le forze sociali per una società più giusta e più ugualitaria riescono a fare coalizione, a federarsi, a costruire alternativa reale nei luoghi di vita, nel territorio, nei posti di lavoro; a rivendicare bisogni sociali fondamentali come il diritto alla mobilità, allo studio, al verde, agli spazi gratuiti in cui poter fare cultura, arte, meeting; a costruire esperienze di autogestione del lavoro e della produzione federate in ecoreti; ad aggregare situazioni di cooperazione con i migranti; a contrastare razzismo ed esclusione, emarginazione e precarietà.
Alle organizzazioni politiche anticapitaliste che hanno come orizzonte una società egualitaria fondata sulla libertà non sfuggirà la necessità sempre più pressante di costruire situazioni di cooperazione e di coordinamento per sostenere quelle forze sociali che sono il tessuto reale dell’alternativa di oggi e di domani.
Il comunismo, quello libertario, è sempre all’ordine del giorno. 98° Consiglio dei Delegati di Alternativa Libertaria
Fano, 24 giugno 2017



Cripto-monete e cripto-bolla?












L’invito di Varoufakis rivolto al presidente dell’Ecuador Lenin Moreno (durante il loro incontro di fine aprile) di usare la moneta elettronica per pagare gli stipendi dei dipendenti pubblici e le importazioni può apparire bizzarro, ma in realtà l’ex-ministro greco si riferiva ad un mondo a lui ben noto, ma in realtà poco conosciuto: quello del mercato delle monete elettroniche (bitcoin è la più famosa), digitali, cripto-monete o “alt.coins”.
Il cui valore di mercato si è triplicato nel periodo gennaio-maggio 2017 fino a $60mld (cfr: https://coinmarketcap.com)
La più famosa di queste monete, specialmente dopo l’attacco hacker di maggio 2017 in cui si chiedeva un riscatto per decriptare i files rubati [pare che finora siano 80.000 i danneggiati che hanno pagato], è la bitcoin.
1. Quante bitcoins ci sono in giro?
Circa 16.3 milioni con 1800 nuove emissioni al giorno.
Una domanda crescente ha portato la bitcoin fino ad un prezzo di oltre $2750  (cfr. https://www.mataf.net/, ), ben oltre il valore di $450 di un anno fa.
Un grande business? Sì, ma con qualche problema. Agli inizi del 2017 una di queste cripto-monete, Bitfinex, ha avuto dei problemi con le banche di riferimento che non erano in grado di pagare in valuta reale i detentori dei conti in cripto-moneta. Costoro hanno dovuto dunque usare le loro bitfinex per acquistare bitcoins da cambiare con valuta reale altrove.
2. Chi usa le cripto-monete?
Investitori ufficiali come le family offices [società di servizi che gestiscono il patrimonio di una o più famiglie facoltose agendo come centro di coordinamento per la gestione finanziaria e amministrativa], ed  i famigerati  hedge funds.
Agiscono sui mercati over-the-counter [caratterizzati dal non avere i requisiti riconosciuti ai mercati regolamentati; sono mercati la cui negoziazione si svolge al di fuori dei circuiti borsistici ufficiali e dei controlli].  (cfr. btcmiami.com/speaker/mike-komaransky/).
Dal momento che il punto debole della bitcoin è la limitata capacità del sistema, è aumentata la domanda per altre “alt.coins”.
Il sistema della bitcoin può gestire solo sette transazioni al secondo, rispetto alle migliaia di transazioni gestite dai servizi di pagamento convenzionali.
3. Dunque meglio diversificare.
Il sito CoinMarketCap ne elenca circa 800, dalla ArcticCoin, una misteriosa cripto-moneta russa alla ZCoin che vanterebbe una maggiore riservatezza.
L’ultima arrivata è Ripple, la cui capitalizzazione è esplosa in maggio passando da un valore di $2mld a $13mld.
Infine Ethereum, [da etere, cfr. http://ethblogitalia.it/] è saltata da un valore di mercato di $700mln in gennaio ai $8,6mld in maggio!!
Ma proprio quest’ultima potrebbe innescare la classica bolla.
I detentori di ethereum, sentendosi più ricchi, hanno iniziato ad investire nelle ICOS [Initial Coin Offers, offerta iniziale di monete digitali]. Ci sono start-up che vendono i propri “tokens” [gettoni/monete digitali] o sub-valute di ogni tipo, la cui esistenza dipende da ethereum.
Nel 2017 sono già state lanciate 38 ICOS, che hanno raccolto più di $150mln (cfr. www.smithandcrown.com).
Questo risultato ha attirato sempre più denaro verso le monete digitali.
Alcuni profitti sono stati ripagati in bitcoin ed in alt.coin.
Il mercato di scambio tra monete digitali è cresciuto di 10 volte con una media di $2mld al giorno (cfr. https://shapeshift.io/, una società di crypto-to-crypto exchange).
4. Ora la questione non è se il vento cambierà, ma quando.
Che succede se le ICOS, che sono completamente prive di controllo, iniziano ad andare male?
E cosa succede se gli emittenti moneta si ritrovano in assenza di denaro o se i regolatori del mercato iniziano a bloccare certe offerte?
Intanto, se da un lato è alquanto agevole comprare moneta digitale con denaro reale, dall’altro venderne grandi quantità potrebbe diventare più difficile, come dimostrato dal caso bitfinex ed altre cripto-monete. IL che rende improbabili flussi improvvisi.
La nascita e la crescita di diverse monete digitali hanno portato il sistema delle cripto-monete ad essere più vasto di quello della bitcoin, sebbene quest’ultima mantenga il suo ruolo di moneta di riserva, restando la più forte nella blockchain [è una base di dati distribuita, introdotta dalla valuta Bitcoin che mantiene in modo continuo una lista crescente di risultati, i quali fanno riferimento a risultati precedenti presenti nella lista stessa ed è resistente a manomissioni].

https://coinmarketcap.com
Tuttavia bitcoin rappresenta meno della metà della capitalizzazione di mercato di tutte le monete digitali (vedi grafico).In caso di bolla, non tutte potrebbero crollare.

 https://coinmarketcap.com










C’è da augurarsi che i lavoratori pubblici dell’Ecuador continuino a resistere alle tentazioni digitali da cui era stato posseduto il bolivariano ex-presidente Rafael Correa, il quale deve aver pensato che nel “socialismo del XXI secolo” di marca chavista potevano starci anche le monete digitali, purchè di Stato (cfr.http://www.economyup.it/innovazione/2142_ecuador-primo-al-mondo-a-lanciare-la-moneta-elettronica-statale.htm).
Ufficio studi Alternativa Libertaria/fdca

Giugno 1967- giugno 2017


(atlante geopolitico Treccani)

50 anni fa si concludeva la guerra dei 6 giorni tra Israele e coalizione dei paesi arabi e cominciavano 50 anni di occupazione della Palestina.
Il lunedì, 5 giugno, Israele distrusse sul terreno l’aviazione egiziana e mise fuori combattimento i velivoli di Giordania, Iraq e Siria.
Martedì, 6 giugno, Israele annientò le truppe di terra egiziane sul Sinai.
Mercoledì 7 giugno, Israele occupò la città vecchia di Gerusalemme senza trovare alcuna resistenza da parte delle truppe giordane e tornò a pregare sul muro del pianto.
Giovedì 8 giugno, Israele si presentò sul Canale di Suez.
Venerdì 9 giugno, Israele occupò le Alture del Golan.
Sabato 10 giugno, Israele era sulle sommità prospicienti la piana di Damasco. Nella stessa serata venne dichiarato il cessate-il-fuoco.
Domenica 11 giugno, Israele si riposò.
In soli 6 giorni Israele aveva creato un nuovo Medio Oriente e si accingeva a diventare la maggiore potenza dell’area, quell’impero-per-caso che oggi ha come sudditi milioni di Palestinesi, in condizioni di apartheid.
Si mormorò all’epoca che dalla parte di Israele ci fosse la Mano di Dio.
Dovunque si posa la mano di un dio, il futuro porta sofferenze indicibili.

