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campagna contro la contenzione meccanica

per giulio

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giovedì 25 luglio 2013

La revoca della revoca e il tradimento di un popolo - No Muos

Era il 24 novembre scorso. Avendo appreso che il neo-eletto Presidente della Regione aveva intenzione di incaricare l'Istituto Superiore di Sanità, al fine di dirimere la questione MUOS, inviammo alla stampa una comunicazione in cui mettevamo in guardia dagli aspetti subdoli e potenzialmente pericolosi di quella che ci appariva, già allora, una manovra per imboccare una via d'uscita che non danneggiasse l'immagine politica di Crocetta. Sensazione rafforzata quando, dopo un incontro a Roma con alcuni rappresentanti del Governo nazionale, la proposta dell'ISS prese corpo con l'accordo di tutte le parti.


Sapevamo che l'ambasciata statunitense era in continuo contatto con l'ISS, che Crocetta era ben pronto a derogare alle revoche da lui stesso emanate, che la commissione ISS, di parte, non annoverava tra i suoi membri gli studiosi scelti dalla Regione Siciliana, che certa stampa accondiscendente manovrasse mediante fughe di notizie tendenziose, ma stavolta davvero non ci aspettavamo che, in spregio alle conclusioni dei propri stessi consiglieri scientifici, Crocetta annullasse le revoche proprio il giorno prima del pronunciamento del CGA in merito alla prosecuzione dei lavori della stazione MUOS di Niscemi.

Non sappiamo con cosa abbia barattato la propria accondiscendenza, ma di una cosa i siciliani possono essere certi: Crocetta è quel tipo di personaggio ambiguo e pusillanime che il nostro Sciascia avrebbe saputo come definire. Chiediamo pertanto le sue dimissioni per manifesta indegnità e per aver tradito il popolo che dovrebbe rappresentare.


http://nomuos.org/resource/comunicati#24

Con i NO TAV - Di Giorgio Cremaschi

Tutta la grande informazione ha seguito con trepidazione e simpatia la mobilitazione popolare in Turchia. Quel grande movimento democratico è esploso attorno alla protesta di centinaia di giovani che volevano impedire l'abbattimento di alcuni alberi in Gezi Park, un parco di Istambul destinato ad essere cancellato per far posto a qualche grande opera.


In Valle Susa sinora sono stati abbattuti oltre 5000 alberi, molti secolari, in uno scempio di cui ho personalmente potuto rendermi conto prima che tutta quell'area venisse chiusa al mondo diventando così una zona rossa, un'altro di quei buchi neri che da Genova in poi ingoiano la nostra democrazia.

Contro quella devastazione e contro l'opera che la ispira ancora una volta si sono mobilitati i militanti del movimento Notav, cercando giustamente di provare a fermarle, come i giovani turchi di Gezi Park. Ma nella grande informazione sono apparsi subito come violenti, fiancheggiatori del terrorismo, nemici del bene comune.

Contro quella mobilitazione si sono scatenate azioni che ricordano quelle alla Diaz a Genova. A Torino è in corso un procedimento giudiziario nei confronti di decine di attivisti costruito come se gli imputati fossero mafiosi o terroristi.

Leggi e regole speciali, l'occupazione militare del territorio si applicano sempre più spesso in una Valle dove il consenso popolare alla lotta contro la Tav non è mai, mai venuto meno. Ma il rifiuto persistente e generalizzato dell'opera non provoca assolutamente una riflessione, un ripensamento nel palazzo e nella informazione di regime.

Le ragioni di mercato dell'opera non esistono oramai nemmeno negli imbrogli più sfacciati. La Francia sta liquidando la sua parte di opera inutile, i convogli delle merci, diradati e ridotti per la crisi, passano altrove. Il buco in Valle Susa è un devastante e costosissimo percorso verso il nulla, ma bisogna farlo comunque. Come con gli F 35, bisogna spendere a vuoto decine di miliardi perché così si è deciso, punto e basta.

Bisogna farlo perché il potere deve dimostrare la sua forza di fronte a chi lo contesta. Non si cede alla piazza. Non si può ammettere che i Notav abbiano ragione, sarebbe un precedente pericolosissimo che potrebbe dar luogo ad un contagio democratico tra tutte e tutti coloro che oggi non ne possono più. La democrazia è diventata un bene di esportazione, non è che dobbiamo averla anche noi qui.

E così si continuano ad abbattere alberi e diritti, a sprecare montagne di soldi perché indietro non si può tornare, tutto il palazzo ci perderebbe la faccia.

Se qualcuno vuole comprendere perché il Partito Democratico sia diventato artefice della distruzione dei valori della sinistra in questo paese e con quali affinità governi oggi con Berlusconi, vada in Valle Susa, parli con quei pericolosi terroristi che sono i NoTav e capirà tutto.

Torniamo tutti in Valle alla marcia popolare sabato prossimo. E cominciamo a far sì che quei luoghi diventino il Gezi Park del popolo italiano.


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Newsletter di del sito Rete28aprile.it

in morte di Stalin

BILANCIO E SALDO DELL'«ERA STALINIANA»


Dopo la morte di Stalin

(«L'Impulso» n. 3-4 del 15 aprile 1953)



Non avendo fatto in occasione della morte di Stalin alcuna concessione all'ipocrisia necrologica ostentata dalle prediche della politica ufficiale ed elemosinata da una opposizione che non ha il coraggio di restare sola neppure nel cordoglio, anzi avendo tristemente riflettuto sulle consuetudini d'insincerità, di finzione e di conformismo che infestano la vita politica italiana, possiamo fin da ora formulare un giudizio sullo stalinismo come fatto storico, infischiandocene di ogni accusa di irriverenza.

Verso Stalin vivo noi non nutrimmo mai sentimenti di ammirazione o di gratitudine. Non c'è ragione per mutare il nostro stato d'animo ora che è morto. Anzi la sua morte ha posto il suo sigillo sulla nostra valutazione dell'uomo e del sistema che egli rappresentava: valutazione che poteva essere sconvolta da fatti nuovi imprevedibili che solo la vita poteva riserbarci.

L'ammirazione per la sua venticinquennale dittatura può essere condivisa da coloro che detengono come lui l'arma del potere e in lui perdono un socio cointeressato alla gestione del mondo, ora in veste di alleato ora in veste di antagonista, oppure da coloro che viziati da una lunga diseducazione servile sono attratti da un fascino che misura gloria e onore e grandezza su un metro di potere tanto più degno di venerazione quanto più abilmente e ferocemente perseguito e difeso. E neppure troviamo sufficienti ragioni di plauso nei formidabili progressi tecnici che la Russia ha compiuto sotto il regime di Stalin, non tanto perché rifuggiamo da ogni interpretazione individualistica e mitologica dei fatti storici, quanto perché riteniamo Stalin non il produttore ma il prodotto di una società che nella direzione della valorizzazione e della espansione economica era sospinta da ineluttabili condizioni oggettive.

Gratitudine neppure. Come avversari del fascismo, prescindendo da ogni valutazione politica sulla seconda guerra imperialista, noi non possiamo ignorare il fatto che l'U.R.S.S. fu coinvolta nella guerra anti-nazista, suo malgrado, dopo aver inizialmente favorito i successi militari e diplomatici di Hitler e che d'altra parte un riconoscimento delle conclamate benemerenze di Stalin non potrebbe essere dissociato da un analogo riconoscimento verso i suoi amici Roosevelt e Churchill! E da molto tempo noi abbiamo condannato la banda e le sue gesta, per istruire oggi una revisione del processo.

Come militanti del movimento operaio italiano non sappiamo di qual contributo dovremmo essere grati a Stalin. Forse per il fatto che la politica staliniana bloccò e deviò, fra il 1943 e il 1947 per le sue particolari esigenze la spinta rivoluzionaria del proletariato italiano? Forse perché essa fra il 1948 e il 1953 inquadrando le lotte del proletariato italiano negli schemi della propria strategia e scoprendo il fianco della classe operaia alle insidie della propaganda nemica, disarmò le nostre masse di ogni ardimento e di ogni fede, piombandole nell'attendismo e nel gregarismo passivo? Ma di tutto ciò rendan grazie a Stalin gli imperialisti americani e la borghesia italiana che hanno allungato la loro vita di parecchi anni, mercé la proroga ottenuta tramite la mediazione staliniana; non noi. Come anarchici e come rivoluzionari potremmo tenere in debito conto il contributo dato da Stalin ai problemi della rivoluzione proletaria - contributo che risale al periodo antecedente la sua ascesa al potere, quando egli usciva da una fresca esperienza di lotta - se una pratica burocratica di governo durata venticinque anni non avesse portato con sé la paralisi teorica di larghi settori del movimento operaio mondiale e non avesse spento nel sangue ogni minima gestazione di risveglio intellettuale rivoluzionario.

Se poi la figura di Stalin è collegata al regime che per molti anni essa ha incarnato, noi ci porremo una domanda preliminare:

"Sotto la dittatura di Stalin quali passi in avanti hanno compiuto le masse lavoratrici russe non solo sul piano dello standard di vita (anche il capitalismo compie questi miracoli: anche i re del petrolio e dello zucchero portarono ondate di benessere e non possono non portarne i re della pianificazione) ma sul piano della effettiva conquista del loro potere, nel senso dell'organizzazione di una nuova società socialista senza stato?".

Non si può rispondere a questa domanda con le cifre sulla produzione annua di kilowatt o con le statistiche sulla fabbricazione di escavatori. Si risponde a questa domanda con l'esempio vivente di un popolo libero, attivo nelle sue associazioni di base, alieno da ogni infatuazione militarista e patriottica, capace di una vita politica non turbata da complotti e da epurazioni perché sana e dotata di organici elementi di autodifesa, geloso della propria indipendenza verso i nemici esterni, ma anche della propria autonomia contro ogni involuzione burocratica e centralistica delle proprie istituzioni civili, allenato alla discussione dei propri problemi, refrattario ad ogni idolatria.

Questo esempio non ci è offerto dall'Unione Sovietica: anzi, per stare a fatti recenti, la stessa successione ai massimi centri di potere dell'Unione dopo la morte di Stalin si è effettuata con la totale assenza di volontà, della partecipazione anche passionale delle masse.

Ora, poiché per noi ogni critica della democrazia è valida in quanto miri a costituire condizioni più adatte per il suo sviluppo, senza rinnegarne il fine (tutta la critica antidemocratica del socialismo è indirizzata in questo senso, verso una democrazia sostanziale), è evidente che il regime staliniano non ha costituito un passo in avanti per la realizzazione di una società socialista; anzi esso ha fatto arretrare le masse lavoratrici russe da molte posizioni avanzate che in fatto di autogoverno esse avevano raggiunto con la rivoluzione del 1917.

