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campagna contro la contenzione meccanica

per giulio

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domenica 25 giugno 2017

La fine della democrazia rappresentativa

Rispetto alle ultime elezioni amministrative genovesi, il dato che salta immediatamente agli occhi e che nessun analista politico ha potuto fare a meno di sottolineare è la massiccia astensione. Si tratta di una tendenza in atto da tempo e che va messa in relazione con le continue modifiche al sistema elettorale volte ad escludere fette sempre più consistenti di popolazione, in modo da ridurre la scelta ai soli rappresentanti della borghesia e del capitale. L'abbandono del proporzionale a vantaggio di sistemi maggioritari sempre più escludenti, la personalizzazione delle liste e l'elezione diretta dei sindaci, la pretesa necessità di dover sempre scegliere tra il meno peggio in occasione dei ballottaggi, la consapevolezza che nessun primo cittadino e nessuna giunta tutelerà mai gli interessi dei lavoratori e delle fasce sociali più deboli ma difenderà sempre gli interessi delle piccole consorterie padronali locali, che decidono ed orientano i giochi in base alle proprie esigenze, stanno determinando una crisi senza ritorno dello stesso concetto di democrazia rappresentativa. Che democrazia rappresentativa è, infatti, quella che non rappresenta larghi strati di popolazione?
La destra di centrosinistra
A Genova l'esperienza fallimentare del sindaco Doria è tangibile. Il sistema di potere che ha tenuto in pugno l'ex primo cittadino durante tutto il suo mandato ha ora l'esigenza di rimanere in sella nel segno della continuità. Per questo ha scelto come candidato sindaco un Crivello, già assessore della giunta uscente, che potrà garantire la realizzazione dei progetti di privatizzazione Amiu – Iren, delle grandi opere come Gronda e Terzo Valico, delle politiche securitarie in città e tanto altro ancora di negativo per i lavoratori e le fasce più deboli della popolazione. Per non perdere la partita (che vede comunque il candidato del centrosinistra sotto di una decina di punti rispetto all'avversario Bucci, del centrodestra), il PD cittadino ed i suoi cespugli chiamano i genovesi al voto facendo leva sull'antifascismo, ricorrendo al solito ricatto “o votate per noi o consegnate la città nelle mani della destra fascioleghista.”
La destra di centrodestra
Dall'altra parte, la peggiore destra che si sia mai vista in città pensa che sia venuto il momento di conquistare finalmente, dopo la Regione Liguria, anche il Comune di Genova. Questa è una destra arrogante, classista, dichiaratamente razzista e xenofoba (basta leggere le recenti esternazioni del presidente della Regione Liguria Toti riguardo agli immigrati), che non fa mistero dei propri programmi reazionari. La destra di Bucci si propone di proseguire con maggior efficacia l'opera di smantellamento dei beni pubblici iniziata dalle precedenti giunte di centrosinistra, di militarizzare il territorio in nome di un malinteso senso di decoro urbano e di una emergenza sicurezza inesistente, di sgomberare i centri sociali, di negare i diritti civili alle persone omosessuali. La sottocultura a cui fa riferimento questa parte politica si è ben manifestata durante il recente confronto pubblico tra i candidati Crivello e Bucci, quando molti sostenitori di quest'ultimo hanno inscenato una indegna gazzarra a suon di slogan truculenti e di saluti romani.
Espressione degli stessi interessi di classe