Economie collettive e solidali, autogestione e mutualismo























Assistiamo ad una risposta sociale del tutto inadeguata alla ampiezza e alla ingiustizia del disagio sociale in atto
La progressiva scomparsa a livello planetario di un orizzonte comune alternativo al sistema capitalistico rende più frazionata e complessa la lotta per la costruzione di una società di libere, liberi ed uguali. Ciò anche grazie alla trasformazione antropologica in atto (connessa alla globalizzazione e alle nuove tecnologie digitali che mettono in un contatto sempre più immediato realtà umane ed ambientali molto diversificate) che rende ancora più complicate sia la condivisione di azioni e percorsi condivisi che la semplice comunicazione, ormai sostanzialmente privata di codici di riferimento comuni, fatta eccezione del “pensiero unico” capitalistico che trasforma -inesorabilmente- tutto quello che tocca, in “merce” acquistabile con il denaro.
Sempre più assistiamo ad un sostanziale allontanamento della prassi delle istituzioni e di molte organizzazioni partitiche    “ufficiali” dalla difesa dei diritti e dal dare risposta ai bisogni umani primari (diritto al reddito e alle tutele: malattia, maternità, previdenza; equa redistribuzione del reddito; formazione…); organizzazioni ormai sostanzialmente asservite -complessivamente- al mantenimento del regime capitalistico.
In queste condizioni, singole persone, anche interessate e disponibili a partecipare a processi di trasformazione socioeconomica equi e di interesse generale, non trovano ad oggi molte sedi -affidabili- in cui essere ascoltate e prese in considerazione. Si diffonde così la perdita della speranza nella capacità di costruire orizzonti comuni di emancipazione e prevale la cultura dell’individualismo possessivo, che fomenta la divisione e la guerra tra poveri, aumentando paura, insicurezza e “manovrabilità”.
Il nostro contesto
Da tempo partecipiamo, seguiamo, parliamo di forme di economie collettive e solidali. In effetti queste realtà, nel loro procedere, ci offrono diversi spunti interessanti di riflessione, per come cercano di costruire possibile risposte al disagio sociale. esperienze produttive e di vita in cui protagonisti sociali, persone o organismi collettivi si confrontano, in modo partecipativo ed orizzontale, nei loro ambiti naturali (culturali, produttivi, vertenziali, territoriali) innescando processi propositivi di percorsi di cooperazione e di condivisione produttiva, distributiva e di servizio:
persone che vogliono costituire insieme realtà economiche sostenibili, sia dal punto di vista ecologico che sociale, con una ottica di radicale alternativa al capitalismo, dando vita, forza e riconoscimento a nuclei di resistenza attiva connessi in rete, capaci di dare alcune risposte ai bisogni primari, individuali e sociali; persone intenzionate a collaborare collettivamente alla conquista di una autodeterminazione territoriale che permetta a chiunque di vivere una esistenza sempre più autonoma dai dictact delle multinazionali e delle banche, e capace -nel tempo- di dare vita ad una “autodeterminazione sociale di esistenza” sempre più generalizzata,
che fondano
realtà produttive
che vivono le dinamiche che le sostanziano, autogestione, mutualismo, ecosostenibilità, il sottrarsi allo sfruttamento e al lavoro gerarchico
e che insieme a
soggetti collettivi,
disposti alla relazione circolare e alla co-progettazione verso obiettivi comuni, che partono dai bisogni primari, lavorano con successo alla trasformazione della società, alla difesa dei beni comuni, alla riconquista di forme di lavoro qualificanti, in un quadro autogestionario oltre che solidale
cercano di pensare e costruire
realtà sociali territoriali (ecoreti) che facciano partire sul territorio meccanismi progettuali e decisionali
di mutuo sostegno e di trasformazione, realtà che vivono le contraddizioni vecchie e nuove di un potere popolare che acquista coscienza di sé sulla base delle piccole rivendicazioni quotidiane finalizzate ad emanciparci dal giogo dello sfruttamento del profitto capitalistico nelle sue varie forme;
In particolare colpiscono alcuni aspetti che merita citare espressamente.
Il lavoro
In primo luogo l’idea del
lavoro che in queste realtà che sperimentano forme di economia solidale, riacquista la sua dignità, cercando di sfuggire almeno in parte all’ alienazione sia da un punto di vista economico, sottraendosi allo sfruttamento e all’estrazione di plusvalore da lavoro dipendente, sia con il recupero del lavoro come momento creativo e non eterodiretto. Così l’oggetto del prodotto del lavoro stesso tende ad allontanarsi dal concetto di “merce” acquistabile al minor prezzo possibile, ricollegandosi alla vita della persona -in carne ed ossa- che mette a disposizione tempo, attività e saperi, per rispondere al bisogno di un’altra persona; spostando quindi l’attenzione in direzione del rispetto dei diritti e dei doveri delle persone coinvolte nello scambio di beni e/o servizi; ma con l’intenzione di determinare insieme il valore dello scambio: delle cose, delle ore e del lavoro impiegato per produrle; a prezzi equi per la produzione ma anche accessibili a chi si rende disponibile a mettersi in gioco in una “relazione circolare”, impegnandosi ad un loro uso o acquisto prefissato. In questa dinamica cresce la spinta a un superamento della dimensione lavorativa individuale o familiare verso forme di condivisione di risorse e, in prospettiva, di proprietà e gestione collettiva.
L’intenzione di migliorare la propria qualità della vita
Questo nuovo tipo di unità produttive -interessate ad organizzarsi per rispondere al meglio ai propri bisogni vitali quotidiani- costituite da persone che si relazionano tra di loro per migliorare la propria qualità della vita, favorisce relazioni di scambio centrate sulla persona nella sua globalità e non come “strumento” -più o meno occasionale- da usare per raggiungere il proprio esclusivo interesse; cioè con modalità sempre più vicine alle esigenze di autodeterminazione esistenziale, propria ed altrui; “irriducibili” quindi al capitalismo, forma esclusiva -e cieca- di accumulazione del profitto fine a se stesso;
Lo sviluppo della coscienza politica
La relazione circolare tipica dell’eco-rete, centrata sul soddisfacimento dei bisogni sociali primari, individuali e collettivi e sull’integrazione tra lavoro e vita attraverso una pratica organizzativa continuativa in comunità tendenzialmente solidali e di mutuo soccorso, può diventare fattore di sviluppo di una presa di coscienza politica, nel momento in cui sia possibile verificare concretamente l’efficacia di alleanze ampie funzionali al raggiungimento di obiettivi specifici. Cioè quando si possono sperimentare -concretamente- situazioni in cui le proprie esigenze vitali possono essere soddisfatte meglio se si riescono a costruire alleanze di scopo o patti territoriali per la trasformazione sociale e ambientale dei territori.
Si viene allora ad acquisire una maggiore consapevolezza delle difficoltà reali connesse alla realizzazione di un progetto, facilitando la riconquista della fiducia nella relazione e in una progettualità assembleare e orizzontale, autogestita e solidale. Queste sperimentazioni possono assumere un ruolo prefigurativo dove far crescere forme di solidarietà sociale e di diversi rapporti di produzione e di orientamento e gestione del territorio su basi federaliste e libertarie, per riguadagnare nell’orizzonte del possibile una società più giusta e solidale.

giovedì 13 luglio 2017

Civiltà, primitivismo, anarchismo


 














Nell’ultimo decennio si è fatta strada una critica generalizzata alla civiltà da parte di alcuni autori statunitensi. Alcuni di loro hanno scelto di dichiararsi anarchici, sebbene essi si percepiscano più in generale come primitivisti. La tesi complessiva che viene avanzata sostiene che la “civiltà” in sé sia il problema prodotto dalla nostra incapacità di vivere nel rispetto della vita. La lotta per il cambiamento diviene così una lotta contro la civiltà e lotta per un pianeta Terra in cui non vi sia più posto per la tecnologia.
Si tratta di una questione interessante che stimola un certo esercizio intellettuale. Sta di fatto, però, che alcuni dei sostenitori di questa tesi hanno usato il primitivismo come una sorta di base da cui criticare tutte le altre proposte finalizzate ad un cambiamento della società. Nell’affrontare tale sfida, gli anarchici hanno bisogno di valutare innanzi tutto cosa ha da offrire il primitivismo per una realistica alternativa al mondo così come lo conosciamo.
Il nostro ragionamento parte dalla constatazione che spesso all’espressione “com’è dura questa vita”, viene risposto che comunque questa vita “è sempre meglio dell’alternativa”. Risposta che diviene una sorta di test generale per tutte le visioni critiche del mondo così come esso si presenta, non esclusa la visione anarchica. Cosa significa chiedersi se sia possibile un’alternativa migliore?
Anche se non possiamo indicare la “alternativa migliore”, non perdono certo valore intellettuale le critiche al mondo così com’è. Ma dopo i disastri del XX secolo, quando le cosiddette alternative come il leninismo non avevano fatto altro che creare dittature durature e responsabili della morte di milioni di persone, oggi la domanda “la vostra alternativa è veramente migliore rispetto all’esistente?” si impone a chiunque si ponga l’obiettivo del cambiamento.
La critica del primitivismo all’anarchismo si basa sulla tesi che sostiene esserci contraddizione tra libertà e società di massa. In altre parole, si sostiene che sia impossibile rinvenire una libera società laddove vi siano società composte da gruppi di esseri umani che vanno oltre la dimensione di un villaggio. Se fosse vera questa tesi, sarebbe impossibile la proposta anarchica di un mondo fatto di “città, paesi e campagne liberamente federati”. Va da sé, infatti, che questi centri abitati costituiscono ovviamente una forma di società e di civiltà.
Ma, fin dal suo sorgere, il movimento anarchico ha sempre dato una risposta a questa cosiddetta contraddizione. Se guardiamo al XIX secolo, troviamo i liberali difensori dello stato che utilizzavano tale contraddizione per giustificare la necessità del governo di alcuni uomini su altri. Mikhail Bakunin così rispondeva nel 1871 nel suo saggio su “La Comune di Parigi e l’idea di stato” (1).
“Si dice che nella società l’armonia e la solidarietà universale tra gli individui non sono in pratica realizzabili a causa dell’esistenza di interessi antagonisti e quindi inconciliabili. A tale obiezione si può rispondere che se tali interessi non sono mai e finora giunti ad un mutuo accordo, lo si deve allo Stato che ha sacrificato gli interessi della maggioranza a vantaggio degli interessi di una minoranza di privilegiati. Ecco perché questa famosa incompatibilità, questo conflitto tra interessi personali ed interessi della società, non è altro che un imbroglio, una menzogna politica, nata dalla menzogna teologica che ha inventato la dottrina del peccato originale al fine di disonorare l’umanità e distruggere il rispetto per se stessi…Noi siamo convinti che tutta la ricchezza dello sviluppo intellettuale, morale e materiale dell’umanità, come pure la sua apparente indipendenza, non siano che il prodotto della vita sociale. Al di fuori della società, non solo l’essere umano non sarebbe libero, ma non sarebbe nemmeno genuinamente umano, cosciente di sé, l’unico essere in grado di pensare e parlare. Solo il combinarsi di intelligenza e lavoro collettivo ha permesso all’essere umano di uscire dallo stato di brutalità selvaggia che costituiva la sua origine naturale, o quanto meno il punto iniziale del suo ulteriore sviluppo. Noi siamo profondamente convinti che l’intera vita degli esseri umani -i loro interessi, le loro tendenze, i loro bisogni, le loro illusioni, persino le loro stupidaggini- non rappresentino altro che la risultante di inevitabili forze sociali. Gli esseri umani non possono respingere l’idea della mutua indipendenza, né possono negare l’influenza reciproca e l’uniformità che mostrano le manifestazioni della natura esterna”

Quale livello di tecnologia

Si tratta di una questione a cui la maggior parte dei primitivisti si sottrae sostenendo che essi non vogliono tornare a nessun livello precedente di tecnologia perché invece vogliono andare avanti. Posizione che può essere riassunta ragionevolmente, dicendo che certe tecnologie sono accettabili nell’ambito di un contesto sociale di piccolo villaggio di cacciatori e raccoglitori. I problemi, secondo i primitivisti, cominciano con lo sviluppo dell’agricoltura della società di massa.
Ovviamente, civiltà è un termine alquanto generico, così come lo è tecnologia. Alcuni primitivisti hanno portato questo ragionamento alle sue logiche conclusioni. Uno di questi è John Zerzan, il quale identifica la radice del problema nell’evoluzione del linguaggio e del pensiero astratto. Siamo così giunti al logico punto conclusivo del rifiuto della società di massa da parte del primitivismo.
Per gli scopi che ci si pone in questo articolo, si assumerà come punto di partenza che la forma di società futura indicata dai primitivisti sarebbe grosso modo simile in termini tecnologici al tipo di società che è esistita sulla Terra circa 12.000 anni fa, poco prima della rivoluzione agricola. Con ciò non si intende dire che i primitivisti intendano “tornare indietro”, cosa del resto impossibile. Piuttosto si intende dire che se si punta a liberarsi da tutta la tecnologia della rivoluzione agricola ed oltre, si deve ipotizzare uno scenario che somiglia abbastanza alle società pre-agricole del 10.000 a.c. Dal momento che tali società sono il solo esempio di società operanti che abbiamo, ci sembra ragionevole partire da esse per comprendere e valutare le tesi primitiviste.

