ADERISCI AD ALTERNATIVA LIBERTARIA/FdCA

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campagna contro la contenzione meccanica

per giulio

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domenica 30 aprile 2017

TRUMP MOSTRA I MUSCOLI di Pier Francesco Zarcone

Commentare a caldo il bombardamento missilistico statunitense sulla base aerea di Shayrat della notte del 7 aprile è azzardato - non sapendo cosa accadrà in seguito - ma non inutile, quantomeno per cercare di capirci un po' di più rispetto alle lezioncine preconfezionate che i corifei degli Stati Uniti, in Italia e fuori, si sono affrettati a recitare. Per combinazione l'esibizione muscolare di Trump avviene poco dopo la pubblicazione su Utopia Rossa di un nostro articolo il cui nocciolo era la sostanziale inutilità del diritto internazionale, visto che le grandi potenze lo violano di continuo. Ebbene, ancora una volta gli Stati Uniti hanno agito in applicazione del "loro" diritto internazionale, composto da un solo articolo, animato da una chiara logica imperialista unipolare: facciamo quel che ci pare, e quel che facciamo è giusto e legale e i nostri massacri sono semplici "danni collaterali".
Ancora una volta è emersa la totale inutilità delle Nazioni Unite, anche se a dirlo espressamente sono ancora in pochi; tuttavia è innegabilmente ridicolo (seppur tragico) il fatto che mentre al Consiglio di Sicurezza si perdeva tempo con le bozze di risoluzione, dal canto loro gli Stati Uniti lanciavano missili con la scusa di un'asserita responsabilità del governo di Damasco per il gas nervino a Idlib. Certo è che se l'Onu chiudesse i battenti nessuno se ne accorgerebbe, a parte i risparmi monetari degli Stati membri. E tanto per cambiare si è sostenuta un'accusa assolutamente senza prove, in base al principio dixit Washington, et de hoc satis. Ha tutta l'aria di un bis delle asserite "armi di distruzione di massa" di Saddam. Per inciso, chi sia abituato a pensar male non si stupisce della contemporaneità fra l'attacco missilistico e un'offensiva dell'Isis sulla strada Palmira (Tadmur)-Homs, per fortuna rapidamente respinta dalle truppe siriane.
Poiché le prove non esistono, si può intanto riflettere in modo generico sull'uso del gas a Idlib. Secondo l'Onu i depositi di armi chimiche di Damasco erano stati distrutti; ma pur ammettendo e non concedendo che il governo siriano abbia ancora armi del genere, considerato che qualche anno fa la questione sembrava far precipitare le cose nel senso di un attacco statunitense - sventato solo dall'intervento russo in favore dello smantellamento dei depositi chimici - allora il consolidato (anche se non infallibile) criterio del cui prodest porterebbe a escludere la responsabilità di Damasco, salvo considerare Assad & C., ma anche lo Stato maggiore russo, un manica di idioti. Infatti era ovvio che - protezione russa o no - se costoro avessero usato armi chimiche, un fumantino come Trump (oltretutto alle prese con irrisolti problemi di Russiagate e tenuto sotto scacco dall'establishment "neocon") avrebbe dovuto prendere una qualche iniziativa bellicista.
Si prenda nota che, riguardo ai fatti di Idlib, nessuno ha ricordato che in precedenza i Russi avevano allertato gli Usa sul fatto che i cosiddetti "ribelli moderati" erano ancora in possesso di armi chimiche. Ma non pare che quella segnalazione li avesse turbati più di tanto.
Dal punto di vista tecnico-militare non è che il lancio di missili vada considerato un grande successo: su 59 ordigni, soltanto 23 hanno colpito il bersaglio, la base aerea siriana è danneggiata ma non distrutta, e infine la maggior parte degli aerei (o perché ritirati in anticipo per intuizione, oppure perché protetti dai bunker) è salva. La stampa filostatunitense sostiene che in realtà l'azione missilistica non doveva essere più di un ammonimento, per non chiudere definitivamente le porte verso Mosca e Damasco. Sarà.
A non essere salve, invece, sono le speranze di pace, non essendo noti gli attuali piani tattici di Washington sul Vicino Oriente - mentre quelli strategici lo sono da tempo: balcanizzazione.