Ma questa non è altro che la riproduzione, sul piano locale, delle logiche istituzionali a livello nazionale ed europeo. I numeri dell'astensionismo crescono sempre di più in Italia (con l'eccezione di alcuni referendum) ed in molti Paesi dell'UE, perché è ormai forte la consapevolezza, nella popolazione, del primato del capitale finanziario sulla politica. Qualsiasi governo, di qualsiasi colore esso sia, deve sempre fare i conti con compatibilità ben definite che corrispondono, non a caso, agli interessi delle classi dominanti. In Italia, in particolare, l'attacco al mondo del lavoro è assolutamente bipartisan ed anzi gli ultimi governi (Renzi e Gentiloni) gli hanno impresso una decisa accelerazione, con il Jobs Act ed altri provvedimenti. Di pari passo vanno le azioni poliziesche contro chiunque tenti di organizzarsi al di fuori (ed a volte anche al di dentro) del sindacalismo tradizionale e di ribellarsi. La risposta è ormai sempre la stessa, buona per i centri sociali, la “movida” delle città, gli immigrati, gli operai: repressione. Se la sottocultura della destra di centrodestra è quella che ben conosciamo, la sottocultura della destra di centrosinistra è quella di Minniti – Noske, con la sua legge anti- immigrati ed i suoi freikorps di Stato che manganellano studenti ed operai e cercano di impedire anche la libertà di espressione, come è accaduto recentemente durante una manifestazione di Amnesty International a Roma; quella di Madia – Goering, con i suoi ignobili decreti nazisti contro i lavoratori colpevoli solo di ammalarsi gravemente; quella della “buona scuola”, della riduzione dei fondi ai portatori di handicap, del progressivo smantellamento della sanità pubblica, dei progetti di abolizione del diritto di sciopero.
Nessuna alternativa
Al ballottaggio di domenica prossima i cittadini genovesi saranno quindi chiamati a scegliere tra due destre. L'alternativa non esiste. Quella che poteva essere rappresentata dalle liste di sinistra si è suicidata politicamente nella frammentazione e nell'inconsistenza dei programmi, quella del M5S è letteralmente scomparsa (nonostante un incremento di voti rispetto alle amministrative precedenti), vittima delle proprie ambiguità e della propria autoreferenzialità. Chi ha votato queste liste ed il M5S dovrà scegliere forzosamente tra le due destre od astenersi. Chi si è astenuto dovrà decidere se ribadire la sua astensione o scegliere forzosamente tra le due destre. Tertium non datur. Questa è democrazia?
Quindi che fare?
Di fronte al ballottaggio ognuno è libero di decidere se votare od astenersi. Di chi voterà Bucci non intendiamo nemmeno parlare. Chi voterà Crivello e lo farà turandosi il naso, dovrà essere veramente consapevole che servirà a ben poco se non a credere di poter mantenere aperto un canale di dialogo con un'istituzione ostaggio delle consorterie economiche cittadine e del sistema di potere del PD genovese e che potrà, forse, ottenere qualcosa (od impedire arretramenti) sul fronte dei diritti civili ma non certo su privatizzazioni, grandi opere e quant'altro. Chi non voterà dovrà ragionare sul fatto che le massicce percentuali di astensione non sono e non saranno dovute ad una crescita di coscienza politica delle masse ma ad un sistema elettorale escludente ed alla sfiducia generale nelle istituzioni. Perché la democrazia rappresentativa è finita. In un modo o nell'altro non ci sarà comunque da cantare vittoria e l'unica strada da intraprendere sarà quella dell'opposizione politica e sociale, della costruzione di un movimento di classe che unifichi le lotte operaie nei posti di lavoro e sul territorio, che veda uniti italiani ed immigrati, lavoratori garantiti, precari, disoccupati, per la difesa dei propri interessi. Solo così si sconfiggono il razzismo, la xenofobia ed il capitale.
Genova, 23 giugno 2017
ALTERNATIVA LIBERTARIA/FdCA
Sez. Nino Malara Genova