Una questione di numeri

I cacciatori-raccoglitori vengono chiamati così perché vivevano del cibo che riuscivano a catturare o a raccogliere. Gli animali venivano cacciati o presi in trappola, mentre frutta, noci, erbe e radici venivano semplicemente raccolte. Prima di 12.000 anni fa, ogni essere umano viveva così. Oggi solo un piccolo numero di esseri umani vive in questo modo in regioni remote ed isolate del pianeta, nei deserti, nella giungla e nella tundra artica. Alcuni di questi gruppi come gli Acre sono entrati in contatto col resto del mondo solo negli ultimi decenni (2), altri come gli Inuit (3) lo sono da lungo tempo ed hanno adottato alcune tecnologie oltre a quelle che avevano sviluppato da sé. Questi gruppi fanno ormai parte della civiltà globale ed hanno contribuito allo sviluppo di nuove tecnologie in questa civiltà.
Negli ecosistemi marginali la caccia/raccolta rappresenta spesso l’unico modo possibile per produrre cibo. Il deserto è troppo secco per svilupparvi l’agricoltura e l’artico è invece troppo freddo. L’unica alternativa è la pastorizia, poter contare su animali semi-addomesticati come fonte di cibo. Ad esempio, nella Scandinavia artica i Sami controllano i movimenti delle mandrie di renne per procurarsi una regolare fonte di cibo.
I raccoglitori/cacciatori sopravvivono quindi col cibo che riescono a cacciare e a raccogliere. Il che comporta che ci sia una densità di popolazione molto bassa, in quanto una crescita della popolazione è di fatto limitata dalla necessità di evitare un eccesso di caccia. Parimenti un raccolta copiosa di piante da cibo può anche comportare la riduzione del numero di piante disponibili in futuro. Questo è il problema centrale nella visione primitivista di un intero pianeta che viva di caccia e raccolta: e cioè che non ci sia cibo sufficiente che gli ecosistemi naturali possano produrre neanche per una frazione dell’attuale popolazione mondiale che voglia passare alla caccia/raccolta.
Dovrebbe risultare ovvio che la quantità di calorie disponibili per gli esseri umani in un acro di foresta di querce sarà alquanto inferiore alla quantità di calorie disponibile in un acro coltivato a grano. L’agricoltura consente di poter contare su una quantità utile di calorie per acro superiore a quella disponibile in un acro utilizzato per caccia e raccolta. Ecco perché ci sono voluti 12.000 anni per selezionare le piante e migliorare le tecniche agricole al fine di mettere a dimora per acro una quantità di piante la cui energia servisse a produrre parti di piante commestibili piuttosto che parti di piante non commestibili. Basta confrontare ogni vegetale coltivato col suo parente selvatico per capire: la specie da coltivazione darà raccolti più grossi e al tempo stesso più fusto e fogliame. Noi abbiamo selezionato piante che producessero un’alta percentuale di biomassa commestibile.
In altri termini un pino può avere una buona o migliore capacità di catturare l’energia solare rispetto alla lattuga. Ma nel caso della lattuga un’alta percentuale dell’energia catturata diventa cibo (circa il 75%), cosa che non avviene nel caso del pino. Si confronti la quantità di cibo rinvenibile in un vicino terreno boschivo con la quantità di cibo che si può coltivare in un orto grande solo un paio di metri quadrati e persino con una bassa incidenza organica di energia e si capirà perché l’agricoltura è indispensabile per la popolazione del pianeta.
Un acro coltivato a patate con tecniche biologiche può produrre 6.800 kg di cibo (5). Un appezzamento che misuri 65 metri in larghezza e 65 in lunghezza è poco più di un acro.
Si stima che la popolazione umana esistente sulla terra prima dell’avvento dell’agricoltura (10.000 a.c.) variava intorno a poco meno di 250.000 individui (6). Altre stime sul numero di individui dediti alla caccia-raccolta prima dell’agricoltura risultano molto più generose indicando numeri dai 6 ai 10 milioni di esseri umani (7). La popolazione attuale sulla Terra è di circa 6 miliardi di persone.
E’ l’agricoltura che fa da sostentamento a quasi tutti i 6 miliardi di abitanti della Terra. Non potremmo sopravvivere solo con la caccia-raccolta e va aggiunto che persino i 10 milioni di cacciatori raccoglitori che possono essere esistiti prima dell’agricoltura potrebbe non essere un numero sostenibile. Ne sono prova le stragi del Pleistocene (8), dal 12.000 al 10.000 a.c., quando oltre 200 specie di grandi mammiferi si estinsero. Che ciò si sia verificato per un eccesso di caccia resta una un’ipotesi controversa. Se fosse corretta, allora l’avvento dell’agricoltura (e della civiltà) può anche essere dovuta all’assenza di prede che avrebbe costretto i cacciatori-raccoglitori a diventare “sedentari” e a cercare altri modi per procurarsi il cibo.
Di sicuro è accertato storicamente che il medesimo eccesso di caccia è stato dimostrato con l’arrivo dell’uomo sulle isole della Polinesia. Un eccesso di caccia causò l’estinzione del Dodo in Mauretania e del Moa in Nuova Zelanda, per non parlare di molte altre specie meno note.

Vivere nelle paludi in inverno

Per evidenziare un altro aspetto dell’incapacità del primitivismo nel sostenere la popolazione del pianeta, userò come esempio l’Irlanda (il paese in cui vivo). Se fosse lasciata a se stessa, la campagna irlandese si presenterebbe composta da foreste di querce adulte con qualche boscaglia di nocciuoli e paludi. Provate ad entrare in una foresta di querce per vedere quanto cibo riuscite a procurarvi – se sapete il fatto vostro riuscirete a raccogliere delle ghiande, frutti o more nelle radure, dell’aglio selvatico, fragole, funghi commestibili, miele selvatico, ed a procurarvi della carne cacciando animali come il cervo, lo scoiattolo, capre selvatiche e piccioni. Ma tutto ciò significa moltissime calorie in meno rispetto a quelle che darebbe la stessa area se fosse coltivata a frumento o a patate. L’Irlanda, perciò, non riuscirebbe a nutrire i suoi attuali 5 milioni di abitanti, se fossero tutti cacciatori-raccoglitori.
La densità di popolazione dei cacciatori-raccoglitori era di 1 su 10 km quadrati. L’attuale densità di popolazione in Irlanda è di 500 individui per 10 km quadrati, e cioè 500 volte di più. Estendendo questi calcoli standard a tutto il pianeta, il numero di individui che potrebbe essere sostenibile in Irlanda sarebbe meno di 70.000, ma anche meno dal momento che solo il 20% del suolo irlandese è arabile. Le brughiere di torba o le estese carsiche del Burren possono dare ben poco cibo adatto per gli umani. In inverno ci sarebbe pochissimo da raccogliere (forse gherigli di noce nascosti dagli scoiattoli ed un po’ di miele selvatico) ed anche se quei 70.000 sopravvivessero grazie alla caccia, distruggerebbero rapidamente i grandi mammiferi come i cervi e le capre selvatiche. Le aree costiere ed i fiumi più grandi così come i laghi sarebbero l’unica fonte di caccia e di raccolta di crostacei ed alghe commestibili.
Ma pur volendo essere generosi ed assumere che l’Irlanda potrebbe sostenere 70.000 cacciatori-raccoglitori, scopriamo che dovremmo “ridurre” la popolazione a 4.930 individui; il 98,6% in meno. Infatti l’archeologia contemporanea stima intorno ai 7.000 individui la popolazione vivente in Irlanda prima dell’arrivo dell’agricoltura.
L’idea che una certa quantità di terra può sostenere una certa quantità di popolazione in base a come è (o non è) coltivata viene messa in riferimento alla sua “capacità di portata”. Ed è possibile stimarla per l’intero pianeta. Calcoli recenti sui cacciatori raccoglitori danno 100 milioni come cifra massima, ma quanto sia massima questa stima diviene chiaro quando ci si accorge che usando questi metodi di calcolo si giunge a 30 miliardi quale cifra massima (10), cioè 6 volte l’attuale popolazione mondiale!
Ma prendiamo per buona la cifra di 100 milioni massimo invece dei 10 milioni che ci dà la storiografia. Si tratta di una stima generosa, ben al di sopra di quella avanzata dai primitivisti che si sono confrontati con questo tema. Ad esempio, Ann Thropy scrive sulla rivista americana Earth First che “Ecotopia sarebbe un pianeta con circa 50 milioni di abitanti che per sopravvivere si dedicano alla caccia e alla raccolta”. (11)
La popolazione mondiale attuale è di circa 6 miliardi. Un ritorno ad una terra “primitiva” comporterebbe quindi la scomparsa di 5 miliardi e 900mila individui. Deve perciò capitare qualcosa al 98% della popolazione mondiale affinché i 100 milioni di sopravvissuti abbiano anche solo un’esilissima speranza di realizzare un’utopia primitiva.

Gioco sporco?