Dir questo non significa tuttavia concludere che il regime staliniano abbia eluso o definitivamente eliminato dal processo di sviluppo della società russa ogni istanza di progresso. Tutt'altro. Potremmo dire che l'opera di Stalin ha anzi costituito le premesse per la disfatta dello stalinismo. La formazione di un potente proletariato industriale, forse più omogeneo che in qualsiasi altra parte del mondo, l'attrazione nell'orbita della civiltà delle macchine e dei piani, dei popoli dell'Asia Centrale, finora segregati dal resto del mondo, la "consumazione" dell'esperienza del capitalismo di stato per la conservazione della società divisa in classi: ecco che cosa ci ha dato l'era staliniana testé conclusasi.

Noi salutiamo la conclusione di quest'era che per l'aggravarsi di contraddizioni che da tempo maturano nella società russa metterà inevitabilmente nuove forze sociali in movimento. Dall'intervento di queste forze le masse lavoratrici di tutto il mondo, quando in se stesse e non nei miti ripongano ferma fiducia, niente hanno da perdere.

Lo hanno capito i leaders dell'imperialismo occidentale quando non hanno potuto nascondere il loro allarme e le loro paure per la scomparsa di quel "fattore di equilibrio e di stabilità" che Stalin rappresentava. Lo spettro della rivoluzione è per essi molto più minaccioso del volto, ormai noto e possibilmente cordiale, di un uomo fatto a loro immagine e somiglianza.

G.A.A.P. - Gruppi Anarchici di Azione Proletaria





martedì 23 luglio 2013

Il fallimento non sindacabile di Napolitano - di Giorgio Cremaschi R28A

Il 23 giugno del 2011 il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, in un indirizzo all'assemblea della Confcommercio, poneva come priorità la riduzione del debito pubblico e a tal fine la rigorosa applicazione dei vincoli europei. Allora il debito era pari a circa il 120% del PIL. Dopo due anni di politiche di austerità in applicazione dei vincoli europei, attuate da governi promossi e sostenuti dal Presidente della Repubblica, il debito pubblico è al 130 del PIL, quasi 150 miliardi in più. (...)


Questo dato è accompagnato da un milione e mezzo di disoccupati in più, dal calo brutale dei redditi e dei consumi, da una crisi che non accenna minimamente a finire, contrariamente alle chiacchiere di Visco e Saccomanni. La stessa caduta dello spread e degli interessi perde effetto di fronte alla crescita complessiva del debito. Unico dato positivo la Borsa, dove la speculazione ha fatto plusvalenze del 30 %, nonostante la caduta della economia reale, creando così le premesse per una nuova bolla pronta ad esplodere.

Se Giorgio Napolitano fosse formalmente il capo del governo, un simile clamoroso fallimento rispetto ai suoi stesi propositi lo porterebbe a dover rendere conto. Ma come, imponi duri sacrifici per ridurre il debito, e poi il debito aumenta? Quale capo del governo potrebbe continuare tranquillamente di fronte ad una tale smentita delle sue scelte?

Ma Giorgio Napolitano, non è il capo del governo, è il Presidente della Repubblica che rappresenta l'unità della nazione. Le sue responsabilità non esistono, anche se tutti sappiamo che Monti e Letta hanno governato e governano in virtù del sostegno esplicito e a volte brutale del Quirinale.

Ma non è finita qui, perché tutte le istituzioni politiche italiane a loro volta fanno derivare le loro decisioni economiche dai vicoli europei.

Il 4 agosto del 2011 Draghi, allora governatore della Banca d'Italia, e Trichet, allora presidente della BCE, inviarono al governo Berlusconi una lettera che definiva quasi in dettaglio il programma delle politiche di austerità. Tremonti, Monti e Letta hanno seguito scrupolosamente quel copione. A cui si sono aggiunti gli ulteriori vincoli del FIscal Compact e del pareggio di bilancio costituzionalizzato. Tutti sostenuti con la massima forza dal presidente Napolitano.

Il parlamento e i principali partiti di governo, ma anche quelli comunque legati al carro del centrodestra e del centrosinistra, hanno solo potuto ratificare decisione già prese e imposte in altre sedi.

Così, mentre il teatrino del nulla dei partiti imperversa nel circuito mediatico, le decisioni vere sono assunte e sostenute da sedi formalmente irresponsabili. Non vorremo mica uscire dall'Europa, non vorremo mica infrangere l'unità della nazione!

Il Parlamento, unico responsabile di fronte ai cittadini, diviene in realtà privo di responsabilità, non può decidere neppure sugli F35, ha ricordato recentemente il Quirinale. E il presidente del Senato ha fermamente rimbeccato un senatore 5 stelle che va a accanato al ruolo del Capo dello Stato

La nuova legge di bilancio questo autunno sarà varata da un parlamento privo di potere, perché la Commissione Europea potrà intervenire e cambiare le poste, se queste non corrisponderanno ai vincoli del fiscal compact e di tutti gli altri patti europei per l'austerità.

Così questa politica fallimentare andrà avanti perché i suoi veri titolari, la Troika europea ed i Presidente della Repubblica, sono formalmente insindacabili.

Su questa finzione istituzionale affondano l'economia e la democrazia del nostro paese.

È bene allora che le mobilitazioni che finalmente si annunciano per l'autunno si rivolgano non solo verso il governo e i suoi impresentabili partiti, ma verso chi sopra di loro, in Italia ed in Europa, ha preso le decisioni che ci han portato a questo disastro.



ricalibrare l'anarchismo in un paese colonizzato - conversazione con anarchici palestinesi -grazie ad: Ahmad Nimer a cura di Joshua Stephens

conversazione con anarchici palestinesi :

ricalibrare l'anarchismo in un paese colonizzato

grazie ad: Ahmad Nimer

a cura di Joshua Stephens


“A dire il vero sto ancora cercando di liberarmi di quel po' di
nazionalismo che mi porto addosso" dice scherzando Ahmad Nimer, mentre
conversiamo in un bar di Ramallah. Il nostro argomento di conversazione
è di quelli inverosimili: come si fa ad essere anarchici in Palestina.
“In un paese colonizzato. è alquanto difificile portare le persone
verso soluzioni antiautoritarie ed antistataliste. Bisogna fare i conti
con una mentalità strettamente anticolonialista piuttosto diffusa ma
anche limitata dal nazionalismo", dice sconsolato Nimer. Infatti, gli
anarchici palestinesi hanno oggi un problema di visibilità. Nonostante
l'attivismo anarchico di alto profilo in Israele ed a livello
internazionale, non sembra esserci tra i molti attivisti palestinesi
una altrettanta consapevolezza dell'anarchismo.

“Il dibattito attuale
sui temi anarchici si incentra soprattutto sulla questione del potere:
rifiutare il potere-su a favore del potere-con. “Quando si parla di
anarchismo come concezione politica, lo si definisce in quanto rifiuto
verso lo Stato”, commenta Saed Abu-Hijleh, docente di geografia umana
presso l'Università An-Najah di Nablus. “Se ne parla in termini di
libertà e di una società che si organizza senza l'interferenza dello
Stato”. Ma come fa un popolo senza Stato ad abbracciare l'anarchismo,
il quale implica opposizione alla forma Stato quale condizione del suo
inverarsi?

In Palestina, spesso ci sono stati storicamente elementi di
auto-organizzazione nella lotta popolare. Anche se non esplicitamente
ascrivibili al'anarchismo in quanto tale. “Le persone già organizzano
le loro vite su basi orizzontali o non gerarchiche”, dice Beesan
Ramadan, anarchica del posto, la quale definisce l'anarchismo come una
“tattica” dubitando della necessità di darsi delle etichette. Prosegue:
“è già nella mia cultura e nel modo in cui gli attivisti palestinesi
hanno agito. Durante la Prima Intifada, ad esempio, quando veniva
demolita la casa di qualcuno, le persone si organizzavano
spontaneamente per ricostruirla. Da anarchica palestinese faccio
riferimento alle radici della Prima Intifada. Che non nacque da una
decisione formale, anzi contro la volontà dell'OLP”. Yasser Arafat
dichiarò l'indipendenza nel novembre 1988, dopo la Prima Intifada
iniziata nel dicembre 1987, e Ramadan aggiunge “per dirottare gli
sforzi della Prima Intifada.”

La questione palestinese si è
ulteriormente complicata negli ultimi decenni. Il contesto della Prima
Intifada fatta di un'ampia auto-organizzazione orizzontale venne
sostituito nel 1993 dalla creazione della verticistica Autorità
Palestinese (AP) in seguito agli Accordi di Oslo. “Ora qui in
Palestina,” osserva Ramadan, “noi non abbiamo a che fare con un
significato di autorità come quello che altrove viene contestato…Noi
abbiamo la AP e abbiamo l'occupazione e le nostre priorità non fanno
che mescolarsi sempre. La AP e gli Israeliani sono sullo stesso livello
poichè la AP è uno strumento nelle mani di Israele per opprimere i
palestinesi.” Anche Nimer la pensa così, sostenendo che si va
diffondendo sempre più la convinzione che la AP sia una sorta di
“occupazione per procura”.

“Essere anarchici non significa portare la
bandiera rossa&nera o fare il black bloc,” precisa Ramadan riferendosi
a quella nota tattica di protesta anarchica di vestirsi di nero e di
coprirsi il volto. “Io non voglio imitare nessun gruppo dell'occidente
nella loro maniera di "fare" gli anarchici....qui non funziona perchè
qui abbiamo bisogno di creare una piena consapevolezza popolare. Le
persone qui non capirebbero.” Tuttavia Ramadan ritiene che la bassa
visibilità degli anarchici palestinesi ed in modo più ampio la scarsa
consapevolezza dell'anarchismo tra i palestinesi non significhi
necessariamente che siano in pochi. “Io penso che ci sia un buon
numero di anarchici in Palestina,” ci tiene a dire pur concedendo
subito dopo che “…per la maggior parte, per ora, si tratta di
individualità [sebbene] siamo tutti attivisti ciascuno a suo modo.”


Questa mancanza di un movimento anarchico unificato in Palestina
potrebbe trovare una spiegazione nel fatto che gli anarchici
occidentali non hanno mai fatto davvero un'analisi del colonialismo.

“[Gli autori occidentali] non ne hanno scritto” sostiene Budour Hassan,
attivista e studentessa in legge. “La loro lotta lì era differente”. E
Nimer pure aggiunge: “Per gli anarchici negli USA, la decolonizzazione
potrebbe essere una parte della lotta anti-autoritaria; per me invece è
quello che deve accadere”.