mercoledì 7 giugno 2017

La città é nuda - urbanistica libertaria a Pordenone






Prefabbricato, Villanova / Pordenone
Via Pirandello, 22 - Ore 20.30
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9 giugno
Franco Bunčuga*
urbanistica e libertà
“relazioni tra territorio e progettualità libertaria”

16 giugno
Andrea Staid**
abitare illegale
“Etnografia del vivere ai margini in Occidente”

23 giugno
Tullio Zampedri**
paesaggio,
architettura e energia
“connessioni, relazioni e articolazioni
tra architettura e ambiente”

Naon jazz up! Per una cultura diffusa, libera e solidale a Pordenone

Naon jazz up! Per una cultura diffusa, libera e solidale.
È sulla base di questo messaggio semplice ma incisivo, rivolto alla città come monito di fronte al pericolo di una deriva settaria e negazionista, che nasce uno straordinario evento musicale al quale hanno aderito i migliori jazzisti nostrani (Bruno Cesselli, Massimo De Mattia, Francesco Bearzatti, Juri Dal Dan, Emanuel Donadelli e Romano Todesco); organizzato dal circolo Zapata, si svolgerà sabato 17
giugno alle ore 21 presso il ridotto del Teatro Verdi.
Prima le dichiarazioni del sindaco Ciriani, poco intenzionato a concedere un nuovo spazio alla storica ultratrentasettenale associazione culturale di orientamento libertario; poi una riuscitissima raccolta di firme (circa 600) lanciata da un gruppo di storici locali allo scopo di chiedere una sede per il circolo Zapata e la sua importante biblioteca - dotata di 2000 e più volumi; ora questa originale manifestazione musicale organizzata dai libertari zapatisti di Pordenone, che hanno voluto lanciare un messaggio fortemente propositivo: fare cultura attraverso una pratica autogestionaria, autofinanziata e in un rapporto solidaristico tra i soggetti coinvolti è possibile anche in una città in cui la prassi della censura delle diverse sensibilità culturali si fa norma istituzionale ed è concreto il rischio di perdere la pratica del confronto e del libero pensiero.
Non stupisce quindi che a rispondere all’appello “una casa per la biblioteca intitolata a Mauro Cancian” siano stati diversi musicisti jazz. Come scriveva Steve Lucy: “Possiamo dire che il jazz è un virus, un virus di libertà che si è diffuso sulla terra, “infettando” tutto ciò che ha trovato sulla sua strada: il cinema, la poesia, la pittura e la vita stessa”. Il jazz è libertà: o stai dalla sua parte o dall’altra.
La musica sarà ancora una volta il linguaggio universale e meticcio, sarà il luogo di contaminazioni e sperimentazioni, sarà la metafora di un tessuto sociale e culturale che parla più lingue, sarà l'espressione di una pluralità di soggetti e pensieri, sarà l'antidoto al pensiero unico e ai diktat di un apparato politico/burocratico, miope e arrogante, chiuso dentro una logica di autoreferenzialità, che non sa e non intende cogliere le diverse istanze e la ricchezza rappresentate dal variegato mondo sociale, artistico e culturale che, ancora oggi, si conferma essere la vera anima della città. E allora… Naon Jazz Up!