A questo punto alcuni autori primitivisti come John Moore gridano allo scandalo ed attaccano chi sostiene “che il livello di popolazione ipotizzato dagli anarco-primitivisti verrebbe raggiunto tramite decessi di massa o campi di sterminio in stile nazista. Sono solo tattiche viscide. L’impegno degli anarco-primitivisti nell’abolizione delle relazioni di potere, compreso lo Stato con tutto il suo apparato amministrativo e militare, ed ogni tipo di partito o di organizzazione, significa che una simile ed orchestrata carneficina non solo è impossibile ma è una cosa totalmente orrenda” (12)
Ma John Moore sembra dimenticare che queste “viscide tattiche” sono basate non solo sulle logiche esigenze di un mondo primitivista ma sono anche esplicitamente riconosciute da altri primitivisti. Abbiamo già citato la cifra di 50 milioni di cui scrive Ann Thropy. In un’altra FAQ primitivista si legge “Ci sarà una drastica riduzione della popolazione, sia che la si faccia volontariamente o no. Sarebbe meglio, per ovvie ragioni fare tutto ciò gradualmente e volontariamente, ma anche se non lo facciamo la popolazione umana è destinata comunque ad essere decimata” (13).
La Coalition Against Civilization [Coalizione Contro la Civiltà, ndt] scrive:”Dobbiamo essere realisti su cosa potrebbe accadere una volta entrati in un mondo post-civilizzato. Una cosa certa è che molte persone moriranno in seguito al collasso della civiltà. Benché sia una cosa dura da sostenere sul piano morale, non dovremmo fingere che non sarà così” (14)
Più recentemente, Derrick Jansen in un’intervista sul n°6 di The “A” Word Magazine ha dichiarato che la civiltà “ha bisogno di essere attivamente combattuta, ma io non penso che la si possa abbattere. Ciò che possiamo fare è aiutare la natura nel buttarla giù…Voglio che la civiltà crolli e voglio che accada ora”. Abbiamo già visto prima quali sono le conseguenze del “crollo” della civiltà.
Per farla breve non mancano i primitivisti pronti a riconoscere che il mondo primitivo da essi agognato prevede “morti di massa”. Non ho trovato nessuno che parla di “campi di sterminio in stile nazista”, ma forse John Moore l’ha tirato fuori per intorbidire le acque. Primitivisti come John Moore possono così rifiutare di confrontarsi con la questione delle morti di massa senza vedere le carte ed accusando quelli che indicano la necessità delle morti di massa di tirar fuori “viscide tattiche”. Tocca a lui dimostrare come nutrire 6 miliardi di persone oppure ammettere che il primitivismo non è altro che un gioco intellettuale.
Mi aspetto che chiunque si confronti con questa esigenza delle morti di massa, concluda che il “primitivismo” non offre nulla per cui valga la pena lottare. Solo pochissimi, come i sopravvissuti a confronto con la minaccia nucleare degli anni ’80, potrebbero concludere che tutto ciò è inevitabile ed iniziare a pianificare come i loro amati sopravvivranno quando altri moriranno. Ma quest’ultimo gruppo è andato di gran lunga molto al di là dell’anarchismo come io lo intendo. Per cui il prefisso “anarco” di cui fanno uso certi primitivisti è da respingere senza mezzi termini.
La maggior parte dei primitivisti rifugge dall’idea della necessità delle morti di massa. I più abbottonati dicono che il primitivismo non è un programma per gestire il mondo in modo diverso. Piuttosto esso si pone come critica della civiltà e non come un’alternativa ad essa. Il che sembra abbastanza corretto e vi è senz’altro un valore nel ri-esaminare i presupposti di base della civiltà. Ma in questo caso allora, il primitivismo non si pone come sostituto dell’anarchismo nella lotta per una liberazione che comporta l’uso della tecnologia per i nostri bisogni e non il farne a meno. Il problema è che i primitivisti amano attaccare i vari metodi di organizzazione di massa che si rendono necessari per rovesciare il capitalismo. Il che può apparire anche ragionevole se si crede di avere un’alternativa all’anarchismo, ma piuttosto dannoso se si tratta solo di un approccio critico!
Altri primitivisti si mettono a fare le Cassandre, dicendo che essi sono solo profeti di un destino ineluttabile. Non desiderano affatto che scompaiano 5 miliardi e 900mila esseri umani; si limitano solo a dire che non si potrà evitarlo. Si tratta di posizioni che vale la pena esaminare in modo più approfondito per la loro capacità demoralizzante. A cosa serve infatti lottare per una società più giusta oggi se domani o dopodomani il 98% di noi sarà morto ed ogni cosa che abbiamo costruito ridotta in polvere?

Sarà il nostro destino?

I primitivisti non sono i soli ad usare la retorica del catastrofismo per suscitare il panico ed indurre la gente ad accettare le loro proposte politiche. Ci sono riformisti come George Monbiot che usano simili argomenti “da predestinati” per cercare di disorientare la gente ed indurli a sostenere il riformismo ed il governo mondiale. Negli ultimi decenni è entrata a far parte della cultura dominante l’idea che il mondo sia in qualche modo predestinato, prima con la guerra fredda e poi con annunciati disastri ambientali. George Bush e Tony Blair hanno creato il panico con le armi di distruzione di massa per giustificare l’invasione dell’Iraq. E’ evidente la necessità di esaminare e smantellare l’ideologia del panico.
La forma più convincente di panico da “fine della civiltà” nasce dall’idea di una annunciata crisi delle risorse che renderà impossibile la vita per come la conosciamo. E qual è la risorsa privilegiata per agitare queste tesi? Ovviamente il petrolio. Tutto quello che produciamo, compreso il cibo, dipende da massicci impieghi di energia ed il 40% dell’energia mondiale che si usa nel mondo è generata dal petrolio.
La versione primitivista suona più o meno così: “tutti sanno che nel giro di X anni il petrolio si esaurirà, questo porterà alla fine della civiltà ed alla morte di moltissime persone. Per cui potremmo far nostro l’inevitabile”. L’esaurimento del petrolio viene usato dai primitivisti, così come i marxisti ortodossi usavano la “crisi economica finale che avrà come esito il rovesciamento del capitalismo”. E, al pari dei marxisti ortodossi, i primitivisti non fanno altro che ripetere che la crisi finale è dietro l’angolo.
Se vengono analizzate con cura, queste argomentazioni evaporano e ciò che resta chiaro è che né il capitalismo né la civiltà sono di fronte ad una crisi finale a causa dell’esaurimento del petrolio. Il che non vuol dire che le scorte di petrolio siano inesauribili, dal momento che pare si sia raggiunto il picco di produzione petrolifera nel 1994. In realtà, invece di fine del capitalismo e della civiltà, la limitatezza della risorsa petrolifera costituisce un’opportunità per fare profitti e ristrutturazioni. Il capitalismo, sebbene con riluttanza, si sta indirizzando a trarre profitti anche dallo sviluppo delle fonti alternative di energia, continuando ad avere accesso pieno ma sempre più dissipatorio all’estrazione di combustibile fossile. Peggiori sembrano apparire di conseguenza il riscaldamento globale del pianeta ed altre forme di inquinamento, ma non sembrano aver fermato la classe dei capitalisti di tutto il mondo.
Non sono certo stati i primitivisti ad ipotizzare la crisi del petrolio come crisi finale; ma in sintesi, mentre il petrolio costa sempre di più, col passare dei decenni ha fatto passi avanti lo sviluppo di energie sostitutive. La Danimarca, ad esempio, intende produrre il 50% dell’energia necessaria usando l’eolico entro il 2030 e le compagnie danesi che producono le turbine per l’eolico sono aziende leader nel settore e fanno notevoli profitti. La fine del petrolio sembra così essere più un’opportunità di profitti per il capitalismo che non la sua crisi finale. Ci può ben essere una crisi energetica se il costo del petrolio continua a crescere e se le tecnologie alternative non sono ancora in grado di garantire quel 40% di energia oggi erogato dal petrolio. Ulteriori aumenti del prezzo del petrolio comportano rialzi dei prezzi dell’energia, ma una crisi danneggia i poveri del mondo e non certo i ricchi, che invece ne traggono profitto a iosa. Una severa crisi energetica potrebbe innescare una crisi economica globale, ma ancora una volta in questi casi sono i lavoratori del mondo ad esserne le vittime. E’ senz’altro un valido argomento quello che sostiene che l’elite mondiale si sta già preparando ad un simile scenario, per cui molte delle recenti guerre americane acquistano senso in termini di assicurarsi scorte di petrolio per le corporations degli Stati Uniti.
Il capitalismo è perfettamente in grado di sopravvivere ad una crisi molto distruttiva. Durante la 2GM molte delle maggiori città europee furono distrutte e la maggior parte dei centri industriali dell’Europa Centrale pesantemente colpiti (dai bombardamenti, dalla guerra, dalla ritirata germanica e poi recuperati e spediti ad est dall’avanzata russa). Milioni di lavoratori europei sono morti in seguito sia durante gli anni di guerra che in quelli successivi. Ma il capitalismo non solo è sopravvissuto, è rifiorito grazie alla miseria che permetteva salari da fame e profitti in crescita.

E se?