Significativamente, Hassan allarga la sua
visione dell'anarchismo oltre le posizioni semplicemente contro lo
Stato o contro l'occupazione coloniale. Lei cita lo scrittore
palestinese e nazionalista arabo Ghassan Kanafani, rilevando come
questi non solo avesse sfidato l'occupazione“, …ma anche le relazioni

patriarcali e le classi borghesi... Ecco perchè io penso che noi arabi
– ed anarchici in Palestina, in Egitto, in Siria, in Bahrein – abbiamo
bisogno di riformulare l'anarchismo in un modo che rifletta la nostra
esperienza del colonialismo, la nostra esperienza di donne in una
società patriarcale e così via”.

“Non basta solo far parte di
un'opposizione politica”, avverte Ramadan, la quale aggiunge che per
molte donne, “se ci si oppone all'occupazione, bisogna anche opporsi
alla famiglia”. Infatti, la tanto enfatizzata presenza delle donne
durante le proteste, afferma Ramadan, nasconde il fatto che in realtà
molte donne devono combattere per poterci essere. Persino il
partecipare alle riunioni serali costringe le giovani donne a lottare
contro vincoli sociali che la loro controparte maschile non intende
mettere in discussione.

“Come Palestinesi, è necessario stabilire
rapporti con gli altri anarchici arabi”, dice Ramadan influenzata dalla
lettura dei materiali anarchici proenienti dall'Egitto e dalla Siria.
“Abbiamo tanto in comune e, a causa dell'isolamemto, finiamo con avere
a che fare con anarchici internazionali i quali a volte, per quanto
bravi politicamente, restano bloccati in alcune loro idee sbagliate e
nell'islamofobia”.

In un breve articolo pubblicato su Jadaliyya ed
intitolato “Luci anarchiche, liberali ed autoritarie: Note sulle
primavere arabe”, l'autore Mohammed Bamyeh sostiene che le recenti
rivolte arabe riflettano“…una rara combinazione di metodi anarchici e
di intenzioni liberali”, mettendo in rilievo che “…lo stile
rivoluzionario è anarchico, nel senso che richiede poca organizzazione,
poca leadership, o almeno coordinamento [e] che si tende a mantenersi
sospettosi verso i partiti e le gerarchie anche dopo la vittoria
rivoluzionaria”.

Per Ramadan, anche il nazionalismo costituisce un
grosso problerma. “Il popolo ha bisogno del nazionalismo in tempi di
lotta”, è pronta a concedere [ma] a volte può divenire un ostacolo…

Vuoi sapere qual è il significato negativo del nazionalismo? Che tu
pensi solo come palestinese, che i palestinesi siano gli unici a
soffrire nel mondo”. Anche Nimer aggiunge: “Si sta parlando di oltre 60
anni di occupazione e di pulizia etnica e di 60 anni di resistenza
nutrita dal nazionalismo. E' troppo, fa male. Le persone possono
passare dal nazionalismo al fascismo, abbastanza rapidamente”.

Le folle egiziane in Piazza Tahrir al Cairo lo scorso dicembre hanno dato
una speranza agli anarchici palestinesi. Mentre il presidente Mohamed
Morsi consolidava il suo potere esecutivo, legislativo e giudiziario, i
gruppi anarchici prendevano parte alle manifestazioni. Questi egiziani
si autodefiniscono anarchici e fanno riferimento all'anarchismo come
tradizione politica. Tornando a Ramallah, Nimer riflette: “Spesso sono
pessimista, ma non siate riduttivi verso i palestinesi. Potremmo
esplodere in qualsiasi momento. La Prima Intifada ebbe inizio con un
incidente d'auto”.

(traduzione a cura di FdCA-Ufficio Relazioni
Internazionali)



questo articolo è apparso inizialmente nel febbraio
2013 sulla rivista libanese The Outpost.

giovedì 18 luglio 2013

Palestina-Israele, la lotta unitaria è ad un punto di svolta

Sebbene nel corso degli anni molti compagni abbiano perso entusiasmo, sebbene alcuni siano esausti ed altri siano emigrati, la lotta prosegue - sia sul versante della lotta per la giustizia sociale che sul versante della lotta unitaria contro l'occupazione nonchè contro le pressioni all'interno di Israele per sgomberare i Palestinesi. Monta la pressione internazionale suffragata dalle lotte locali e sembra crescere di qualità di pari passo con i timori del governo israeliano. Infatti sul quotidiano israeliano Haaretz si può leggere uno degli editoriali più interessanti della fine-settimana: "...Contrariamente alle affermazioni di Bennett, fonti a Gerusalemme sostengono che la minaccia di un boicottaggio europeo verso Israele sia reale". Ancora: "... un gran numero di agenzie di investitori [del sistema bancario] hanno ritenuto di invitare le banche a negare prestiti o aiuti di qualsiasi tipo ad imprese israeliane che operano in Cisgiordania − sia nel campo della produzione e commercio che nel campo dell'edilizia e così via − e di fare altrettanto verso istituti bancari israeliani che garantiscono mutui a chi costruisce o compra casa al di là della Linea Verde. "




Dal Guardian: la UE assume una posizione più dura sugli insediamenti israeliani

una direttiva 'terremoto' vieterà agli Stati membri della UE di fare accordi con Israele a meno che ci sia una clausola che escluda gli insediamenti



Da Haaretz: l'economia israeliana al palo mentre la UE prende posizione sugli insediamenti: la sensazione che Israele non sia veramente interssato a mettere fine all'occupazione sta spingendo la UE a trasformare regole non scritte in norme ufficiali e vincolanti per i paesi membri.



la lotta de Beduini



Programma della giornata dello Sciopero dell'ira del 15 luglio in Palestina:

manifestazioni centrali:

alle 10 manifestazione a Naqab

alle 17 all'ingresso di Um Alfahem

alle 17 a Sakhnin, bivio per Mesgav



manifestazioni locali:

alle 18 a Giaffa, Piazza dell'Orologio

alle 21 a Gerusalemme, a Porta Damasco

alle 16 a Ramallah, Piazza Manarah

alle 16 a Gaza, Piazza del Milite Ignoto

alle 16.30 a Hebron, Tal Rumeide

alle 16.00 a Nablus, Piazza Shuhada

altre manifestazioni che avranno inizio alle 11.00: ingresso di Ara’ra - Baqa al-Gharbeya-Jat, zona industriale, Tira e Taybeh, Nazareth, vicino al bivio per Big Fashion, a Reineh e Mashhad, Circle. A Kufr Manda + Rumaneh + A’zeir, Tiberias-Kufr Manda bivio, Shfa’amr+ Tamra + Ei’belin, Na’ameh bivio, Jdaydeh, Maker, Kufr Yasif, Ayadeiyeh bivio. Majd Alkroum, Deir Alasad, Be’neh, ingresso di Majd Alkroum. A Tarshiha e Me’lya bivio, ad Akka, domenica 14 luglio alle 20.30 ad Haifa, Piazza Emil Habibi. A Led + Ramleh



Lo sgombero dei Palestinesi dal 75% del territorio palestinese occupato dai coloni sionisti a partire dal 1948 non si è completato. In parte lo si deve alle pressioni delle potenze imperialiste il cui supporto è decisivo per completare il progetto. Nel corso dei decenni lo Stato israeliano ha tentato in tutti i modi di costringere i Palestinesi rimasti ad andarsene. Eppure circa il 20% della popolazione di Israele è composta da palestinesi - trattati come cittadini di serie B e soggetti a pressioni per emigrare o per lo meno a cedere i terreni che ancora possiedono. Negli ultimi anni è andata aumentando la pressione israeliana sui Beduini Palestinesi per lasciare le loro zone rurali verso zone urbane più piccole.

Prosegue la lotta del villaggio di Araqeeb che è già stato demolito più di 50 volte.

ULTIMISSIME: Molte proteste sono in corso nelle città della Palestina occupata (i territori del 1948) contro il Piano Prawer che prevede la pulizia etnica e lo sgombero dei Beduini palestinesi dall'area del Negev / Naqab. Il 15 luglio sciopero generale. Foto scattata ad Haifa.



Beer Sheva, 15.7.2013



Fermi e feriti in una manifestazione contro il Piano Prawer a Beersheba

Violenze della Polizia, feriti ed arresti nel corso della manifestazione dei Beduini a Beersheba contro il Piano Prawer che passerà alla Knesset la prossima settimana, con il conseguente sgombero di migliaia di persone dalle loro case. Secondo i reports la manifestazione è partita dall'università Ben Gurion per prendere Via Yitzhak Rager in direzione degli uffici dell'amministrazione dei Beduini di Beersheba. Molti manifestanti hanno insistito per ignorare l'ordinanza della polizia di stare sui marciapiedi e quindi occupare le strade e bloccare il traffico. Ad un certo punto la polizia ha caricato ed ha fermato dei manifestanti con evidente abuso della forza. Sono stati arrestati 14 manifestanti, di cui 3 hanno meno di 17 anni. Saranno rinviati a giudizio dopo 24 ore.



Giaffa, Torre dell'Orologio



Circa 100 Israeliani della sinistra radicale - soprattutto Anarchici Contro il Muro ed altri anti-sionisti- si sono uniti ad altri circa 200 cittadini israeliani e palestinesi del quartiere per prendere parte alla giornata di lotta contro il Piano Prawer che prevede lo sgombero di 30.000 Beduini. I manifestanti portavano bandiere e striscioni scandendo slogan per quasi 2 ore ed occupando la strada verso sud. La polizia che era sopraffata dalla grande folla si è astenuta dal fare alcunchè e solo quando il corteo si è spostato sul marciapiede è riuscita a far ripartire il traffico.


Gerusalemme/Al-Quds



La scorsa notte a Gerusalemme Est: centinaia di palestinesi hanno manifestato davanti Porta Damasco, fuori della città vecchia, contro il Piano Prawer, la polizia israeliana ha arrestato 3 manifestanti, di cui 2 sono minorenni.




Bil'in



Prima manifestazione del venerdì durante il Ramadan. 8 Israeliani degli Anarchici Contro il Muro, 4 internazionali e circa due dozzine di residenti hanno manifestato tra i recinti di filo spinato che "proteggono" il muro della separazione. Quando siamo giunti al cancello del muro abbiamo potuto vedere che c'era un'ala nuova di zecca del cancello a sostituire quella che avevamo smontato la settimana scorsa e portato come trofeo nel villaggio. I giovani hanno iniziato col lancio di pietre e lentamente le forze di stato hanno replicato aumentando gradualmente il lancio di lacrimogeni. Quando il fumo è diventato insostenibile abbiamo fatto ritorno al villaggio.



Nabi Saleh



Venerdì, manifestazione di solidarietà con i Beduini israeliani (1948) contro il Piano Prawer!
Mentre la manifestazione si stava sciogliendo in tranquillità, l'esercito ha improvvisamente invaso il villaggio spruzzando acqua fetida sulle case.




Qaddum



Strana manifestazione oggi a Qaddum: più tranquilla di quelle a cui ci eravamo abituati nelle ultime settimane.