Circolo Libertario Emiliano Zapata


Alternativa Libertaria - giugno 2017

IL FOGLIO TELEMATICO DI ALTERNATIVA LIBERTARIA

IN QUESTO NUMERO PARLIAMO DI  REFERENDUM E PROPOSTA DI LEGGE POPOLARE SUL LAVORO, VENEZUELA, PORTELLA DELLA GINESTRA

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PERCHÉ IL QATAR? di Pier Francesco Zarcone





Donald Trump in Arabia Saudita, 21 maggio 2017 © Jonathan Ernst
L’improvvisa rottura dei rapporti diplomatici col Qatar decisa da Arabia Saudita, Bahrein, Emirati del Golfo e Yemen innesca una crisi dagli esiti non facilmente prevedibili e rischia di essere un gran pasticcio tanto per chi l’ha voluta quanto per il più che probabile coprotagonista dietro le quinte: gli Stati Uniti. Non è azzardato sostenere che questa situazione esplosa a breve distanza dalla visita di Trump in Arabia Saudita vada collegata proprio con questo viaggio. In tale occasione il presidente Usa ha assunto due posizioni solo formalmente contraddittorie, ma che nella sostanza rivelano l’esistenza di un preciso disegno di ulteriore destabilizzazione nell’area.
Da un lato egli si è prodotto in esternazioni contro il terrorismo jihadista, ma da un altro ha indicato nell’Iran il suo grande nemico. Quindi per un verso si è schierato con quella Arabia Saudita che ha diffuso nel mondo e alimentato il vero brodo di coltura di quel terrorismo, cioè il radicalismo islamico wahhabita, e per un altro se la prende con l’Iran che di quel terrorismo non è diffusore, non foss’altro perché il jihadismo è sunnita mentre lo Stato iraniano è sciita. L’Iran c’entra eccome nella crisi qatariota, ma non come unico fattore. La questione è complessa e va in qualche modo inquadrata.
Nell’ottica di Trump si deve porre rimedio a due “errori” commessi dagli Stati Uniti nel Vicino Oriente: il primo consiste nell’abbattimento del regime di Saddam Husayn, con la conseguenza di aver permesso di acquisire potere alla maggioranza sciita irachena, estendendosì così l’influenza iraniana nella regione, ampliatasi poi con la crisi siriana; il secondo sta nello “sdoganamento” dell’Iran compiuto dall’amministrazione Obama con il raggiungimento di un accordo con Teheran sulla questione del nucleare. Il logico esito di ciò sta per Trump nel rafforzamento dei legami con Israele e l’Arabia Saudita.
Da questo punto di vista il Qatar diventava un obiettivo a motivo della sua politica ambigua e opportunista. Al vertice di Riyad del 20 e 21 maggio scorsi il governo di questo piccolo Stato non ha manifestato adesione ai programmi dei Sauditi - condivisi da Trump - e in più i media qatarioti hanno diffuso le infiammate dichiarazioni dell’emiro Tamim bin Hamad al-Thani contro le decisioni di quella riunione: vale a dire le linee contrarie all’Iran, ai Fratelli Musulmani e al movimento palestinese Hamas, due organizzazioni che il Qatar sostiene e finanzia.
A ciò si aggiunga che il Qatar mantiene ottimi rapporti politici e commerciali con l’Iran. La mancanza di omogeneità religiosa e ideologica tra Doha e Teheran è del tutto irrilevante, sia perché le politiche orientali hanno logiche particolari - e infatti il Qatar è, non da ieri, notorio sostegno del jihadismo in Siria e Libia - sia perché gli interessi economici hanno il loro peso, e infatti il Qatar condivide con l’Iran anche lo sfruttamento di un ricchissimo giacimento di gas offshore, il South Pars/North Dome; già questo è sufficiente perché il Qatar non possa rompere le sue relazioni con Teheran: i due paesi traggono da quel giacimento oltre i due terzi della rispettiva produzione di gas.
Contemporaneamente il Qatar ospita la sede del quartier generale statunitense nel Vicino Oriente, il Centcom, in cui sono di stanza almeno 10.000 militari. La politica araba è a volte doppia, a volte tripla.
Nella situazione attuale la posizione eccentrica del Qatar rispetto agli interessi politici degli altri paesi della Penisola arabica non poteva restare senza conseguenze: in Siria e in Iraq, infatti, i jihadisti sono prossimi alla sconfitta, e le monarchie arabe si sono affrettate a “riposizionarsi”, allineandosi agli Stati Uniti come se non avessero mai appoggiato il radicalismo jihadista e riscuotendo il prezzo del voltafaccia in pingui aiuti militari Usa. Il Qatar invece insiste nel voler giocare in proprio.
È sempre difficile all’inizio di una crisi internazionale escludere oppure no che alla fine la parola passi alle armi, e per il momento si può solo prendere atto come la nota emittente televisiva qatariota Al Jazeera abbia modificato il linguaggio riguardo alla Siria, parlando per la prima volta di «esercito governativo» o «esercito siriano» a proposito delle truppe di Assad, finora definite «truppe del regime»; inoltre, a motivo dell’avvenuta chiusura dell’unico confine terrestre (quello con l’Arabia Saudita), a Doha viene ventilata l’ipotesi - più che probabile - di aumentare i commerci via mare con l’Iran. Tuttavia non è affatto scontato che il Qatar entri a far parte del blocco iraniano: il farlo significherebbe anzi, con tutta probabilità, la guerra.
Iran a parte, la contrapposizione fra Arabia Saudita e Qatar non ha nulla a che fare con l’ideologia religiosa, trattandosi di due Stati wahhabiti. Il contrasto è politico e personale, e ha radici lontane: già nel 1955, quando in Qatar il padre dell’attuale emiro prese il potere con un colpo di Stato, l’Arabia Saudita arrivò a chiedere all’Egitto di Mubarak un intervento militare contro l’usurpatore, senza però ottenerlo.
Quando poi al-Sisi rovesciò il presidente Morsi col sostegno saudita, si ebbe una breve sospensione dei rapporti diplomatici fra Riyad e Doha, che invece sosteneva i Fratelli Musulmani. L’appoggio qatariota a quest’ultima organizzazione non è mai cessato ed essa, per quanto non definibile ostile a priori al Wahhabismo, è però acerrima nemica politica della monarchia saudita - oltre che degli attuali regimi egiziano e siriano.
In più l’Arabia Saudita accusa da tempo il Qatar di fornire sostegno attivo alle minoranze sciite nei territori di Riyad e nel Bahrein, e questo getta ombre pericolose sullo Yemen, in cui i Sauditi si sono impantanati in una guerra contro i ribelli Houthi (sciiti), conflitto che finora non sono riusciti a vincere neanche con l’aiuto statunitense.
In definitiva, quella che doveva essere la “Nato araba” voluta da Washington è morta prima ancora di nascere, e la conseguenza potrebbe essere una grande instabilità in tutto il Golfo Persico. Trump ha voluto giocare una carta pericolosa e non ci sarà da stupirsi se ancora una volta i malaccorti tentativi statunitensi di destabilizzazione andranno a loro sfavore. Soprattutto se fosse vero che Trump punta a uno scontro militare con l’Iran.