Tuttavia vale la pena discettare su quest’idea dell’esaurimento del petrolio. Se non ci fosse davvero nessuna alternativa, cosa potrebbe accadere? Si affermerebbe l’utopia primitivista anche all’amaro prezzo di 5 miliardi e 900mila morti?
No. I primitivisti tendono a dimenticare che noi viviamo in una società di classe. La popolazione della terra è divisa tra pochi che hanno immense risorse e immenso potere ed il resto di noi. Non ci sarà nessun accesso equo alle risorse, quanto piuttosto un accesso ancora più incredibilmente iniquo. Tra coloro che cadrebbero vittime delle morti di massa non ci sarebbero Robert Murdoch, Bill Gates o George Bush, perché costoro hanno i soldi ed il potere di monopolizzare le scorte rimaste per se stessi.
Invece i primi a morire in grande quantità sarebbero i più poveri della megalopoli del pianeta. Il Cairo ed Alessandria d’Egitto hanno insieme una popolazione di circa 20 milioni di persone. L’Egitto dipende dalle importazioni di derrate alimentari e dalle coltivazioni intensive della valle del Nilo e delle oasi. Fatta eccezione per la piccola elite di ricchi, quei 20 milioni di persone non saprebbero dove andare e non ci sarebbe più terra da coltivare. Gli attuali raccolti favorevoli sono in parte dovuti ad alte immissioni di energia a basso costo.
Le morti di massa di milioni di persone non sono qualcosa che riesce a distruggere il capitalismo. Anzi in certi periodi sono state viste come un fatto naturale positivo e desiderabile per la modernizzazione del capitale. La carestia di patate del 1840 che ridusse la popolazione irlandese del 30% venne vista favorevolmente dai difensori del libero commercio (16). Lo stesso fu per la carestia che colpì il Bengala colonia britannica nel 1943-44, quando morirono 4 milioni di persone (17). Queste morti di massa, specialmente nelle colonie, sono sempre state per la classe capitalista un’opportunità per ristrutturare l’economia senza trovare alcuna resistenza.
L’esito reale di una “fine dell’energia” vedrebbe i nostri governanti stoccare ciò che rimane delle fonti energetiche per far andare gli elicotteri armati che userebbero contro quelli di noi abbastanza fortunati da essere selezionati per faticare nei campi di biocombustibile. La sfortunata maggioranza verrebbe tenuta lì dove si trova, libera di morire. Uno scenario più da Matrix che da utopia.
Un altro punto che va detto è che le distruzioni rigenerano il capitalismo. Che piaccia o no, le distruzioni su vasta scala permettono al capitalismo di fare un sacco di soldi. Si pensi alla guerra in Iraq. La distruzione delle infrastrutture irachene è un disastro per la popolazione irachena, ma è un affare da grandi profitti per la Halliburton & co. (18). Non è una coincidenza che la guerra in Iraq stia aiutando gli USA, dove del resto hanno sede le più grandi corporations, ad acquisire il controllo su parti del pianeta in cui si trova la produzione attuale e futura di petrolio.
Possiamo far fare ancora un giro al nostro giuoco intellettuale. Fingiamo che alcuni anarchici vengano magicamente trasportati dalla Terra su un altro pianeta Terra altrove. E ci si trovi lì senza alcuna tecnologia. I pochi primitivisti fra di noi potrebbero dannarsi ad inseguire i cervi, ma una buona percentuale si organizzerebbe per costruire una civiltà anarchica. Molte della abilità che abbiamo non sarebbero utili (saper programmare senza un computer è di poca utilità), ma tra di noi avremmo buone conoscenze di base dell’agricoltura, dell’ingegneria, dell’idraulica e della fisica. Al loro ritorno dopo aver vagabondato in giro, i primitivisti troverebbero che l’area in cui ci siamo insediati è diventata un paesaggio di fattorie e dighe. Avremmo almeno carri con le ruote e possibilmente animali da tiro, se ci fossero specie allo stato brado idonee all’addomesticamento. Manderemmo squadre alla ricerca di giacimenti di carbone e ferro e qualora li trovassimo faremmo delle miniere e trasporteremmo il minerale. Altrimenti bruceremmo legname per farne carbone o estrarremmo ferro e rame da ciò che si può trovare. Ci sarebbero anche una fornace ed una fonderia in quel paesaggio. Abbiamo certe conoscenze mediche, fra cui la conoscenza dei germi e dell’igiene medica, così da poter purificare l’acqua ed organizzare i sistemi di scarico delle acque reflue.
Consapevoli dell’importanza della conoscenza avremmo un sistema educativo per i nostri figli e almeno le basi di una bagaglio di conoscenze a lungo termine (libri). Troveremmo probabilmente gli elementi abbastanza comuni per fare la polvere da sparo che ci darebbe la tecnologia esplosiva necessaria per aprire miniere e fare costruzioni. Se fosse disponibile del marmo potremmo fare del calcestruzzo, che è materiale da costruzione migliore del legno o del fango.
La tecnologia non è un dono degli dei. Non proviene all’umanità da una misteriosa forza esterna. E’ invece qualcosa che abbiamo sviluppato e che continuiamo a sviluppare. Anche se si riportasse l’orologio indietro, sentiremmo subito il tic tac che lo rimanda avanti. John Zerzan sembra essere il solo primitivista ad aver compreso tutto ciò ed ha ritirato le sue posizioni che vedevano nel linguaggio e nel pensiero astratto l’origine dei problemi. Egli è nel giusto, ma anche tragicomico. La sua visione dell’utopia richiede non solo le morti di massa nella popolazione mondiale ma anche una lobotomia da ingegneria genetica per i sopravvissuti e per la loro progenie. Ovviamente non si tratta di cose che egli sostiene, ma sono il logico punto finale del suo argomentare.

Perchè prendersela tanto a cuore?

Ebbene, perché impegnarsi nella demolizione di una ideologia così fragile come il primitivismo? Una ragione è questa imbarazzante connessione con l’anarchismo che certi primitivisti rivendicano. Poi è importante denunciare che il primitivismo, per le implicazioni che comporta e per le sue tesi, vuole che i suoi seguaci rigettino il razionalismo a favore del misticismo e della unione con la natura. Non è certo il primo movimento irrazionalista ed ecologico a fare così, un buon terzo del partito nazista tedesco veniva dal culto del sangue nei boschi e dai movimenti del suolo che sorsero in Germania dopo la 1GM.
Non si tratta di un pericolo vuoto. All’interno del primitivismo si è fatta strada un’ala autoproclamatasi irrazionale, la quale se non dichiara di voler fare “campi di sterminio in stile nazista”, ha però apertamente celebrato la morte e l’omicidio di grandi numeri di persone come una sorta di primo passo.
Nel dicembre 1997, la pubblicazione statunitense Earth First scriveva che “l’epidemia di AIDS non è un flagello, ma è uno sviluppo benvenuto nell’inevitabile processo di riduzione della popolazione umana” (19). Nello stesso periodo in Gran Bretagna, Steve Booth, uno degli editori della rivista Green Anarchy, scriveva che:
“I bombaroli dell’Oklahoma avevano avuto l’idea giusta. Peccato che non fecero esplodere più gli uffici governativi. Anche così, avevano fatto quello che potevano ed ora ci sono almeno 200 automi del governo che non sono più in grado di opprimere.
Il culto sarin di Tokyo aveva avuto l’idea giusta. Peccato che nell’aver testato il gas un anno prima dell’attacco, si tradirono. Non erano un gruppo abbastanza segreto. Avevano la tecnologia per produrre il gas, ma il metodo di erogazione era inefficace. Un giorno i gruppi saranno totalmente segreti ed i loro metodi di gassificazione saranno completamente efficaci” (20).
Ecco dove si finisce quando si celebra la superiorità della spiritualità sulla razionalità, quando la speranza di “correre coi cervi” surclassa il bisogno di confrontarsi con il problema di fare la rivoluzione in un pianeta di 6 miliardi di persone. Le idee che abbiamo visto non possono che avere conclusioni reazionarie. La loro logica è elitaria e gerarchica, poco più di una versione semi-secolare di prescelti dagli dei in cerca di adepti. Certamente non hanno niente in comune con l’anarchismo.