Prima della preghiera l'esercito si è appostato tra le case disabitate, poi si sono avvicinati per cercare di arrestare 2 giovani, che sono riusciti a fuggire.

Il corteo è iniziato dopo la consueta preghiera. Questa volta non c'era nessun blocco stradale ad impedirci il passaggio ed abbiamo proseguito verso il recinto. L'esercito ha fatto delle brevi incursioni per poi tornarsene sulle sue posizioni.

Lacrimogeni al risparmio e manifestazione che è passata via in modo relativamente tranquilo.



Abu Dis



09 07 2013 - Circa 35 persone dei Comitati Popolari contro il Muro in Cisgiordania per la campagna “chedi heilk ya balad " (Sorgi per te stesso popolo mio) impegnati in un'azione non-violenta per abbattere parte del muro della separazione e dell'apartheid nella città di Abu Dis, ad est di Gerusalemme occupata.

Questi attivisti sono riusciti in meno di 15 minuti ad aprire dei varchi nel muro usando grossi martelli da demolizione.

lo scandalo di Hebron



Martedì pomeriggio, sette soldati israeliani hanno arrestato un bambino di 5 anni e lo hanno bendato a Wadi’ Maswadeh, a Hebron, dopo che il bimbo aveva lanciato un sasso contro la ruota dell'auto di un colono. L'esito è stata una vasta eco mediatica con scandalo all'interno di Israele.

Tel Aviv



In circa 3000 hanno manifestato per commerorare 2 anni di lotta sociale ed un anno dall'auto-immolazione di Moshe Silman.

L'urlo generale: "contro la privatizzazione, rivoluzione" è stato udito più e più volte. Altre informazioni sulla manifestazione per commemorare Moshe Silman ed i 2 anni di protesta sociale. 13 giugno 2013. (Oren Ziv, Yotam Ronen/Activestills.org)


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lan Shalif

http://ilanisagainstwalls.blogspot.com/



Anarchici Contro Il Muro

http://www.awalls.org


Traduzione a cura di FdCA - Ufficio Relazioni Internazionali











Per non dimentiCARLO ...

PER NON DIMENTI-CARLO

Musica - immagini -testimonianze ... per ricordare

CIRCOLO ARCI MEDITERRANEO

SABATO 20 LUGLIO DALLE ORE 18:30

Prince P. - Hate the Nation

Phsycodelitrip

Adria , via Malfatti 43

riservato ai soci

Vuoi un’ala? Vuoi una ruota? Vuoi il casco del pilota? - Genova No F-35

L’Italia sta acquistando 130 aerei militari f 35. Il costo sarà di 15 miliardi di euro (senza contare i costi di manutenzione.)


· Sono aerei da bombardamento, potenzialmente capaci di trasportare ordigni nucleari. L’Italia non dovrebbe possederne alcuno, perché la Costituzione vieta la guerra di aggressione (e questi aerei non servono certamente a difendere il suolo dell’Italia); e perché ha firmato il trattato di non proliferazione nucleare.

· Il Canada ha già rinunciato ad acquistarli per la loro inaffidabilità tecnica; nessuna penale è a carico di chi decida di rinunciare all’acquisto.

· Un tenace movimento di opposizione cerca di impedire questa spesa immorale ed insensata. Il parlamento vota una blanda ed ambigua mozione che subordina ogni ulteriore acquisto ad una discussione parlamentare; ma il presidente della Repubblica Napolitano riunisce il Consiglio Supremo di difesa ed esautora il parlamento.

· I favorevoli all’acquisto, tra le altre motivazioni, accampano quella dei posti di lavoro che la costruzione degli aerei in corso a Cameri, (Novara) creerebbe. E’ facile rispondere loro che un’analoga spesa nell’istruzione, nell’arte e nel sociale creerebbe altrettanti o più posti di lavoro, in maniera eticamente più accettabile.

Abbiamo deciso di rendere “visibile” l’insensatezza di questa spesa e di solidarizzare con le iniziative in programma in questi giorni a Cameri.

Mercoledì 17 luglio consegneremo simbolicamente ad altrettanti enti ed associazioni “un pezzo” di f35: per esempio un’ala (5 milioni di euro) , la fusoliera (10 milioni di euro), il radar ( 10 milioni di euro), il casco del pilota (430 000 euro), il propulsore (30 milioni di euro); siamo certi che ne faranno buon uso.


A riceverlo, saranno lavoratori/ trici e rappresentanti degli enti interessati.

Gli orari che seguono hanno valore indicativo, e potranno subire variazioni che comunicheremo tempestivamente:

· Ore 13.30: consegna di “un pezzo di f 35” all’ospedale Gaslini (appuntamento di fronte all’ingresso principale, via Gerolamo Gaslini)

· Ore 14.30: consegna di “un pezzo di f 35” all’ospedale San Martino, all’IST ed alle facoltà scientifiche dell’università ( appuntamento di fronte al Pronto Soccorso dell’ospedale)

· Ore 15.30: un pezzo al teatro dell’Archivolto ( appuntamento di fronte all’Archivolto, piazza Gustavo Modena 3)

· Ore 16.30: un pezzo ciascuno a realtà di volontariato e di solidarietà che operano in centro storico: Centro antiviolenza di salita Mascherona, ambulatorio internazionale Città aperta, comunità di San Benedetto ed altre. Apuntamento presso l’ambulatorio di Città aperta, vico del duca 37

· Ore 17.00: un pezzo ad Emergency, ed un pezzo alla consulta per l’handicap. Appuntamento presso l’info point di Emergency, sottopasso della metropolitana piazza De Ferrari

· Ore 17.30: un pezzo al teatro Carlo Felice ed uno ai vigili del fuoco. Appuntamento di fronte al teatro Carlo Felice

La manifestazione si concluderà dalle 18 alle 19 sui gradini del palazzo ducale con la 581° Ora in silenzio per la pace”, www.orainsilenzioperlapace.org durante la quale verrànno illustrate ai passanti le motivazioni dell’iniziativa.



Coordinamento genovese NO F 35





TAKSIM E TAHRIR: DUE MONDI DIVERSI MA CON PUNTI IN COMUNE - di Pier Francesco Zarcone


Piazza Taksim



Due piazze simboliche che da più o meno tempo riempiono la cronaca dei giornali, sono simboli di due mondi diversi, ma con dei punti in comune. La Turchia e l’Egitto differiscono per cultura, mentalità, lingua, storia, regime al potere, collocazione geografica (Eurasia, da un lato, Nordafrica dall’altro), attività economiche prevalenti, aspirazioni politiche ecc. E il comune islamismo sunnita non ne fa per niente un tutt’uno. Tuttavia è individuabile un legame fra le due piazze al di là del mero dato formale della rivolta popolare e di massa contro i rispettivi regimi dominanti. In primo luogo vediamo ciò che divide.




Piazza Taksim non è piazza Tahrir





a) Piazza Taksim

Evitiamo di parlare di “primavera” turca, luogo comune ormai stucchevole e che comunque non esprime nulla di significativo. Se proprio si volesse trovare un’espressione folgorante e riassuntiva, allora di gran lunga meglio sarebbe quella usata da Deniz Gücer in un articolo pubblicato il 13 giugno dal quotidiano di Istanbul Vatan (patria): “nuova Turchia contro vecchia Turchia”. Questa dicotomia, infatti, porta subito alle radici sociali e psicologiche che hanno fatto scendere nelle strade turche una quantità impressionante di giovani disposti ad affrontare la brutale reazione della polizia. Prima di procedere, tuttavia, s’impone una precisazione: parleremo di fenomeni e questioni attinenti solo alla gioventù urbana. Il discorso, se spostato alle campagne, non vale più.





Se per comodità di esposizione ci limitiamo a ricordare che in Turchia – come in ogni sistema economico capitalistico povertà e disoccupazione non mancano affatto, e anzi sono fisiologiche – non si può negare che durante il decennio di governo di Erdoğan e del suo partito il paese economicamente e socialmente abbia compiuto notevoli passi avanti rispetto al prima. Questo dato si riflette nella gioventù che è scesa a protestare nelle strade: una gioventù con una forte percentuale di scolarizzazione, con una buona percentuale di studenti universitari e una quantità di persone che già dispongono di un lavoro. In sintesi, una gioventù senz’altro con problemi per il futuro, ma nulla a che vedere con la condizione sociale media del mondo arabo. La Turchia nell’insieme non è solo ponte fra Europa e Asia (come dice il luogo comune) ma anche (seppure lo si dimentichi sempre) periferia orientale dell’Europa, al pari della Grecia, tuttavia senza i gravi problemi economici di quest’ultima.

Il citato Deniz Gücer nello stesso articolo ha sostenuto che la gioventù della protesta “non ha preoccupazioni per quanto riguarda il suo futuro economico”. Sia lecito dissentire, almeno in parte. Un recente rapporto dell’Unpd sulla gioventù turca nella fascia di età fra i 15 e i 24 anni traccia un quadro che forse non contraddice del tutto la tesi di Gücer, tuttavia la ridimensiona. È meglio attenersi a esso. Risulta che in un paese di circa 75 milioni di abitanti almeno 23 milioni sono giovani e che il paese si trova in una fase di transizione demografica, poiché sta diminuendo il numero complessivo di abitanti, ma cresce la popolazione in età lavorativa. Nell’arco di un quindicennio ciò dovrebbe fornire ai giovani sempre migliori possibilità, a parità di situazione.

Il 30% della popolazione giovanile è fatta di studenti, e un altro 30% lavora. Meno belle sono le prospettive per il restante 40%. Esistono 3 milioni di giovani detti “invisibili”, e di essi 2 milioni e 200.000 sono donne che né lavorano né studiano; circa 650.000 sono disabili; 300.000 hanno perso la speranza di trovare un lavoro e ne hanno abbandonato la ricerca; circa 2.000 comprendono quanti sono diventati delinquenti, i ragazzi e bambini di strada fuggiti di casa o sono diventati preda del traffico di persone.

Meno avvantaggiate dei maschi sono le giovani, vuoi per condizionamento socio-famigliare, vuoi per le obiettive condizioni economiche delle famiglie: tutto questo le costringe esclusivamente al lavoro domestico. Ciò si riflette sulle percentuali scolastiche: nella scuola primaria (8 anni obbligatori) il tasso di scolarizzazione femminile è dell’87% a fronte del 92% di quello maschile; nella scuola secondaria il divario aumenta, essendo rispettivamente del 51% e del 61%; mentre quasi si azzera nella università, dove le percentuali sono rispettivamente del 17% e del 18%.