Nella diffusione e/o ripubblicazione di questo articolo si prega di citare la fonte: www.utopiarossa.blogspot.it

YEMEN: UNA GUERRA IMPERIALISTA SILENZIATA di Pier Francesco Zarcone




È di questi giorni la notizia che il governo degli Stati Uniti intenderebbe aumentare l'appoggio militare all'Arabia Saudita nella guerra iniziata da questo paese contro lo Yemen. Per la stragrande maggioranza del grande pubblico la notizia può essere sorprendente, giacché il conflitto in corso nello Yemen è quasi una "non-notizia", a motivo di un silenzio pressoché completo dei mass media nostrani. E soprattutto non è detto che i più ne conoscano le cause.

LO YEMEN DALLA MONARCHIA ALLA REPUBBLICA

Ai nostri fini la sommaria ricostruzione della travagliata e sanguinosa storia dello Yemen può partire dal 1962, quando un golpe militare appoggiato dal Cairo depose l'ultimo monarca, il giovane imam sciita zaydita Muhhammad al-Badr, e venne proclamata la Repubblica. Tuttavia le tribù delle montagne - rifornite dall'Arabia Saudita - continuarono a sostenere il re, con la conseguenza di una sanguinosissima guerra civile in cui intervennero direttamente truppe egiziane (fu il piccolo Vietnam di Nasser). La guerra civile finì al termine degli anni Sessanta (anche a motivo del disimpegno egiziano per la sconfitta nella Guerra dei sei giorni contro Israele) grazie ad accordi tra Il Cairo e l'Arabia Saudita, la quale sostanzialmente "mollò" al-Badr. Quindi la vittoria fu dei repubblicani. Questo per quanto riguarda lo Yemen settentrionale.
Nel Sud controllato dalla Gran Bretagna, che vi aveva costituito una Federazione Araba Meridionale, dal 1963 il Fronte di Liberazione Nazionale (marxista) aveva iniziato la guerriglia contro i Britannici, costringendo infine Londra a concedere l'indipendenza allo Yemen del Sud, dove nel 1967 si costituì la Repubblica Popolare dello Yemen (diventata nel 1970 Repubblica Democratica Popolare dello Yemen), con capitale Aden, che ebbe il primato di essere l'unico Stato comunista del mondo arabo.
Tentativi di unificazione fra le due Repubbliche yemenite risalgono agli inizi degli anni Settanta, ma senza esito fino al crollo dell'Unione Sovietica. Nel 1990 Yemen del Nord e del Sud si riunirono. Un'unione infelice, giacché ben presto i comunisti del Sud si resero conto dell'errore commesso e nel 1994 cercarono di effettuare una secessione. L'esercito rimasto fedele al governo unitario, molto più forte di quello secessionista e appoggiato anche da elementi del Sud, domò la ribellione nel corso dello stesso anno. È interessante notare che i ribelli avevano ricevuto l'aiuto dell'Arabia Saudita che, a prescindere dall'abissale differenza ideologica con costoro, malvedeva l'unificazione yemenita, suscettibile di diventare un polo di attrazione pericoloso per le pretese di egemonia di Riyad sulla Penisola arabica.
A questo punto possiamo saltare fino al presente secolo.

LA RIVOLTA DEGLI HOUTHI

Per capire gli avvenimenti attuali si deve spiegare chi siano gli Houthi e il loro movimento Ansar Allah (italianizzato in Ansarullah), ovvero Partigiani di Dio. Essi fanno parte della consistente minoranza sciita zaydita dello Yemen (un'antica corrente islamica presente solo in questo paese, più affine ai Sunniti che non al resto del mondo sciita, duodecimano e settimano) e prendono il nome dal loro primo comandante militare, Husayn Badr ad-Din al-Houthi. Il movimento Ansar Allah nacque nel 1992, patrocinato dalla famiglia al-Houthi per ridare slancio allo Sciismo zaydita nel paese, ma non solo per questo: erano anche in gioco l'ottenimento di un maggiore spazio per partecipare alla vita politica yemenita e di migliori condizioni per lo sviluppo sociale, nonché il riconoscimento di uno status giuridico per la loro confessione religiosa. Quest'ultimo profilo aveva anche importanti implicazioni economiche in ambito famigliare: ad esempio, per i Sunniti all'erede maschio spetta il doppio della quota della femmina, mentre per gli Houthi l'eredità dev'essere divisa in parti uguali indipendentemente dal sesso degli eredi.
I rapporti col governo yemenita precipitarono dopo l'invasione statunitense dell'Iraq nel 2003 - in quanto gli Houthi si schierarono a favore di Saddam Husayn - e la repressione voluta dal Presidente Abd Allah Saleh portò gli Houthi alla rivolta armata. Essa si inserì attivamente nella più ampia sfera della politica yemenita nel 2011, quando il leader ribelle Abd al-Malik al-Houthi si pronunciò a sostegno del movimento popolare che chiedeva le dimissioni di Saleh. Uscito di scena quest'ultimo alla fine del 2011, l'interim presidenziale fu assunto dal feldmaresciallo Rabbih Mansur Hadi (originario del Sud), che l'anno successivo fu eletto Presidente con mandato biennale - elezioni boicottate dagli Houthi. Contrari alla proroga di un anno al mandato presidenziale, gli Houthi ripresero le armi e nell'autunno del 2014 si impadronirono della capitale yemenita, Sana'a. Rimasto senza sostanziale esito un accordo politico imposto a Hadi, gli Houthi occuparono il palazzo presidenziale, fecero dimettere Hadi, lo imprigionarono, sciolsero il Parlamento e costituirono un Comitato rivoluzionario per governare il paese. A febbraio 2015 Hadi riuscì a fuggire da Sana'a riparando ad Aden, dove si proclamò legittimo Presidente e costituì la sua capitale.
Gli Stati Uniti, l'Arabia Saudita e le monarchie arabe del Golfo dettero il loro appoggio a Hadi. Gli Houthi, oltre a questi nemici, avevano e hanno avversa anche la locale sezione di al-Qaida, che è riuscita a occupare alcune zone nella parte centrale del paese.
Pur non essendo riusciti a occupare Aden, gli Houthi - appoggiati da una parte dell'esercito yemenita, tra cui anche reparti rimasti fedeli all'ex Presidente Saleh - estesero il proprio controllo territoriale, arrivando fino all'importante stretto di Bab el-Mandeb e marciando di nuovo su Aden, si impadronirono dell'aeroporto internazionale e il 25 marzo 2015 costrinsero Hadi a scappare per riparare in territorio saudita.