Ci serve più e non meno tecnologia

Il che ci riporta al principio. La civiltà comporta molti problemi, ma è meglio dell’alternativa. La sfida per gli anarchici è trasformare la civiltà in una forma senza gerarchia, o bilanciata nei poteri e nella ricchezza. Non c’è una nuova sfida, è sempre stata la stessa sfida dell’anarchismo, come detto con la citazione di Bakunin all’inizio.
Per far ciò abbiamo bisogno della tecnologia moderna per pulire le acque, smaltire e riciclare i rifiuti, vaccinare e curare la gente contro le malattie delle aree densamente abitate. Se fossimo 10 milioni di persone sulla terra, uno può anche defecare nei boschi e continuare a muoversi. Ma siamo 6 miliardi e quelli che defecano nei boschi stanno defecando nelle acque che loro e quelli attorno a loro dovranno bere. Secondo l’ONU “ogni anno, più di 2,2 milioni di persone muoiono per malattie contratte attraverso l’acqua, molti di loro sono bambini”. Quasi un miliardo di persone che vivono in centri urbani non ha accesso all’igiene sanitaria. In “43 città dell’Africa…l’83% della popolazione non ha bagni collegati alla rete fognaria”. (21)
La sfida allora non è semplicemente la costruzione di una civiltà che mantenga gli attuali livelli. La sfida è migliorare gli standard di vita di ciascuno in un modo che sia ragionevolmente sostenibile. Solo un ulteriore sviluppo della tecnologia connesso ad una rivoluzione può eliminare la disuguaglianza in tutto in pianeta.
E’ una sfortuna che alcuni anarchici che vivono nelle nazioni più sviluppate, più ricche e più tecnologizzate, preferiscano gingillarsi con il primitivismo anziché impegnarsi a pensare come possiamo cambiare veramente il mondo. La trasformazione globale che si renderà necessaria renderà insignificanti tutte le rivoluzioni precedenti.
Il maggior problema non è semplicemente che il capitalismo gode nel lasciare una quantità enorme di popolazione mondiale in uno stato di povertà. Il problema è anche che lo sviluppo viene indirizzato a creare dei consumatori dei futuri prodotti piuttosto che a soddisfare i bisogni delle persone.
I trasporti ne sono un eclatante esempio. Esiste una varietà di trasporti di massa che possono spostare grandi numeri di persone da un posto ad un altro a grande velocità. Eppure nell’ultimo decennio il capitalismo si è concentrato su forme di trasporto che usano più risorse pro-capite sia in termini di mobilità che di efficienza. E’ l’automobile individuale. Lo sviluppo urbanistico è a misura dell’automobile individuale e questa è mezzo obbligatorio per spostarsi in città come Los Angeles.
Questa forma di trasporto non è una soluzione per la maggior parte della popolazione mondiale. E non solo perché la maggior parte delle persone non può permettersi un’automobile. Le risorse utilizzate nella costruzione di 3 miliardi di automobili per ogni adulto abitante sul globo semplicemente non sono disponibili. Né ci sono le risorse (petrolio) per far funzionare tutte queste automobili.
Ma prendere atto delle tecnologie esistenti e di quelle che verranno non significa affatto continuare con la produzione capitalistica o con i suoi metodi, magari sotto la bandiera rosso&nera. Così come sarà compito della futura società anarchica abolire un’organizzazione alienante della produzione basata sulla catena di montaggio, ugualmente sarà necessario cambiare radicalmente la natura dei prodotti. Restando a livello dei trasporti, per fare un facile esempio, occorrerà ridurre la produzione di auto per incrementare invece quella di biciclette, motorini, treni, autobus, camion e pulmini.
Dal momento che non sono né un esperto di trasporti, né un lavoratore dell’industria dei trasporti, mi sono limitato semplicemente ad ipotizzare quali potrebbero essere i cambiamenti nel settore. Dovremmo essere altresì consapevoli che al di fuori dell’occidente la necessità dei trasporti viene risolta in modi molto meno individualistici. Solo i ricchi possono permettersi un’auto, ma la grandissima parte della popolazione spesso si può muovere abbastanza velocemente da un posto all’altro usando non solo le corriere o i treni ma anche un diffuso sistema di taxi collettivi o di pulmini che collegano le città e sono sempre affollati.
Questa è la sfida per l’anarchismo. Non solo abbattere l’attuale ordine mondiale capitalistico, ma anche lavorare per la nascita di un nuovo mondo. Un mondo che sia almeno capace di garantire accesso uguale ai beni, ai trasporti, alla salute ed all’istruzione, cose che oggi risultano accessibili alla “classe media” nei paesi scandinavi.
Sarà questa nuova società che deciderà quali nuove tecnologie saranno necessarie e quali di quelle esistenti dovranno essere mantenute per affrontare la sfida di un mondo nuovo. E’ probabile che alcune tecnologie, se non verranno scartate, diverranno comunque obsolete. E’ difficile pensare che si possa felicemente decidere di costruire ad esempio nuove centrali nucleari. Gli alimenti OGM, una volta eliminata la possibilità di grandi profitti per le grandi corporations dell’agro-biotech, dovranno dimostrare di portare più benefici che pericoli. Finché il capitalismo esisterà, continuerà il disastro ambientale finalizzato ai suoi profitti. E risponderà efficacemente alla crisi energetica solo quando essa sarà fonte di profitti, dal momento che finché si prevedono molti anni prima che il petrolio possa essere sostituito, non ci sarà altro che un aumento della povertà e dei morti tra le popolazioni più diseredate nel mondo. Ma noi non possiamo circoscrivere questi problemi sognando una sorta di età dell’oro in cui la popolazione umana sia abbastanza contenuta da potersi dedicare alla caccia e raccolta. Possiamo invece uscire da questa situazione solo costruendo quei movimenti di massa che non solo rovesceranno il capitalismo ma che apriranno la strada alla società libertaria. E nel mentre abbiamo bisogno di trovare le modalità per fermare e persino rendere reversibili alcune delle peggiori minacce ambientali che il capitalismo ha generato.
Il primitivismo è un’illusione – esso non dice nulla su come proseguire nella lotta per una società libera. Spesso i suoi sostenitori finiscono per minare questa stessa lotta attaccando quegli aspetti imprescindibili, come l’organizzazione di massa, necessari per poter vincere. E tra i primitivisti, quelli più seri rispetto alla necessità di cambiare il mondo, è bene che rivedano per cosa stanno lottando.
Andrew Flood
11 giugno 2004
Traduzione a cura di FdCA – Ufficio Relazioni Internazionali
l’articolo originale su http://www.anarkismo.net/newswire.php?story_id=1451,
anarkismo




L’autore è un militante del Workers Solidarity Movement, organizzazione comunista anarchica dell’Irlanda
http://www.struggle.ws/wsm

NOTE:

1 http://flag.blackened.net/daver/anarchism/bakunin/paris.html
2 http://www.guardian.co.uk/Columnists/Column/0,5673,234225,00.html
3 http://www.heritage.nf.ca/aboriginal/inuit.html
4 http://www.yukoncollege.yk.ca/~agraham/nost202/norwaysami.htm
5 http://www.gardensofeden.org/04%20Crop%20Yield%20Verification.htm
6 http://biology.queensu.ca/~bio111/pdf%20files/lect9-human-demography-1.PDF
7 http://qrc.depaul.edu/lheneghan/ENV102/env102Lecture8.htm
8 http://geography.berkeley.edu
9 http://qrc.depaul.edu/lheneghan/ENV102/env102Lecture8.htm
10 http://www.google.ie/search?q=cache:SC6WTwBCazUJ:library.thinkquest.org/ C003763/index.php%3Fpage%3Dterraform03+maximum+hunter+gather+population&hl=en&ie=UTF-8
(spiacente per il lunghissimo URL ma la pagina non è direttamente accessibile)
11 “Miss Ann Thropy,” Earth First! Dic. 22, 1987, citato in http://www.processedworld.com/Issues/issue22/primitive_thought.htm
12 http://www.eco-action.org/dt/primer.html A Primitivist Primer, di John Moore
13 http///www.eco-action.org/spellbreaker/faq.html
14 The Practical Anarcho-Primitivist: attualizzare le implicazioni di una critica -Coalition Against Civilization, in internet alla pagina http://www.coalitionagainstcivilization.org/speciestraitor/pap.html
15 Numero 6 di The ‘A’ Word Magazine, testo dell’intervista anche online in http://www.infoshop.org/inews/stories.php?story=04/02/11/5876278
16 http://struggle.ws/ws95/famine45.html
17 http://www.abc.net.au/rn/science/ockham/stories/s19040.htm
18 Per una critica ragionata del collassismo secondo la prospettiva di Green Anarchist vedi http://pub47.ezboard.com/fanarchykkafrm1.showPrevMessage?topicID=372.topic
19 Earth First!, Dic. 22, 1987, citato in http://www.processedworld.com/Issues/issue22/primitive_thought.htm
20 Green Anarchist, numero 51, pag. 11, una difesa di questi rilievi pubblicata nel Numero 52. L’ autore Steve Booth era un editore di Green Anarchist (e pure tesoriere) all’epoca
21 http://www.unhabitat.org/global_water.asp

mercoledì 12 luglio 2017

La Prima Internazionale e lo sviluppo dell’anarchismo e del marxismo


marxbakunin 













Sia l’anarchismo che il marxismo si sono sviluppati nel 19° secolo dai movimenti per la democrazia, per i diritti dei lavoratori e per il socialismo. Con questo comune background, avevano non pochi punti di sovrapposizione ma anche di grande divisione. La divisione si consumò nel corso di un duro scontro tra fazioni all’interno della Prima Internazionale – ufficialmente nota come Associazione Internazionale dei Lavoratori. L’Internazionale era stata fondata nel 1864 e gli scontri tra le due fazioni iniziarono nei primi anni ’70, contemporaneamente alla Comune di Parigi (1871). Il movimento anarchico, fortemente influenzato da Mikhail Bakunin, si sviluppò in seno alla Prima Internazionale. D’altra parte, Karl Marx e Friedrich Engels stavano lavorando alla loro visione fin dagli anni ’40, ma anche il marxismo ebbe modo di espandersi sul piano teorico e pratico in seno alla Prima Internazionale.
Complessivamente, i lavori più ampiamente in circolazione sul conflitto interno all’Internazionale sono quelli scritti dal punto di vista dei marxisti. Tuttavia, negli ultimi anni sono stati pubblicati un certo numero di lavori sul conflitto nell’Internazionale dal punto di vista degli anarchici. (cfr. Berthier 2015, Eckhardt 2016, 2015 Graham- tutti eccellenti.)
Come altre lotte politiche intestine nei gruppi di sinistra, anche nell’Internazionale ci furono scontri di personalità, false rappresentazioni del punto di vista dell’altro, scorrettezze riprovevoli e manipolazioni da entrambi i lati. Ma le questioni in gioco erano del tutto reali ed importanti. Tanto che un secolo e mezzo dopo, quegli stessi problemi ancora fanno discutere. La sinistra radicale di oggi può ancora imparare da questo scontro tra i giganti della nostra storia. Personalmente, mi identifico con la tradizione anarchica, pur essendo anche influenzato dal marxismo. E trovo che questa storia sia affascinante.
Anni dopo la scissione finale nell’Internazionale, Errico Malatesta, uno dei compagni  di Bakunin, scrisse che sia gli anarchici che i marxisti “cercavano di utilizzare l’Internazionale per gli scopi dei rispettivi partiti … .Noi, come anarchici, ci si basava principalmente sulla propaganda … mentre i marxisti … volevano imporre le loro idee a colpi di maggioranza cosa che era più o meno fittizia … Ma tutti noi, i bakuninisti al pari dei marxisti, cercavamo di forzare gli eventi piuttosto che fare affidamento sulla forza degli eventi. “(citato in Graham 2015 ; 137) (Con il termine “partito”, Malatesta voleva intendeva movimenti o tendenze).
Ma quali erano le questioni in gioco? In sintesi, Bakunin ebbe a dichiarare che una volta scoppiato il conflitto, si trattava di “una grande lotta tra due principi: quello del comunismo autoritario e quello del socialismo rivoluzionario” (citato in Eckhardt 2016, 77). Ma in realtà, ci fu ben poco dibattito sulle divisioni teoriche tra  marxismo e anarchismo. Ad esempio, la questione se ci dovesse essere nel dopo-rivoluzione uno “stato operaio” di transizione (” la dittatura del proletariato”) non divenne mai un dibattito di primo piano. Né la questione se il socialismo sarebbe avvenuto tramite la proprietà statale centralizzata o attraverso organizzazioni popolari decentralizzate (dell’unica questione veramente politica ne parliamo qui sotto).