Va comunque detto che la scolarizzazione non è una garanzia assoluta di prospero futuro, giacché non esistono collegamenti fra mondo scolastico e mondo del lavoro, cosicché spesso si esce dalle scuole professionali o dai licei senza una preparazione corrispondente alla gamma di richieste di lavoro esistenti. L’insufficienza della preparazione scolastica diventa palese in ordine all’accesso alle università; ed è per questo che sono nate le derşane, i costosissimi corsi privati per la preparazione al difficile esame di ammissione all’università (nel 2007 vi hanno partecipato 1.600.000 studenti e solo un quarto l’ha superato).

Rilevazioni compiute in Turchia parlano di una gioventù sostanzialmente priva di legami con i partiti politici esistenti, ma non apolitica, giacché reclama maggiore democrazia e soprattutto maggiore libertà. Libertà di pensiero e soprattutto di stili di vita, contro il bigottismo nei costumi che il governo islamico vuole imporre a tutta la società, contro l’intento di Erdoğan di voler educare generazioni di giovani devoti, contro la repressione sulla libertà di stampa e contro il patriarcalismo ancora dominante nella società turca. Una lotta anche per il rispetto delle diversità e della dignità di quanti compiono scelte non conformi agli schemi di una certa ortodossia islamica e che pur sempre devono godere dello status di cittadini.

Le rivendicazioni salite dalle piazze e dalle strade turche, infatti, sono essenzialmente rivendicazioni politiche, contro il deficit di democrazia e gli abusi di potere. A quest’ultima categoria appartiene, per esempio, la recente legge contro il consumo di alcolici nei locali pubblici dopo una certa ora: in Turchia non esiste un problema serio di alcoolismo e l’80% della popolazione non beve affatto alcoolici. In realtà il problema è un altro: è la volontà di Erdoğan di fare quella che il prof. Cengiz Aktar, dell’Università di Istanbul Bahçeşehir ha definito “ingegneria sociale”; cioè a dire, Erdoğan vuole che la gioventù viva come dice lui, secondo i suoi parametri islamici, che obbedisca zitta e buona. È proprio vero che in Turchia il processo di democratizzazione non ha mai seguito un cammino lineare, in fatti esiste un detto turco per cui questo processo fa sempre due passi avanti e uno indietro. In definitiva in quel paese non è tanto in ballo l’esistenza del governo dell’Akp quanto e soprattutto l'incapacità di Erdoğan a comprendere la nuova Turchia, accecato com’è dalla sua visione manichea che vede ovunque complotti laicistici e non sopporta dissensi.

Questa gioventù ha dimostrato che nel corso degli ultimi anni si era formata una Turchia diversa e non prevista: infatti, chi avrebbe mai pensato che un giorno la polizia antisommossa sarebbe stata più impegnata a Istanbul, Ankara, İzmir, Trebzon, invece che nella curda Dyarbakir? Oppure che un giorno si sarebbero incontrati a manifestare e ballare nella stessa piazza elettori delusi dell’Akp di Erdoğan, signore di mezza età che hanno votato per il kemalista Chp e curdi del Bdp?

Per il momento l’economia resta solo sullo sfondo, pur con il suo rallentamento rispetto all’ottimo biennio 2010-11. Tuttavia essa dipende dall'afflusso di capitali dall'estero e deve fare i conti con la recessione nella maggior parte dei paesi dell'Unione Europea. Va però detto che il prolungarsi delle agitazioni produrrà l’effetto di scoraggiare gli investitori col rischio di incidere negativamente sulla prevista crescita del 3,5% per l’anno in corso. Nel clima politico attuale le elezioni comunali a marzo del prossimo anno, alle quali seguiranno le presidenziali, magari precedute da un referendum costituzionale, e infine le elezioni legislative dell’estate 2015 potranno dare luogo a tensioni e proteste ulteriori. E allora anche l’economia sarà in primo piano.







Piazza Tahrir



b) Piazza Tahrir

Del tutto opposta la situazione dei giovani egiziani scesi a dimostrare contro Morsi con il movimento Tamarod, i laici e i musulmani non facenti capo alla Fratellanza. Si tratta di una gioventù disperata e senza futuro per la quale – scolarizzata o no – gli unici sbocchi sono disoccupazione, precariato ed emigrazione. La dirigenza che ha preso il potere dopo la caduta di Mubarak, ha manifestato la piena continuità col regime precedente, nel senso di non fare nulla per cambiare una situazione disastrosa. Solo un esempio: in un paese che ha nel turismo una fonte di introiti importantissima, da cui anche le famiglie dei venditori ambulanti di chincaglierie traggono di che vivere, tutto questo comparto è rimasto abbandonato a se stesso per le remore moraleggianti dei musulmani ortodossi verso le contaminazioni portate dagli “infedeli”, di modo che oggi l’afflusso turistico si concentra sui villaggi-vacanze e sugli alberghi del Mar Rosso (peraltro in una penisola del Sinai sempre più pericolosa): niente più Cairo, Museo Egizio, Piramidi e crociere sul Nilo. Quanti vi lavoravano e le relative famiglie sono ora a spasso.

Inoltre, nel suo barcamenarsi opportunistico Morsi, per compiacere gli Stati Uniti (e conseguentemente Israele) nel suo anno di presidenza non ha nemmeno riaperto il valico di Rafah, che collega Egitto e Gaza, e attraverso cui un ingente traffico di merci avrebbe potuto essere movimentato, a tutto vantaggio sia della popolazione dell’isolata striscia di Gaza, sia dello stesso Egitto.

La Turchia ha, certo, i suoi problemi specifici e un tasso di corruzione tradizionalmente elevato (la parola bakshish - mancia, tangente – è ugualmente araba e turca). Tuttavia nell’insieme non può dirsi che si distacchi in modo anomalo da quanto accade anche nei paesi europei mediterranei. In Egitto, invece, la cosa assume proporzioni abnormi, radicate a tutti i livelli e questo blocca le possibilità di inserimento dignitoso e di sviluppo delle nuove generazioni. È sufficiente accostarsi alla letteratura egiziana contemporanea per avere un quadro che fa mettere le mani nei capelli.

La Fratellanza Musulmana ha creato organizzazioni meramente caritatevoli e assistenziali; tanta gente si accontenta di ciò; ma tanta gente e tanti giovani vorrebbero qualcosa di ben diverso e sono disposti, per averlo – o per mantenere la speranza di averlo – anche al ritorno in campo dei militari. Si noti che invece i manifestanti nelle strade turche non hanno chiesto un nuovo golpe militare, bensì hanno indirizzato le loro istanze al governo civile. Che quest’ultimo sia rimasto sordo, è altra questione. Comunque c’è da dubitare che un golpe contro Erdoğan produrrebbe le stesse manifestazioni di entusiasmo ed euforia che abbiamo visto a piazza Tahrir.

In Egitto, paese di circa 80 milioni di abitanti, il 40% è costituito da persone fra i 10 e i 29 anni. In un rapporto dell’Ufficio Egiziano dell’Unpd, pubblicato nel 2010, è stato messo in rilievo l’importanza di scolarizzazione e cultura ai fini del miglioramento anche materiale della condizione giovanile, in un paese in cui meno del 4% del Pil viene destinato all’istruzione e ben un terzo delle coppie sposate sotto i 30 anni è costretto a vivere nelle case dei genitori. È dall’epoca di Nasser che il sistema scolastico egiziano è andato peggiorando, oggi è tra i pessimi nello stesso mondo arabo: il tasso di analfabetismo è al 29% e il numero dei giovani che abbandonano la scuola prima del diploma è sempre crescente, raggiungendo addirittura il 65% nelle zone rurali. Rimontare questa situazione è un’impresa titanica per qualsiasi governo stabile; figuriamoci nel perdurare di una fase di turbolenza politica e incertezza per il futuro.

Molto più grave che in Turchia è in Egitto lo scollamento fra scuole e mondo del lavoro. Una delle più gravi conseguenze consiste nella necessitata dipendenza del paese dai tecnici stranieri per i programmi di sviluppo, e nella sua difficoltà a partecipare allo sviluppo scientifico, a motivo del fatto che (come sovente, e non a caso, avviene nei paesi “depressi”) una grande percentuale di studenti - il 64% - preferisce iscriversi alle facoltà umanistiche Lettere, Giurisprudenza, Pedagogia e a quella di Economia e Commercio, e solo 17,6% va a Ingegneria, Medicina, Farmacia, Fisica e Chimica. Nel 2010 è stato riscontrata una vera e propria fuga verso le facoltà umanistiche rispetto al 2000. Da qui l’abbondanza di laureati disoccupati e dal futuro più che in certo in un paese ad alto tasso di povertà.

E infine, ma non da ultimo, c’è un problema economico di massa, che in Egitto in definitiva è la vera molla della protesta giovanile. Dal punto di vista finanziario lo Stato è rimasto praticamente senza soldi e sono in stallo le trattative con il Fmi (rimedio peggiore del male, ma i soldi servono); la disoccupazione non cala, anzi; del turismo è meglio non parlare; i capitali sono in fuga, le riserve di valuta straniera si sono contratte, la lira egiziana è in caduta libera seppure aiutata dal Qatar; il popolo è alle prese con l’aumento dei prezzi dei generi di prima necessità; i black-out elettrici sono continui e la benzina scarseggia. E la povertà è arrivata a colpire il 40% della popolazione. Se mettiamo nel conto anche l’autoritarismo islamista, che non lascia indenni le vite private, non stupisce la ribellione giovanile; semmai stupisce che ci siano ancora giovani a sostenere i Fratelli Musulmani.

Dall’esterno la protesta giovanile egiziana non ha nulla da sperare. Non dall’Europa, la cui classe politica è addormentata, priva di politica estera e incapace di rendersi conto che tutto ciò che accade nel Mediterraneo, nel Vicino e Medio Oriente dovrebbe rientrare – per le sue conseguenze dirette – fra le questioni prioritarie. Non dagli Stati Uniti, imperialismo a parte. Oggi, infatti, la politica statunitense verso il mondo arabo non si capisce dove vada a parare, non ha logica e non ha prospettive. Proprio nel caso egiziano essa si è manifestata per ciò che è: tutto il contrario di quanto ci si aspetterebbe da un gigante imperialistico di quella fatta. Già all’inizio del 2011, con le agitazioni anti-Mubarak a piazza Tahrir, Hillary Clinton (ministro degli Esteri!) pontificava sulla stabilità del governo dell’epoca; l’inviato speciale di Washington al Cairo, Frank Wisner, altro acuto osservatore, faceva conto su Mubarak per condurre la transizione. Ma questo è il meno: anche la storia dell’imperialismo britannico (ben più serio) conta “cappellate” notevoli. A rendere invece priva di incidenza qualsiasi azioni statunitense è la cecità – da cui deriva poi incapacità operativa – sull’importanza di entrare in contatto dialogico con le opposizioni, virtualmente l’alternativa a qualsiasi regime.