L'AGGRESSIONE SAUDITA

A stretto giro, cioè il 26 marzo, l'Arabia Saudita annunciò la creazione di una coalizione di Stati sunniti per riportare al potere Hadi, e iniziarono i bombardamenti dello Yemen. La coalizione era nominalmente costituita da Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Kuwait, Qatar, Egitto, Giordania, Sudan e Pakistan, ma in realtà lo sforzo maggiore fu delle truppe saudite.
Ancora una volta risalta l'assenza di una qualsiasi copertura giuridica (anche se formale o formalistica) a tale intervento bellico. Una coalizione palesemente in funzione anti-iraniana, giacché Teheran - per motivi geostrategici, politico-economici e religiosi - sta ovviamente dalla parte degli Houthi. È chiaro d'altronde che una loro vittoria nello Yemen avrebbe conseguenze pericolosissime per l'Arabia Saudita e le petromonarchie arabe, in quanto suscettibile di ridare slancio alle loro minoranze sciite (nel Bahrein gli Sciiti sono maggioranza numerica) oppresse religiosamente, politicamente ed economicamente. Il che altresì significherebbe un'estensione dell'area di influenza iraniana nella regione. Anche per questo - e benché l'Arabia Saudita sia notoriamente la creatrice e finanziatrice di una vasta rete mondiale di moschee e madrase radicali, brodo di coltura per estremisti di vario genere - pure nella questione yemenita essa gode del concreto appoggio occidentale, e particolarmente di Stati Uniti e Francia. Le coste dello Yemen sono sotto blocco navale della Quinta Flotta yankee, e l'aiuto della Francia consiste in rifornimenti e mercenari attraverso la base militare di Gibuti.

LA SITUAZIONE ATTUALE

Sulla carta si sarebbe dovuto trattare di un conflitto di breve durata, non foss'altro per la schiacciante superiorità della coalizione saudita. Tuttavia ancora una volta - e almeno finora - viene dimostrato che è illusorio dare per scontata una vittoria sulla semplice base dei numeri; vale a dire non considerando il fattore umano e le sue reali motivazioni. Chi sta resistendo all'aggressione saudita sa perché e contro cosa combatte; è dubbio invece il grado di consapevolezza delle truppe delle monarchie reazionarie arabe o quale sia il loro supporto morale; mentre sappiamo che i mercenari francesi e i piloti statunitensi nelle fila saudite combattono per bonus di circa 75.000 dollari a missione, e il premio dei loro colleghi sauditi consiste in un'automobile Bentley, concessa dal principe Walid bin Talal.
Fino ad oggi la guerra nello Yemen è stata un totale disastro per i Sauditi e i loro alleati, e intanto la regione dell'Hadramaut è diventata un vero e proprio "santuario" per al-Qaida nella Penisola arabica. Gli Houthi e i loro alleati hanno dimostrato un inaspettato grado di resistenza e di capacità di contrattacco, che per la coalizione si sono tradotti in una gran brutta figura a causa delle inutili perdite di militari e di materiali bellici considerati ultramoderni (al riguardo si ricorda che il quotidiano libanese al-Akhbar ha definito Aden «il cimitero dei carri armati AMX Leclerc», di cui sono tanto fiere le Forze armate francesi). E questo non poteva non ripercuotersi sulla tenuta della coalizione stessa. Infatti Pakistan, Egitto ed Emirati si sono defilati alla grande.
Oggi la capacità di rappresaglia yemenita per gli attacchi aerei sauditi consente di effettuare lanci missilistici che raggiungono anche basi militari in prossimità di Riyad, ma ciò non toglie che, nel silenzio degli organismi internazionali, i Sauditi stiano massacrando lo Yemen dal cielo, creando una situazione di emergenza umanitaria assoluta. A essere bombardate sono perlopiù installazioni civili e centri abitati, oltretutto privi di una vera assistenza sanitaria. I profughi interni sono circa tre milioni e almeno 200.000 persone sono scappate all'estero; le necessità di assistenza alimentare sono elevatissime per circa l'80% della popolazione, insieme alla penuria di acqua potabile, elettricità, combustibili e medicine.
A ennesima dimostrazione dell'inutilità delle organizzazioni internazionali sta il fatto che, avendo iniziato l'Onu a imputare all'Arabia Saudita l'uso di armi non convenzionali come bombe a grappolo e armi chimiche - anticamera per un'accusa di crimini di guerra - da Riyad sia partita la minaccia di ridurre i fondi versati alle Nazioni Unite e a tutte le sue agenzie (UNRWA inclusa), nonché quella di far emettere dagli ulema sauditi una fatwa per attribuire all'Onu la qualifica di «nemico dell'Islam».
Tuttavia sull'Arabia Saudita si addensano anche ombre non previste. Notoriamente gli alleati degli Stati Uniti non possono essere mai sicuri della durata del legame con Washington, non sapendo cioè quando verranno malamente e improvvisamente "scaricati", con o senza copertura giuridica. Intanto una copertura giuridica Washington l'ha messa a punto a carico di Riyad: il 9 settembre dello scorso anno il Congresso degli Stati Uniti ha approvato il Justice Against Sponsors of Terrorism Act (JASTA), che permette di agire contro l'Arabia Saudita per ottenere il risarcimento dei danni causati l'11 settembre 2001 da terroristi che erano di nazionalità saudita. Danni riguardanti 3.000 morti, l'abbattimento del World Trade Center - valutato in 95 miliardi di dollari - e la distruzione e la perdita dei servizi pubblici, per un totale di almeno 3.000 miliardi di dollari! Una "spada di Damocle" è quindi pronta, e chi vivrà vedrà.