Le accuse
Invece, Marx ed i suoi accusarono Bakunin di organizzare una cospirazione segreta dietro le quinte, il cui scopo era quello di controllare l’Internazionale, se non di distruggerla dall’interno. A sua volta Bakunin replicava che Marx già dominava sul Consiglio Generale dell’Internazionale e ne manipolava le sessioni congressuali, al fine di far passare il suo programma.
Gli anarchici e Marx (e altre tendenze) concordavano sul fatto che l’Internazionale dovesse promuovere la costituzione di sindacati in tutto il mondo. Nel suo programma Marx aggiungeva che ogni sezione nazionale dell’Internazionale dovesse costituirsi in partito politico per partecipare alle elezioni. Marx forzò questa posizione tramite una risoluzione che fece approvare in una riunione affatto rappresentativa tenutasi a Londra nel 1871. Tuttavia, Bakunin e gli anarchici non insistettero sul divieto per le sezioni nazionali di costituirsi in partito. Proposero invece che ogni sezione decidesse liberamente se partecipare alle elezioni (che era il modo con cui agiva l’Internazionale fin dalla sua fondazione). Ma Marx voleva che l’organizzazione fosse più centralizzata allo scopo di chiedere la costituzione di partiti.
La giustificazione di Marx per questa strategia elettoralista non è mai stato chiara per me. Dopo la Comune di Parigi del 1871 (che fu prima del Congresso di Londra), Engels scrisse una nuova introduzione al Manifesto Comunista, con una citazione tratta dal lavoro di Marx, “Guerra civile in Francia”: Una cosa particolare è stata dimostrata dalla Comune, vale a dire, che “la classe operaia non può semplicemente impadronirsi della macchina statale già pronta e metterla in moto per i propri scopi “(Marx & Engels 1955, 6). Questa affermazione appare come un rifiuto di una strategia elettorale. Implica che la classe operaia e degli oppressi non poteva prendere in consegna lo Stato capitalista, o, se lo avesse fatto, la classe operaia non poteva usarlo per la propria liberazione. Significa che lo stato esistente deve essere rovesciato e sostituito con altre istituzioni. Eppure Marx ed Engels hanno continuato a spingere per i partiti elettorali dei lavoratori fino a sostenere anche che potevano essere eletti al potere statale in alcuni paesi, come la Gran Bretagna e gli Stati Uniti
D’altra parte, “l’obiezione di Bakunin [era] che participare alla politica avrebbe comportato per il movimento operaio legarsi allo Stato e quindi vanificare le rivendicazioni social-rivoluzionarie … La libertà si può ottenere solo rifiutandosi di partecipare alla esistenti strutture di potere, distruggendo quelle strutture di potere, e creando nuove forme di comunità “(Graham, 2015; 15).
Il marxista David Fernbach scrive: “Marx sperava di trasformare gli organismi dell’Internazionale nei vari paesi in partiti politici incentrati su Londra. Già nel 1867 … Marx aveva scritto a Engels, ‘Nella prossima rivoluzione … noi (cioè io e te) avremo questa potente macchina nelle nostre mani.’ … le restanti condizioni per trasformare l’Internazionale in un corpo più centralizzato e disciplinato sono già ad un certo grado di omogeneità ideologica …. [Ai congressi dell’Internazionale] Marx ed Engels … non rifuggivano certamente dall’usare mezzi scorretti “riprovevoli” quando le necessità politiche lo richiedevano“. (” Introduzione “, 1992, 47 e 49). (qui si preferisce citare il filo-marxista Fernbach, un’autorità sulla vita e sull’opera di Marx, piuttosto che testi pro-anarchici. Viceversa, quando si farà riferimento ai limiti di Bakunin e degli anarchici, si citeranno fonti pro-Bakunin).
Le “scorrettezze riprovevoli” di Marx si manifestarono nella convocazione di congressi a cui alcuni dei bakuninisti non potevano partecipare, nella stampa di deleghe in bianco per avere il numero legale nei congressi, nel trasmettere false informazioni sui bakuninisti, facendo nomi e ricorrendo alla calunnia. Per esempio, Marx denunciava Bakunin come un reazionario “pan-slavista”, anche se Bakunin aveva abbandonato questa posizione anni prima. Marx accusava Bakunin per le azioni malvagie condotte da un giovane psicopatico e nichilista chiamato Nechayev, molto amico di  Bakunin, “… benché si sapesse che Bakunin non era colpevole di niente di peggio di un errore di giudizio e di stupidità” (Fernbach 1992, 49). Questo caso venne usato come giustificazione per espellere dall’Internazionale Bakunin, James Guillaume e altri anarchici nel 1872. Questo portò alla scissione organizzativa nell’Internazionale.