Inoltre, nel caso egiziano gli Stati Uniti non hanno nemmeno cercato un’entente con i Fratelli Musulmani e con lo stesso Morsi, anzi “diplomaticamente” definito da Obama “né alleato né nemico”, dopo le manifestazioni svoltesi innanzi all’ambasciata statunitense del Cairo all’epoca dello scandalo suscitato dal filmaccio The Innocence of Muslims. Washington si è limitata a dare un’applicazione puramente pragmatica al rapporto scritto nel 2010 dall’attuale ambasciatore a Mosca Michael McFaul, che raccomandava di allacciare stretti rapporti con qualsivoglia regime arabo. Ma i rapporti solidi non ci sono stati, l’unico vero interesse statunitense è stato quello di curare che l’Egitto dopo Mubarak non denunciasse il trattato di pace con Israele, ma non è stata mai presa in considerazione l’instaurazione di contatti stabili con le opposizioni per il caso di alternativa concreta. Anzi, nel 2011, dopo un incontro con i contestatori di piazza Tahrir, sempre Hillary Clinton giunse alla conclusione che mai sarebbero riusciti a combinare una piattaforma politica capace di raccogliere consensi di massa e velocemente. I Fratelli Musulmani sono stati per Washington l’unico referente egiziano ma senza instaurare con esso rapporti effettivamente costruttivi. Eppure Washington dispone di quella notevole forza di pressione che si chiama “aiuti economici indispensabili” il cui uso, o almeno la cui prospettazione, avrebbe potuto spingere il governo di Morsi a comportamenti più aperti sulle libertà civili, i diritti delle minoranze e il rispetto delle donne. La conclusione attuale è che sia gli anti-Morsi sia i pro-Morsi ce l’hanno con gli Stati Uniti. Il che potrebbe anche non essere un male, se canalizzato verso prospettive di cambio sociale radicale.

Ai fini del non doversi aspettare nulla i giovani di Tahrir e luoghi consimili c’è un ulteriore questione: il dubbio forse non peregrino che l’Egitto non sia più considerato dagli Stati Uniti perno strategico del Vicino Oriente, a parte il trattato con Israele. Ma, per garantirsi questo, è ancora necessario investire come prima sul Cairo?

A seguito del tutto sommato intempestivo intervento dei militari, si è creata una situazione tale per cui ai giovani egiziani si prospettano o una guerra civile, o una dittatura militare, o una nuova vittoria elettorale dei Fratelli Musulmani, o uno stato di caos politico ed economico dalla durata indeterminabile a priori. Di prospettive di rivoluzione sociale per il momento neanche l’ombra. L’Egitto odierno paga le colpe del suo passato movimento operaio, mentre Turchia ed Egitto pagano le colpe della frantumazione nazionalistica delle principali lotte di massa oggi in corso nel mondo. Il discorso è lungo ma ormai si dovrebbe aver capito da dove dovrebbe partire.



Cosa invece unisce le due piazze

L’elemento di unione sta nel modo particolare con cui sia in Turchia sia in Egitto i governanti a loro volta concepiscono la democrazia (si fa per dire), e quindi il tipo di non-interlocutore con cui ogni protesta deve confrontarsi. Cominciamo con il paese di Erdoğan.

Se vogliamo continuare ad attribuire a questo personaggio la formazione di una nuova Turchia, che continua ad agitarsi dimostrando che il timore verso l’autorità politica si è per lo meno ridotto, allora dobbiamo chiederci cosa sia successo, cioè perché sia stata tanto violenta la reazione di questo personaggio il quale non ha nemmeno preso in considerazione la possibilità del dialogo. Eppure in passato, per aver letto in pubblico una poesia palesemente filoislamica, aveva conosciuto carcere e tortura. Il fatto che sia rimasto sorpreso dagli eventi non spiega nulla.

Al di là di ogni ideologia, la storia non è fatta solo da situazioni o interessi materiali, bensì anche dal modo di essere di quelli che una volta ne erano presentati come i protagonisti esclusivi, cioè le persone fisiche. Il vecchio detto di Pascal sulla lunghezza del naso di Cleopatra come fattore decisivo per il corso degli eventi, resta ancora valido, coniugato con tutt’altro tipo di elementi.

In buona sostanza, a Erdoğan il potere ha dato fortemente alla testa, accentuando di molto certe sue componenti caratteriali. Ormai egli è convinto di essere l’incarnazione dello Stato, che lui sa tutto e ha ragione su tutto, tanto da potersi intromettere in tutto. Una delle conseguenze è il timore suscitato all’interno stesso del suo partito, dove infatti il dibattito politico è in pratica inesistente. È un fatto inoppugnabile che fino al 2005 il governo dell’Akp abbia operato per aprire spazi pubblici e spazi politici, incrementando rispetto al prima le dinamiche della democrazia; come pure che i contestatori di oggi abbiano ampiamente beneficiato di ciò e delle inerenti riforme politiche. Oggi il paese è virtualmente più democratico rispetto al passato anche recente. Ma è altrettanto inoppugnabile che a partire dal 2007-2008 sia in atto un arretramento a motivo esclusivo del personalismo autoritario e dell’arroganza di Erdoğan, che si sente il padre-padrone della Turchia, senza però averne le capacità intellettuali e politiche necessarie, con conseguente perdita di carisma e della sua asserita superiorità morale. A fronte di ciò, dalle piazze turche non viene una rivendicazione di democrazia tout court (cioè punto e basta), come può essere invece nel caso dell’Egitto, bensì di maggiore democrazia in conformità a quanto inizialmente prospettato.

Riguardo all’Egitto si deve innanzi tutto rilevare come il concetto di democrazia assuma connotazioni particolari su tutti fronti. I liberali e i democratici egiziani invocanti l’intervento delle Forze Armate contro una determinata parte politica esprimono un atteggiamento che trova la sua spiegazione nel contesto specifico egiziano, che però fa parte di quello arabo-islamico in generale: la democrazia rappresentativa va difesa – e quindi dev’essere tutelata ab extra – per evitare che finisca con l’orientarsi verso svolte confessionali autoritarie munite di appoggio di massa.

Se nel mondo occidentale, bene o male, Chiese e Confessioni religiose sono state costrette (vuoi dalla politica, vuoi dall’evoluzione delle mentalità e dei costumi) ad accettare di fatto la separazione tra sfera civile e sfera religiosa – salvi i tentativi di sconfinamento sempre possibili – nel mondo arabo-islamico ciò è stato accettato solo dalle minoranze religiose, laiche e di sinistra. Le masse rurali e delle periferie urbane invece sono ben lungi dall’aver metabolizzato questo assetto. La sintetica conclusione è che competizioni elettorali libere e non inquinate danno e daranno la maggioranza parlamentare ai partiti islamici nel 90% dei casi. Come ha giustamente concluso Frank Gardner della Bbc verso i regimi arabi: “se fate le elezioni, preparatevi ad avere un governo islamista”. Non sarà bello a dirsi, ma è così.

Da qui la spiegazione del “mistero” per cui fior di liberali e democratici chiedono l’intervento militare e lo applaudono: conoscono benissimo il carattere tendenzialmente totalitario dei loro competitori, per i quali la democrazia rappresentativa e le elezioni sono solo degli strumenti. A ben guardare, le masse egiziane pro-Morsi non sono indignate tanto per il rovesciamento di un Presidente regolarmente eletto, quanto e soprattutto per il sacrilegio commesso nell’abbattere un Presidente islamista. Per esse non si tratta di violazione della legalità repubblicana, bensì di opposizione all’Islam, da parte di presunti musulmani: cioè apostati punibili con la morte.

A questo punto si pone il generale problema politico attinente alla praticabilità nei paesi musulmani di una via democratica rappresentativa che non si esaurisca nelle competizioni elettorali. Essendo sempre presente sullo sfondo la “vandea islamista”, è ragionevole pensare che essa non sarà praticabile fino a quando all’interno delle società in questione non si realizzino un’acculturazione di massa e l’eliminazione delle cause materiali che finora hanno reso possibile il recupero di tante persone alla convivenza sociale, culturale e politica pluralista. Se e quando mai ciò si realizzerà.

Morsi e i dirigenti della Fratellanza Musulmana magari stanno meglio di testa rispetto a Erdoğan, ma con lui condividono una concezione del potere democratico coincidente con quello della destra europea. Ricordiamo il “non si fanno prigionieri” di Previti subito dopo la vittoria elettorale di Forza Italia. Sia per Erdoğan sia per Morsi la vittoria alle elezioni chiude giochi e discorsi per tutta la durata della legislatura: il vincitore fa quello che vuole e l’opposizione è meglio che stia zitta, poiché altrimenti è come se contestasse e disprezzasse il risultato elettorale diventando essa antidemocratica (!). Di dialogo e mediazioni nemmeno a parlarne. Da qui alcune ovvie conseguenze, fra le quali la pretesa di attribuire al governo e ai suoi organismi dipendenti un potere di indirizzo e comando non sancito da alcuna norma; la tendenza a ignorare ogni separazione fra i poteri dello Stato; lo sforzo di sottoporre i mezzi di comunicazione e informazione a controlli e pressioni di ogni genere. Anche su questo versante un modo opportunistico di concepire la democrazia rappresentativa e lo Stato di diritto.

Ma vi è anche un altro elemento di omogeneità. Pur nella diversità di contesti, Erdoğan e Morsi si sentono investiti dal sacro compito di riequilibrare con una controsterzata i “danni” fatti dalla laicità nei propri paesi. Per noi occidentali, minimi in Egitto, fermo però restando che per un musulmano ortodosso già una donna con la testa scoperta e magari truccata grida vendetta davanti ad Allah; enormi in Turchia, dopo quello che può essere considerato il tritacarne di Atatürk.

Ulteriore elemento in comune è la situazione delle società dei due paesi: società spaccate in due da contrapposizioni insanabili. Un equilibrio può essere dato dalla coesistenza indotta dalla sostanziale equivalenza delle forze e dal fatto che una delle parti non voglia imporsi sull’altra; altrimenti lo scontro diventa inevitabile perché fisiologico e i richiami esterni alla pacificazione devono per forza restare lettera morta.





(9 luglio 2013)



Nella diffusione e/o ripubblicazione di questo articolo si prega di citare la fonte: www.utopiarossa.blogspot.com



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Postato da E.V. su RED UTOPIA ROJA il 7/09/2013 10:17:00 PM







Granarolo: raggiunto un accordo. Lotta contro sfruttamento e razzismo istituzionale prosegue

Dopo settimane di lotte, è stato da pochi minuti raggiunto un accordo che risolve le questioni più urgenti per i 41 lavoratori migranti licenziati dai magazzini di Granarolo. Il rispetto di questo accordo e la sua efficacia andranno verificate nelle prossime settimane. Dai primi dettagli che emergono, tuttavia, appare chiaro come con la loro determinazione i lavoratori coinvolti sono riusciti a ottenere condizioni che riconoscono l'arbitrarietà dei provvedimenti disciplinari presi nei loro confronti, il loro diritto a ricevere il salario perduto e a trovare una nuova occupazione.