Nella diffusione e/o ripubblicazione di questo articolo si prega di citare la fonte: www.utopiarossa.blogspot.com

LA FOTOGRAFIA RIBELLE

È USCITO «LA FOTOGRAFIA RIBELLE»,
IL NUOVO LIBRO di Pino Bertelli
 

giovedì 1 giugno 2017

Noi, sostenitori del Rojava, dovremmo essere preoccupati per l'alleanza con gli USA

Questo articolo si occupa dell'attuale situazione militare in Rojava. Mentre il PYD e le Forze Democratiche Siriane si avvicinano sempre di più agli USA, sembra che tra gli anarchici ed i comunisti-anarchici c'è chi se ne dimostra felice. Questo articolo cerca di spiegare a questi anarchici che tale alleanza è solo negli interessi degli USA e dei loro alleati in Europa e nella regione. Alla fine, il Rojava potrebbe perdere ciò che ha conquistato finora.
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Noi, sostenitori del Rojava, dovremmo essere preoccupati per l'alleanza con gli USA.
By: Zaher Baher
17 maggio 2017
Gli equilibri politici e militari in Siria sono in continuo mutamento. Le relazioni tra le Forze Democratiche Siriane (SDF), co-fondate dalle Unità di Difesa del Popolo (YPG), ed anche quelle con Russia ed USA fluttuano costantemente. Le dinamiche dietro questi cambiamenti hanno poco a che fare con l'ISIS. Infatti, tutto dipende dai rispettivi interessi generali delle grandi potenze e dai  loro scontri per stabilire una predominanza di potere nell'area.
L'anno scorso c'è stata una costante erosione della posizione degli Stati Uniti in Siria nei confronti della Russia, che da allora è in una posizione di vantaggio. Il pesante coinvolgimento della Russia in Siria e l'essere diventata un alleato importante della Turchia ha cambiato molte cose. La relativa inattività  degli Stati Uniti ha dato l'opportunità alla Russia, alla Turchia e all'Iran di svolgere un ruolo significativo nel prendere le decisioni.
Sotto la nuova amministrazione di Trump questo è cambiato in qualche modo. Probabilmente Trump ha un approccio diverso sulla Siria. Nonostante gli Usa siano ancora una delle maggiori potenze del mondo, non riescono a muoversi nella regione, specialmente in Siria.
Dopo una lunga pausa, Trump ha deciso di allearsi con le SDF contro l'ISIS per sconfiggerlo a Raqqa, indipendentemente dalla posizione e dalla reazione della Turchia. Trump ha ora approvato un accordo per fornire direttamente armi pesanti alle SDF, vedendole come la forza più efficace e affidabile soprattutto dopo che le SDF hanno strappato la città di Tabqa City all'ISIS. L'amministrazione statunitense è attualmente più che mai determinata nella ri-conquista di Raqqa, capitale di fatto dell'ISIS. Ora è chiaro che l'amministrazione statunitense, le SDF e il Partito Democratico Popolare (PYD) si stanno avvicinando l'un l'altro fino al punto che le SDF puntano a raggiungere ciò che gli Stati Uniti vogliono raggiungere, anche se ciò potrebbe  avvenire a spese di ciò che è stato raggiunto finora in Rojava.
Noi sostenitori del Rojava dovrebbero essere molto preoccupati per l'attuale sviluppo in relazione a ciò che potrebbe accadere alla democratica auto-amministrazione del Rojava ed al Movimento della Società Democratica (Tev-Dem,  coalizione di governo del Confederalismo Democratico, ndt ). Dobbiamo preoccuparci delle seguenti conseguenze:
Primo: è una questione di influenza per gli Stati Uniti, mentre assistono al fatto che la Russia quasi controlla la situazione ed è riuscita a portare la Turchia dalla sua parte. Gli Stati Uniti vogliono dimostrarsi ancora molto attivi prima di perdere il loro potere nell'area. Vogliono giocare il ruolo principale e raggiungere il proprio obiettivo, ma questo può essere fatto solo attraverso le SDF ed il PYD. Non c'è dubbio che gli Stati Uniti siano più preoccupati per i propri interessi piuttosto che per gli interessi curdi in Rojava.
Secondo: per controllare le SDF ed il PYD, occorreva farne uno strumento da usare per gli interessi statunitensi. Il che è il miglior modo per far perdere credibilità al PYD ed alle SDF in Siria, nella regione, in Europa, ovunque.
Terzo: l'attuale atteggiamento degli USA verso il Rojava e l'armamento delle SDF potrebbero essere diretti ad allontanarle dal PKK per indebolire l'influenza di quest'ultimo sugli sviluppi in Rojava.