Per quanto riguarda Bakunin, era vero che aveva avviato un’organizzazione politica internazionale, quella che lavorava all’interno e all’esterno della Prima Internazionale. È nota sotto vari nomi, a volte la “Fratellanza Internazionale”, ma soprattutto come “Alleanza Internazionale della Democrazia Socialista”. In generale, era una rete di compagni e amici di Bakunin, diffusi in tutta Europa. A volte ha avuto una consistenza di massa, in particolare nella regione del Giura della Svizzera e in Spagna. Originariamente aveva chiesto di aderire all’Internazionale, ma questo non venne permesso. La sezione svizzera invece era stata accettata come una sezione dell’Internazionale.
Pur affermando di essersi sciolta, in realtà l’Alleanza continuava la sua azione. In sé, questa non sembra essere una cosa così terribile. Perché gli anarchici (o chiunque altro) non potevano avere un’organizzazione socialista transnazionale all’interno dell’Internazionale? Marx sostenne che questa cospirazione segreta esisteva per controllare (o distruggere) l’Internazionale. In realtà i membri dell’Alleanza erano noti per aver lavorato duramente per costruire le sezioni dell’Internazionale in Svizzera, in Spagna e in Italia.
Una parte del problema sta nel fatto che Bakunin aveva fama di creare costantemente, sulla carta e nella sua immaginazione, società segrete guidate da autorità gerarchiche, con se stesso al vertice – società che dovevano agire dietro le quinte del movimento di massa. Il nostro obiettivo è la creazione di una associazione rivoluzionaria potente ma sempre invisibile che preparerà e dirigerà la rivoluzione” (Bakunin citato in Dolgoff 1980; 10) “Dobbiamo essere i piloti invisibili che guidano la rivoluzione … tramite la dittatura collettiva di tutti i nostri Alleati [membri] “(ibidem 180). Ciò è stato poi riequilibrato da dichiarazioni contrarie nelle quali non si prevedeva che questa associazione governasse i lavoratori o fosse una dittatura aperta. Tuttavia, come afferma Morris, uno scrittore pro-Bakunin, “gli scritti di Bakunin sulle società segrete sembrano spesso contraddire i suoi principi anarchici …” (1993, 150) Dolgoff, un ammiratore di Bakunin, scrive: “i compagni più vicini a  Bakunin … … consideravano i suoi schemi per elaborate e centralizzate società segrete del tutto incompatibili con i principi libertari “. (1980; 182) Ciò ci dice qualcosa sulle peculiarità di Bakunin, ma non molto sul movimento. Quasi tutti gli altri anarchici (o “federalisti” o “socialisti rivoluzionari”, come spesso si chiamavano) vedevano l’Alleanza come una libera associazione di compagni.
Se è per questo, anche Marx e Engels avevano una rete di amici e alleati che cercavano di costruire. Hanno avuto regolarmente una corrispondenza con i socialdemocratici tedeschi. Spedirono in Spagna una delle nuore di Marx per cercare di disorganizzare le sezioni anarchiche e provocarne una scissione se necessario (cosa che fallì). Marx era anche disposto ad allearsi con la corrente blanquista, altamente centralizzata e segretamente cospiratoria fino a sostenere Marx nella sua manovra di centralizzare l’Internazionale.
In teoria, Marx aveva dichiarato di essere contrario alla formazione di correnti, con i propri dogmi, all’interno del movimento operaio. Ha sostenuto che si sarebbero dissolte nel corso reale della lotta popolare. Il processo storico avrebbe prodotto la giusta direzione generale. Pertanto, si opponeva a tutte le fazioni basate su specifiche e pre-stabilite opinioni politiche all’interno dell’Internazionale.
Ma Marx credeva di conoscere il corso che la storia avrebbe preso. Era sicuro che i lavoratori avrebbero formato partiti politici e sarebbero andati alle elezioni; che ciò in qualche modo avrebbe portato i lavoratori a formare il loro Stato e poi a nazionalizzare l’economia come inizio del comunismo. Marx non considerava tutto questo come un programma da proporre agli operai, quanto come il corso più o meno inevitabile della storia che i lavoratori dovevano prendere per andare verso il potere operaio e verso il socialismo. Fu, presumibilmente, questa certa credenza in un futuro preordinato che indusse Marx ad auto-giustificare i suoi metodi autoritari e “riprovevoli”. Allo stesso modo, fu proprio questo senso di sicurezza assoluta che avrebbe portato i successivi marxisti-leninisti a compiere le loro atrocità con la dittatura, gli omicidi di massa ed il super-sfruttamento. Erano sicuri che alla fine ne sarebbe uscita una società libera e cooperativa.
Purtroppo, Bakunin aveva altri tratti autoritari “riprovevoli” che inficiavano la sua posizione. Si tratta soprattutto di suoi scritti (molti non pubblicati al momento) che denunciavano Marx quale ebreo tedesco e denunciava i tedeschi e gli ebrei in termini gravemente razzisti. Un biografo anarchico scrive: “Questo antisemitismo fu un tema vile e inquietante in alcuni suoi scritti in questo periodo” (Leier 2006; 247). Nel 1869 fu accusato da Hess di aver tentato di distruggere l’Internazionale e di essere una spia della polizia. Bakunin replicò a questa calunnia “scrivendo una lunga risposta [che] degenerò in un’invettiva antisemita ...” (Graham 2015; 125)
Bakunin scrisse di Marx che egli era aduso a “intrighi sotterranei, rancori inutili, miserabili animosità, biechi insulti e infami calunnie, tratti che inoltre caratterizzano la lotta politica di quasi tutti i tedeschi …” (citato in Berthier 2015; sottolineatura mia). Così scriveva Bakunin: “Il sig. Marx è un patriota [tedesco] non meno ardente di Bismarck … .Egli desidera l’instaurarsi di un grande Stato germanico, che glorificherà il popolo tedesco … Marx … si considera almeno come il successore di Bismarck … .Ciò che li unisce … è un vero e proprio culto dello Stato (cfr. Dolgoff 1980, 314-315). Bakunin ha sostenuto che gli Slavi e le “razze” latine erano naturalmente libertarie, mentre il popolo germanico era sempre autoritario. I sentimenti antiebraici [di] Bakunin … erano spesso un sottoprodotto del suo atteggiamento anti-tedesco … Queste osservazioni non sono conformi alle idee anarchiche per le quali Bakunin è diventato famoso” (Eckhardt 2016; 196), (nelle sue lettere , Marx talvolta ha fatto osservazioni nazionali scioviniste e razziste, ma non erano nulla rispetto alle filippiche di Bakunin, né giustificano Bakunin.)
Questo anti-germanismo non era solo di Bakunin. Il suo compagno più vicino, James Guillaume, ha scritto un libro, “Karl Marx, il pan-germanista”. Questo anti-germanismo razzista ebbe in parte un ruolo in seguito nel convincere una minoranza di anarchici influenti a sostenere gli alleati imperialisti contro i tedeschi imperialisti della Prima Guerra Mondiale – tra cui Kropotkin e Guillaume.
Il problema del potere
Nel complesso, credo che all’interno della Prima Internazionale gli anarchici avessero le migliori idee e le migliori pratiche nella lotta . La storia ha dimostrato che la strategia elettorale dei partiti marxisti ha portato ad accomodarsi col capitalismo e con lo Stato. Gli anarchici erano nel giusto nell’opporsi a questa strategia.
Marx non era in realtà un adoratore dello Stato. Concordava con gli anarchici che l’obiettivo era di mettere fine allo Stato. Ma la sua strategia era che i lavoratori utilizzassero lo Stato come strumento chiave per il potere dei lavoratori e come inizio del socialismo. Gli anarchici erano nel giusto nell’opporsi alla prospettiva marxista di conquistare il potere statale (sia per via elettorale che tramite una rivoluzione che sostituisce lo Stato capitalista con un nuovo Stato).
Questo problema è sempre risultato un po ‘confuso, a mio avviso, a causa dell’approccio anarchico alla questione del “potere”. Gli anarchici spesso dichiarano di non essere favorevoli al fatto che i lavoratori “prendano il potere”. In realtà sono generalmente a favore del fatto che i lavoratori creino consigli e assemblee federati, nei luoghi di lavoro e nei quartieri, per sostituire lo Stato e il capitalismo. Gli anarchici sono perchè il popolo lavoratore rovesci tutte le istituzioni capitalistiche e le sostituisca con una nuova società. La differenza fondamentale con i marxisti è che i marxisti volevano “prendere il potere statale”. Essi cercavano di creare un nuovo “Stato operaio”, ma lo Stato è una macchina sociale alienata, con burocrazie, militari e polizia, politici professionisti, ecc., che si erge sul resto della società  tenendo la popolazione sottomessa. Questo è ciò a cui gli anarchici sono assolutamente contrari.
Come afferma Berthier, i marxisti cercavano “la conquista del potere politico attraverso le elezioni”, mentre gli anti-autoritari intendevano “conquistare il potere sociale, creando forme nuove e radicalmente diverse … attraverso le quali potesse andare avanti la ricostruzione sociale. “(2015; 13) L’obiettivo degli anarchici era” avere il potere sociale della classe operaia per sostituire il potere politico borghese “(ibidem 80)
Gli sviluppi successivi
Al tempo della scissione nell’Internazionale, gli anarchici avevano le sezioni nazionali con più militanti. Anche le correnti che avevano lavorato con Marx, come i Blanquisti e i funzionari sindacali britannici, presero le distanze da Marx. Al di fuori dei socialisti tedeschi (che avevano giocato un piccolo ruolo nell’Internazionale) c’erano pochi marxisti. Tuttavia, nel corso del tempo i marxisti sono riusciti a diventare la maggiore componente del movimento internazionale dei lavoratori. Fino alla Prima Guerra Mondiale, gli anarchici erano ancora la corrente principale dell’estrema sinistra all’interno del movimento. Ma con la Rivoluzione Russa, quando i marxisti sembravano aver dimostrato di poter fare una rivoluzione, gli anarchici furono ridotti ad una minoranza anche all’interno dell’estrema sinistra.
Quali debolezze hanno mostrato gli anarchici tali da portare a questa relativa emarginazione? Uno dei problemi va rinvenuto nella mancanza di sviluppo teorico tra gli anarchici, che spesso hanno ceduto all’antintellettualismo. Bakunin aveva spesso espresso grande ammirazione per l’opera teorica di Marx. Anche nei suoi attacchi più marcati contro Marx, Bakunin ribadiva il suo rispetto per l’economia politica di Marx. Altri anarchici erano altrettanto impressionati dalle teorie di Marx (ma non dalla sua politica). Eppure, questo non è stata opera del movimento anarchico. C’erano preziose opere di Kropotkin e altri che discutevano di come poteva essere la società anti-autoritaria. Ma c’erano poche o nessuna analisi su come funzionava il capitalismo e come dovesse reagire il movimento dei lavoratori in condizioni diverse. “La scomparsa di un movimento di massa è andata di pari passo con un esaurimento nel livello teorico del movimento” (Berthier, 2012; 133)
Berthier cita quello che considera come un grande problema nel movimento anarchico / anti-autoritario. Egli ritiene che gli anarchici abbiano reagito in modo eccessivo contro l’impulso di Marx per la centralizzazione burocratica dell’Internazionale, finendo per opporsi a quasi tutto ciò che può apparire autoritario o aver a che fare con l’organizzazione. “Si sviluppò un’opposizione a tutte le forme di organizzazione come una reazione contro la centralizzazione e la burocratizzazione messi in atto da Marx … … La base stessa della dottrina elaborata da Proudhon e Bakunin – con il federalismo come centro di gravità – sarebbe stata abbandonata … Grandi teorici del movimento libertario … sostenevano il federalismo, ovvero un equilibrio tra … l’azione autonoma delle strutture di base e la centralizzazione” (Berthier 2015; 154-5). Anche se non è un anti-organizzatore, Graham (2015) ha un parere diverso, ma sono d’accordo con l’analisi di Berthier.
Il  rifiuto di una specifica auto-organizzazione anarchica era coerente con una prospettiva di azioni individuali o di piccoli gruppi. Invece di lavorare per costruire movimenti di massa, attraverso la propaganda e l’organizzazione sindacale, molti anarchici si sono rivolti alla  “propaganda del fatto” su piccola scala, spesso interpretata come elitarie insurrezioni o azioni individuali terroriste. Così facendo speravano di ispirare la rivoluzione, ma questo orientamento ha portato  gli anarchici all’isolamento. Altri (in particolare gli anarco-sindacalisti) hanno reagito a questo isolamento ritornando al sostegno di azioni di massa, tra cui l’organizzazione sindacale e la partecipazione agli scioperi.
Alcuni hanno continuato (o rinnovato) la tradizione dell’Alleanza di Bakunin organizzando specifiche federazioni anarchiche – in forme democratiche. Nel tempo, questo è diventato “dualismo organizzativo” (o “neo-piattaformismo” o “especifismo”): sono quegli anarchici rivoluzionari che si accordano tra loro e formano una federazione “specifica”. Allo scopo di migliorare la loro efficacia quando si è coinvolti in organizzazioni più ampie, quali sindacati o gruppi di comunità o movimenti anti-guerra.
Conclusioni
Dopo la divisione nell’Internazionale, i marxisti hanno continuato a costruire partiti socialdemocratici abbastanza grandi in Germania e in altri paesi importanti. La maggior parte di questi partiti avrebbe poi tradito il socialismo sostenendo i loro stati imperialisti nella Prima Guerra Mondiale e opponendosi alle rivoluzioni successive. Oggi hanno abbandonato ogni pretesa di sostenere una nuova società. Una parte del movimento marxista ha cercato di rilanciare il suo patrimonio rivoluzionario, sotto la guida di Lenin e Trotsky. Ma è finita con la creazione di mostruosi ed autoritari capitalismi d stato responsabili di stermini di massa, prima di collassare nel più tradizionale capitaismo. Finora, il marxismo ha completamente fallito nel suo obiettivo originario della rivoluzione della classe operaia nei paesi industrializzati.
L’anarchismo si è diffuso in tutto il mondo, creando diverse volte ed in diversi paesi grandi sindacati, eserciti popolari e federazioni anarchiche. E però anche l’anarchismo ha fallito, nel non essere riuscito a portare a rivoluzioni vitttoriose della classe lavoratrice e dei popoli oppressi.
Noi che crediamo nella libertà, dobbiamo imparare dai nostri errori e dai nostri successi se finalmente riusciremo a fare rivoluzioni, prima delle crisi finali del crollo capitalista, prima della guerra nucleare o della catastrofe ecologica globale. Dobbiamo quindi studiare la nostra storia, tornando indietro almeno alla Prima Internazionale.
Wayne Price
(traduzione a cura di Alternativa Libertaria/fdca – Ufficio Relazioni Internazionali)
Bibliografia
Berthier, Rene’ (2015). Social Democracy and Anarchism in the International Workers’ Association 1864—1877. (Trans. A.W. Zurbrug.) London: Anarres Editions.
Dolgoff, Sam (ed.) (1980). Bakunin on Anarchism. Montreal Canada: Black Rose Books.
Eckhardt, Wolfgang (2016). The First Socialist Schism; Bakunin vs. Marx in the International Working Men’s Association. (Trans. R.M. Homsi, J. Cohn, C. Lawless, N. McNab, & B. Moreel.) Oakland CA: PM Press.
Fernbach, David (ed.) (1992). Karl Marx; The First International and After; Political Writings; Vol. 3. London: Penguin Books/New Left Review.
Graham, Robert (2015). We Do Not Fear Anarchy, We Invoke It; The First International and the Origins of the Anarchist Movement. Oakland CA: AK Press.
Leier, Mark (2006). Bakunin; The Creative Passion. NY: Thomas Dunne Books.
Marx, Karl, & Engels, Friedrich (1955). The Communist Manifesto. (Ed. S. H. Beer.) Northbrook IL: AHM Publishing.
Morris, Brian (1993). Bakunin; The Philosophy of Freedom. Montreal, Quebec, Canada: Black Rose Books.
*scritto per www.Anarkismo.net

IX Congresso Nazionale della FdCA

IX Congresso Nazionale della FdCA
1-2 novembre 2014 - Cingia de' Botti (CR)