Con il protrarsi della situazione d'incertezza, i lavoratori insieme al Coordinamento Migranti avevano deciso di prendere una iniziativa politica di fronte al concreto rischio che, oltre al salario, andasse perso anche il permesso di soggiorno. A causa del legame tra permesso di soggiorno e contratto di lavoro, della legge Bossi-Fini e della discrezionalità amministrativa degli uffici competenti la perdita del lavoro o del salario diventano infatti per i lavoratori migranti un rischio ancora più grande. E' su questo ricatto che fanno leva i datori di lavoro, siano essi cooperative o meno, per costringere i lavoratori migranti ad accettare carichi di lavoro e condizioni contrattuali e salariali peggiori. La lotta dei migranti della Granarolo, insieme a quelle che coinvolgono molte altre cooperative del settore della logistica, fa paura perché rompe questo ricatto. Per i lavoratori migranti lottare contro lo sfruttamento vuol dire anche lottare contro questo ricatto.

I migranti della Granarolo, sostenuti dal sindacato SiCobas, hanno mostrato in queste settimane di rifiutare il ricatto anche dopo aver subito per rappresaglia il licenziamento, rifiutando soluzioni inaccettabili che facevano leva sul doppio ricatto del salario e del permesso di soggiorno, fino al raggiungimento dell'accordo di oggi.

Il Coordinamento Migranti continuerà a monitorare la situazione ed è pronto ad intraprendere nuove iniziative nel caso la situazione di questi lavoratori sia di nuovo messa in discussione. L'iniziativa s'inserisce nel quadro più allargato di lotta contro lo sfruttamento e il razzismo istituzionale passata per la manifestazione del 23 a Bologna e il sostegno delle lotte della logistica, che porterà il 28 settembre prossimo ad una grande manifestazione a Brescia contro la legge Bossi-Fini.



Per maggiori dettagli:


Bass 329 71 06 386

Mohammed (delegato Granarolo) 388 83 80 033

http://coordinamentomigranti.org/













mercoledì 10 luglio 2013

NOMUOS E NOTAV IN REGIONE - FVG

Da INfo-action.net

 Questa settimana due importanti appuntamenti di confronto e scambio con due esperienze di lotte popolari molto lontane da noi ma allo stesso tempo vicine nella volontà di opporsi alla devastazione ambientale e alla sopraffazione statale e militarista.



Venerdì 12 Luglio a Udine  
Ore 20.00 
Piazza Libertà 



Sabato 13 Luglio a Trieste 
Ore 20.30
                                                                      Piazza Hortis

Il “nuovo corso” del Vaticano - di Lucio Garofalo

Le cronache vaticane dimostrano che non era affatto assurdo pensare che le dimissioni di Ratzinger fossero riconducibili alle lotte intestine tra le opposte cordate (in primis l’Opus Dei) che dilaniano la curia romana sulla questione dello IOR, la banca vaticana.
Apparentemente questa sembra una piccola filiale di provincia, eppure il flusso di capitali che passano attraverso tale banca è immenso, si parla di movimenti finanziari dell’ordine di centinaia di miliardi di dollari. E’ tramite questo istituto che si compiono le operazioni più spericolate delle industrie belliche, i riciclaggi di fondi neri provenienti da ogni angolo del mondo, il traffico dei farmaci ecc. Il vantaggio offerto da questa minuscola banca consiste nel fatto che finora è stata totalmente inaccessibile e segreta, non avendo su di sé alcun organo di controllo internazionale, non essendo quotata in borsa ed avendo partnership solo con alcune banche svizzere ed alcuni paradisi fiscali.
Papa Ratzinger voleva porre fine a tutto ciò nominando una commissione anti-riciclaggio con a capo il cardinale Nicora e Gotti Tedeschi a capo della banca. Fatto sta che sia Gotti Tedeschi che il cardinale ottennero una normativa anti-riciclaggio (mai applicata) e si misero in contatto con analoghi istituti anti-riciclaggio italiani ed esteri. Inoltre, essi mostrarono una chiara disponibilità a collaborare con la magistratura. Furono fatti fuori dal cardinale Bertone e da quelli che stanno dietro di lui, prelati e speculatori finanziari.
Per Joseph Ratzinger, ricattato mediante i documenti trafugati dal suo maggiordomo, sfidare tutto ciò poteva significare una dose di veleno nella tazza di tè. Un pericolo che non è ancora definitivamente fugato, ma che oggi può correre seriamente il nuovo papa.
Non a caso il ruolo del nuovo pontificato si è subito manifestato ed è probabilmente quello di liquidare il capitalismo, per promuovere la cosiddetta “terza via”, ovvero l’alternativa (si fa per dire) rappresentata da Santa Romana Chiesa. Così come il pontificato di Wojtyla (dietro cui agiva, nemmeno tanto nell’ombra, in veste di consigliere, l’allora cardinale Ratzinger) ebbe il mandato di liquidare il socialismo reale dell’Est europeo. Naturalmente è una mia impressione, ma nemmeno tanto vaga. Si intravedono già numerosi indizi in tal senso. Sta di fatto che nell’odierna fase storica, percorsa da una crisi epocale che non è solo di natura economica, la chiesa è costretta a riavvicinarsi ai popoli diseredati della terra. Né dobbiamo dimenticare che nel campo delle strategie camaleontiche la chiesa è da sempre una vera specialista, una campionessa mondiale, per cui non conviene assolutamente sminuire le sue ambizioni.
Ambizioni che non riguardano il breve o medio termine, ma si proiettano nel lungo periodo, per cui non vanno sottovalutate. In questo momento storico, segnato da una crisi irreversibile che investe il capitalismo su scala globale, la chiesa, con tutti i suoi gangli e le sue ramificazioni nel mondo, ha intercettato gli umori e le sofferenze dei popoli ed è costretta, per sopravvivere alla crisi ed al crollo finale del capitalismo, a mostrarsi con uno spirito evangelico, ad apparire una chiesa pauperistica e francescana.
E’ appunto questa la strategia camaleontica che la chiesa sa di dover adottare in questa fase storica, come ha fatto in duemila anni. Altrimenti si sarebbe già estinta da tempo.
Si sa che lo stato della chiesa non è troppo in salute e che riflette la crisi complessiva in cui versa la società capitalista. Nondimeno, la chiesa ha conosciuto ben altre tempeste.
In questo momento storico la chiesa sa che deve aderire, almeno sul piano verbale e formale, alle istanze ed alle rivendicazioni provenienti dai popoli della terra. Deve schierarsi con i poveri, quantomeno a chiacchiere, predicando bene. E si sa che sul terreno delle prediche i preti giocano in casa e la storia insegna che sono maestri e campioni insuperabili. Nel contempo, essi non sono così ottusi e miopi come i capitalisti.
L’attuale corso politico di Santa Romana Chiesa sembra orientato verso una sorta di “pauperismo” in salsa vaticana. Per convenienza, la chiesa si sta avvicinando alle masse umili e diseredate del pianeta. Non è un caso che la chiesa sopravviva da duemila anni, mentre il capitalismo conta appena pochi secoli di vita ed è in crisi da almeno cent’anni.
Lucio Garofalo

Egitto: nè con la peste clerico-fascista, nè con l'ira dei militari!


Per più di 2 anni, in Egitto la contro-rivoluzione ha assunto il  potere nella forma duale dello Stato e della borghesia. Da un lato, i Fratelli Musulmani, che rappresentano la ruota di scorta della borghesia mercantile e degli stati occidentali per prevenire un'eventuale rivoluzione sociale, si erano presi la gestione degli affari sociali. Dall'altro, l'esercito, che rapppresenta la spina dorsale dello Stato egiziano, ha mantenuto le sue posizioni chiave nell'economia egiziana, attraverso i monopoli, ma anche all'interno della struttura politica.

Questa alleanza oggettiva era stata costruita a spese della classe lavoratrice egiziana e delle classi popolari, ma anche a spese delle donne, delle minoranze religiose, come pure a spese di tutti coloro che desideravano la libertà e l'uguaglianza sociale. Questa alleanza si è fondata su una repressione sanguinaria, fatta di ammazzamenti e di arresti di attivisti della classe lavoratrice, sull'uso degli stupri come strumento di terrore politico, sulla proibizione degli scioperi operai.

Ma nello stesso tempo, la lotta per il potere tra queste due componeni delle classi dominanti non si è mai fermata. Lo scorso novembre, i Fratelli Musulmani avevano rimosso il generale Tantaoui dal Supremo Consiglio delle Forze Armate (SCAF), senza mettere in discussione il potere dei militari, anzi usandolo contro la rivolta popolare.

Nonostante ciò, la rivolta contro il fascismo religioso e contro il potere dell'esercito è rapidamente cresciuta in un contesto sempre più drammatico per la classe lavoratrice. A questo punto, alcuni settori della borghesia e gli stati occidentali non hanno più visto i Fratelli Musulmani quale ruota di scorta di contenimento della rabbia popolare.

Per cui lo scorso 2 luglio, l'esercito egiziano ha preso il potere con la forza, mettendo oggettivamente fine alla alleanza con i Fratelli Musulmani. L'esercito ha quindi strumentalizzato la rivolta popolare per i suoi interessi, che sono ben lontani da quelli delle classi popolari, delle donne e delle minoranze religiose. Ma non si può tacere degli abusi commessi in passato dall'esercito, nè della loro posizione di potere nell'economia.

La situazione mostra chiaramente la necessità per le classi popolari di organizzarsi su basi autonome per evitare la strumentalizzazione delle lotte e delle vittime. Come hanno scritto i nostri compagni egiziani del Movimento Socialista Libertario lo scorso 25 giugno:
«Quello che sta succedendo non è altro che un giro di valzer di poltrone tra due partiti in lotta per il potere (statale); questi due partiti cercano di strumentalizzare il movimento rivoluzionario per trarne vantaggio, ed il movimento rivoluzionario viene interpretato da queste due forze rivali in lotta per il potere (statale) .

Le masse possono mantenere il loro potere solo se si auto-organizzano, se si uniscono contro queste due forze in competizione che impediscono al movimento il diritto di praticare la democrazia assumendo liberamente le decisioni che riguardano le nostre vite. I nemici della rivoluzione sono il potere (statale) e chiunque sia in lizza per prenderselo, siano essi i Fratelli Musulmani, il clero, gli imprenditori o i militari>
 

 
Solidarietà con il movimento popolare egiziano, solidarietà con il Movimento Socialista LIbertario egiziano !
Nessuna dittatura laica, nessuna dittatura religiosa: solo auto-organizzazione popolare!