Quarto: non c'è dubbio alcuno che qualsiasi cosa accada renderà la Turchia sempre più aggressiva contro le YPG ed il PKK. Questo potrebbe indurre la Turchia ad alzare la posta. Potrebbe ripetere le operazioni militari del mese scorso contro le YPG o persino estendere queste operazioni sul territorio del Rojava nonchè contro le YPG & PKK a Shangal, nel Kurdistan iracheno.
Quinto: Con l'ostilità della Russia contro le SDF e il PYD, Assad potrebbe essere spinto a cambiare l'atteggiamento della Siria verso di loro in futuro, se non adesso. Se il Rojava avesse scelto la Russia anziché gli USA, sarebbe stato  molto meglio perché la Russia è più affidabile come alleato rispetto agli Stati Uniti. Sembra che Assad resterà al potere dopo la sconfitta dell'ISIS. Assad normalmente ascolta la Russia con molta diligenza. In questo caso, sotto pressione della Russia ci sarebbero state maggiori possibilità affinchè Assad  permettesse al Rojava di perseguire un futuro migliore di quello che gli Stati Uniti e i paesi occidentali potrebbero decidere per il Rojava.
Sesto: l'intensificarsi ed il  prolungarsi della guerra in atto ha portato il Rojava a confrontarsi con la  grande questione della dislocazione. La continuazione della guerra costa alle SDF tante vite e le rende sempre più deboli. Più è forte e più è grande il peso delle SDF in Rojava, più deve necessariamente dipendere da una delle maggiori potenze, ma nel frattempo il Rojava si sarà indebolito. Quanto più le SDF avanzano militarmente, tanto più arretrano socialmente ed economicamente  in Rojava. Più diventano forti le SDF ed il PYD, minore è la forza che l'auto-amministrazione locale ed il Tev-Dem avranno. Il numero di combattenti delle SDF  è stimato in 50.000. Immaginate che solo 10.000 di essi, invece di stare al fronte, lavorino nei campi e nelle  cooperative a costruire scuole, ospedali, case e parchi. Il Rojava sarebbe oggi tutta un'altra cosa.
Settimo: spesso ho scritto nei miei articoli che un successo del Rojava - quel successo che ha avuto nel modo in cui speravamo - sarebbe dipeso in futuro da un paio di fattori, o come minimo uno, per poter preservare la sperimentazione. Uno era l'ampliamento del movimento del Rojava ad almeno  un paio di altri paesi della regione. L'altro fattore era la solidarietà internazionale. Ma, non si è verificato nessuno dei due. Se c'è qualcosa che può ora preservare il Rojava, sono l'ISIS e le forze dell'opposizione in Siria che si oppongono contro tutte le probabilità. In breve, solo una prolungata campagna militare anti-ISIS può preservare il Rojava.
A mio parere, dopo aver sconfitto l'ISIS nella regione di Kobane, le YPG avrebbero dovuto sospendere le operazioni militari tranne che per l'autodifesa dei confini stabiliti. Dopo aver sconfitto l'ISIS nella regione di Kobane e dopo il maggiore intervento degli Stati Uniti e della Russia, le YPG ed il  PYD avrebbero dovuto ritirarsi dalla guerra. Il PYD avrebbe dovuto affrontare meglio la situazione e ritirarsi dal potere nel Tev-Dem e lasciare che il resto della popolazione prendesse le proprie decisioni sulla pace e sulla guerra. Chiaramente la natura attuale, la direzione e il potenziale corso della guerra in atto sono completamente cambiati nel Rojava. È una guerra delle grandi potenze, dei governi europei e dei governi regionali per proteggere i propri interessi e dividersi il dominio.
La situazione al momento sembra molto grama. Sembra che una volta che l'ISIS sia stato sconfitto a Mosul e Raqqa, avrà inizio probabilmente una guerra che coinvolgerà il Rojava ed il PKK in Iraq sui monti di Qandil e nella città di Shangal. Questi sono i calcoli che stanno facendo Barzani, capo del Governo Regionale del Kurdistan iracheno (KRG), la Turchia e forse anche l'Iran e l'Iraq con la benedizione degli Stati Uniti, della Russia e della Germania. Una tale guerra potrebbe iniziare entro la fine di agosto o settembre dopo la sconfitta militare dell'ISIS a Mosul e Raqqa.

Zaherbaher.com (Zaher Baher è scrittore ed attivista del Kurdistan Anarchists Forum)
(traduzione a cura di AL/fdca - Ufficio Relazioni Internazionali)

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