Segreteria per le Relazioni Internazionali - Coordination des Groupes Anarchistes (France)

Link esterno: http://www.c-g-a.org
(traduzione a cura di FdCA-Ufficio Relazioni Internazionali)

Le strade in Egitto sono più forti delle urne elettorali

Due anni e mezzo dopo l'estromissione di Hosni Mubarak, le strade d'Egitto sono tornate a farsi sentire. Mohamed Morsi è stato estromesso dopo un anno di regno e dopo 4 giorni di manifestazioni mai viste nella storia del paese. Gli Egiziani hanno rammentato al mondo che le elezioni non sono un assegno in bianco che esonera gli eletti da qualsiasi vincolo. La vera democrazia comporta il controllo del mandato da parte di chi lo conferisce e non ci sarebbe democrazia se non ci fosse la capacità di rimuovere coloro che hanno tradito il mandato. Non esiste nessuna costituzione che dia il potere ai lavoratori (eccetto per qualche  "referendun consultivo" alla Chavez) - le classi al governo hanno troppa paura che la spirale democratica possa eventualmente danneggiarle. Senza stare tanto a guardare la costituzione, la legge, la cosiddetta "legittimità democratica" delle elezioni, i lavoratori egiziani hanno reclamato il loro futuro attraverso una mobilitazione collettiva e rivoluzionaria. Che sia di monito ai padroni del nostro piccolo Occidente, e che i lavoratori di tutto il mondo ne traggano ispirazione!
Tuttavia questa seconda rivoluzione, con l'intervento dell'esercito nell'estromissione finale di Morsi, ha assunto l'aspetto di un golpe. Sebbene i militari abbiano semplicemente realizzato la conclusione resa inevitabile dal popolo, resta un'impressione simbolica disastrosa. Ma oltre i simboli, i militari si trovano un buona posizione per restaurare un potere autoritario, del tutto simile al regime che il popolo aveva rovesciato 2 anni e mezzo fa.  In quanto detentori di una ampia fetta della ricchezza del paese (35% del PIL), i militari stanno puntando a riprendere il pieno controllo del potere politico, che è garanza della continuità del loro impero economico, in cui non vi è spazio per gli interessi dei lavorarori.
Alternative Libertaire supporta i movimenti sociali egiziani e tutte le forze progressive nella lotta contro gli Islamisti e contro l'esercito, per riportare in Egitto la libertà, l'uguaglianza sociale e la vera democrazia fondata sul potere popolare.

Alternative Libertaire

4 luglio 2013

venerdì 5 luglio 2013

IN FIAMME LA SEZIONE TRIONFALE DELL'EX PCI (ora Pd e Sel) di Roberto Massari

Vorrei condividere con i compagni e le compagne cui sto mandando questa lettera, l'esperienza provata giovedì 27 a Roma, davanti alla celebre ex sezione Pci di Trionfale, ora sezione Pd e Sel.
Fin dalle origini quella sezione è stata dedicata a mio nonno materno (Otello di Peppe d'Alcide, comunista, ebanista e martire delle Fosse Ardeatine) - come ricordava anche il Corriere della Sera di mercoledì in cronaca romana, pur storpiando il nome di Otello in Oreste - e una grande lapide con il ritratto di nonno in un tondo ha sempre accolto all'ingresso chi entrava in quella sezione.
Quando da bambino (prima e durante le elementari) mi capitava di accompagnare mia madre a fare la spesa al mercato di via Andrea Doria, passavamo apposta davanti alla sezione, ci fermavamo sulla soglia ed io dicevo il mio "Ciao nonno".
Quanto la vicenda di mio nonno mi abbia condizionato nelle successive scelte politiche è sotto gli occhi di tutti. Meno noto è invece quanto io abbia fatto per conservarne e diffonderne la memoria: facendo appello (inascoltato) alle autorità di Chieti - dove nonno nacque - perché gli dedichino una strada; percorrendo tutti e tre i gradi del processo contro Priebke, compreso un quarto grado preliminare (il ricorso alla Corte costituzionale perché si accettasse per la prima volta la costituzione di parti civili in un processo militare); donando alcune memorie di nonno al Museo di via Tasso dove egli fu torturato; pubblicando il bel libro di Pino Mogavero I muri ricordano; collaborando con lo stesso Mogavero alla preparazione di un libro apposito su nonno Otello.
Ebbene, quando ho saputo che lunedì scorso un incendio (sicuramente doloso) aveva quasi distrutto la sezione (entrambi i circoli), portando addirittura all'evacuazione del palazzo, mi sono subito sentito impegnato moralmente a partecipare alla manifestazione che effettivamente c'è stata giovedì 27 giugno, davanti alla sezione semidistrutta (la lapide per fortuna è sana, ma è tutta coperta dal nero-fumo), in un'atmosfera di commozione e voglia di reagire allo stesso tempo. Un pubblico soprattutto Pd (che nel quartiere Trionfale - il mio quartiere - riesce però ad allacciarsi a tradizioni tutto sommato comuniste - si pensi che a poche centinaia di metri dalla sezione viveva Errico Malatesta...), con un po' di Sel e qualche presenza da fuori. (…) C'erano anche i miei due figli, Liben e Laris, presentati ufficialmente come pronipoti di Otello.
E come nipote di Otello sono stato accolto con simpatia dal centinaio circa di persone convenute, e il mio intervento (gridato a squarciagola perché i megafoni non sono più di moda) è stato interrotto più volte da applausi di solidarietà.
Altri interventi hanno ricordato che quella sezione è dedicata a Otello di Peppe. Per me è stato facile ricollegarmi a loro e dire che nonno mi sembrava ancora vivo e in mezzo a noi, tra quella gente che di lui probabilmente non sapeva niente, ma che di lui si considera erede. E sono venuto via in uno stato di lucida commozione, come non mi accade spesso: a settant'anni dalla morte di nonno alle Ardeatine c'è ancora chi ritiene utile appiccare il fuoco a sezioni della ex sinistra come se fossimo nel '22, ma c'è ancora chi rivendica la continuità con l'esempio di Otello e chi, come me, riesce a sentirlo ancora vivo, anche grazie a quell'attentato e per quel richiamo ideale a lui.
Con un compagno simpatizzante di UR ho scambiato alcune considerazioni su quel tipo di pubblico. Ognuno di noi sa bene che quelle persone, schieratissime col centrosinistra (cioè col partito delle guerre all'estero, delle tasse impietose e della liquidazione di ogni conquista sindacale, temporaneamente alleato a Berlusconi pur di poter stare al governo) rappresentano politicamente il contrario esatto delle idee mie e di mio nonno. Insomma, Pd e Pdl, facce diverse della stessa medaglia, ipotesi diverse di difesa dell'imperialismo italiano, come abbiamo sempre detto, e molto prima di Grillo.
Eppure quelle persone erano lì, un giorno feriale di pomeriggio, pronte a entusiasmarsi e ad applaudire anche i passi anticapitalistici del mio intervento.  Tra loro si chiamavano compagni e la cosa più curiosa e che tali si consideravano realmente. Insomma, se tra i dirigenti del Pd e del Pdl (Sel è un'appendice esterna, che però attualmente non si identifica totalmente col centrosinistra) si può tracciare una linea di identità (del tipo: fanno schifo entrambi, servi del capitale, nemici dei lavoratori ecc.), lo stesso non si può fare con i loro iscritti, attivisti o membri di base. Un pubblico così rispondente non lo avrei trovato in una manifestazione-assemblea del Pdl, del Cdu, dei montiani. Ed è lì che casca il somaro da una novantina d'anni: i dirigenti dell'ex movimento operaio - Pci, Psi e diramazioni varie - fanno schifo politicamente e storicamente quasi dalla nascita (sono cioè organici ai progetti della borghesia e di alcuni apparati burocratici di Stato, e non parliamo nemmeno delle loro responsabilità nella vittoria della controrivoluzione staliniana), mentre le loro basi continuano a credere di lottare per il progresso, la democrazia e nei casi più tragici anche per il comunismo. Non sarà per tutti così, ma per una certa fetta e in determinati contesti, il fatto è indiscutibile.
La differenza tra le basi del Pd-Sel e quelle del Pdl-Lega rispetto all'eguaglianza sostanziale ma ormai anche formale dei vertici di entrambi rappresenta il nodo cruciale della lotta di classe in Italia. Con altre sigle, in altri contesti, con storie nazionali diverse e in epoche diverse ciò è stato ed è vero su scala mondiale da quasi un secolo se non prima. Una classe sociale degna del nome (in questo caso i lavoratori) non potrebbe continuare per decenni ad autoilludersi che i propri dirigenti siano tutto sommato portatori dei loro ideali di base, delle loro necessità sociali e di classe. Una classe sociale degna del nome spezzerebbe prima o poi o al termine di determinati processi il nodo gordiano dell'incongruenza tra dichiarazioni e azioni e si darebbe nuovi dirigenti al posto di quelli traditori e/o incapaci. La borghesia lo ha fatto più volte (basti solo pensare alla Francia) e continua a farlo (anche se sempre con maggiore fatica). Il movimento operaio non ci è mai riuscito (si pensi alla sopravvivenza delle direzioni socialdemocratiche anche in piena espansione del bolscevismo e al prestigio dell'Urss tra i lavoratori di gran parte del mondo nonostante il Patto con Hitler, le sconfitte su ogni fronte, le invasioni di altri popoli e Paesi, la fame, il Gulag ecc.) e ormai ha rinunciato storicamente a farlo. Anzi, siamo giunti al punto di poter dire che il movimento operaio ha preferito autodissolversi, ha preferito scomparire come movimento antagonista organizzato di massa piuttosto che buttare al macero le proprie direzioni storiche e darsene di nuove che lo portassero a conseguire qualche vittoria propria. Il tutto avendo avuto centinaia se non migliaia di occasioni per verificare l'incompatibilità di quelle direzioni con i proprio ideali.
Ecco ciò che volevo comunicarvi: dall'emozione per aver risollevato una pagina della mia infanzia vedendo mio nonno "vivo" in quella manifestazione davanti a una sezione arsa dal fuoco di ignoti sono arrivato (lì, in loco) alle considerazioni sulla natura psicologicamente (antropologicamente?) antagonistica di quella gente presente, nonostante il carattere scopertamente reazionario dei suoi dirigenti. (...) 
Dimenticavo di dire che a nonno dedicai anche una poesia* nel settembre del 1966 (cioè a vent'anni), reduce dal viaggio in Europa a ad Auschwitz che cambiò la mia vita. 
Roberto
(28-06-2013)

* Fosse Ardeatine, pubblicata  assieme ad altre poesie di Roberto Massari nel libro Multiversi. Mezzo secolo di poesie (Massari editore, 2012)


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IX Congresso Nazionale della FdCA

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