Se Trump ha voluto dimostrare di essere un vero "duro" - a differenza di Obama - è tuttavia innegabile che Putin non può perdere la faccia (e non solo per questioni di orgoglio), cosicché il rischio di uno scontro sul campo fra Russia e Stati Uniti è più concreto che mai, ma le Forze armate russe, grazie al vasto programma di modernizzazione tecnologica messo in atto da qualche anno, non sono più quelle del tempo di Eltsin. Le speculazioni giornalistiche sulla possibilità che Mosca "molli" Damasco appaiono più un desiderio che una realtà, a motivo dei consolidati interessi geostrategici russi nella zona. Le ombre a dir poco sinistre continuano comunque a gravare. Asetticamente molti organi di stampa comunicano che i "ribelli" di Siria (in realtà per lo più invasori stranieri) invocano la totale distruzione dell'aviazione siriana, senza notare che questo comporterebbe due tragici risultati: il sicuro scontro diretto con la Russia e l'indebolimento delle Forze armate siriane di fronte al jihadismo.
Dicendolo francamente, a prescindere da quanti trovino la cosa sgradevole, se nel frattempo fosse emersa un'alternativa ad Assad, politicamente e militarmente credibile (innanzitutto per la Siria), vari problemi si ridurrebbero. Ma così non è e allora, piaccia o no, il crollo del governo di Damasco significherebbe abbandonare la Siria a Isis e al-Qaida, oppure far scomparire il paese dalla carta geografica, polverizzandolo in una miriade di staterelli senza peso politico ed economico, e alla mercé del primo che arriva. Non è da escludere che in certi ambienti occidentali lo si voglia.
Tralasciando (per scaramanzia) l'ipotesi dello scontro diretto fra militari russi e statunitensi, e ipotizzando altresì che il bombardamento in questione abbia costituito la classica una tantum, senza mutare di molto la situazione sul campo, tuttavia, se resta l'intenzione statunitense di non lasciare campo libero alla Russia in Siria, c'è da chiedersi cosa potrebbe fare Trump, e con quali possibili alleanze, per imporre una sua soluzione alla crisi siriana. Sempre infischiandosene di tutto, egli potrebbe aumentare la presenza di truppe statunitensi sul terreno per arrivare quanto prima alla conquista di Raqqa, la capitale del "califfato" Isis. A questo fine Washington avrebbe tuttavia bisogno di una copertura aerea maggiore di quella di cui dispone oggi in loco: il che vorrebbe dire instaurare una no-fly zone (ma la Russia quantomeno si opporrebbe, se non peggio), oppure gli Stati Uniti dovrebbero trattare con Mosca, che forse non escluderebbe Assad, visto che la presenza russa in Siria è avvenuta su richiesta del governo di Damasco, internazionalmente riconosciuto. E allora?
Sul piano delle alleanze, a ben guardare - e ferma restando la citata assenza di alternative ad Assad - non viene in mente molto, a parte la teorica carta curda, che poi si riduce alle milizie curde di Siria. Infatti, tenuto conto della precisa realtà jihadista dei "ribelli moderati", l'alleanza formale con essi per delineare una "nuova Siria" sarebbe tanto un atto di onestà quanto una scelta sicuramente impolitica; pertanto la si potrebbe ragionevolmente escludere. Restano quindi i Curdi, ma dopo averli utilizzati Trump potrebbe al massimo concedere loro soltanto una zona fortemente autonoma in territorio siriano, insufficiente però ai fini di un ampio piano di riorganizzazione del paese. In aggiunta a questa pochezza ci sarebbero da mettere in conto le prevedibili reazioni turche - con ricadute sul fronte sud-orientale della Nato - ma anche quelle dell'Iran e dello stesso governo di Damasco.
Inoltre c'è da domandarsi se gli stessi Curdi ci starebbero. La storia del popolo curdo è ricca di alleati opportunisti e aleatori che al momento (per loro) opportuno si defilano e lo lasciano esposto a ogni possibile rappresaglia; il che, nel caso in ispecie, potrebbe accadere dopo la conquista di Raqqa. Conquista che è ancora di là da venire, visto anche il precedente di Mosul, ancora non conquistata per la tenace resistenza dell'Isis (a proposito, qui le stragi fatte dall'aviazione Usa non suscitano emozioni internazionali).

Nella diffusione e/o ripubblicazione di questo articolo si prega di citare la fonte: www.utopiarossa.blogspot.com

primo maggio anarchico a Piove di Sacco (PD)


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1 MAGGIO 2017, PER UNA TRASFORMAZIONE AUTOGESTIONARIA DELLA VITA SOCIALE

Quando, l’1 Maggio 1886, la Federazione dei Lavoratori di USA e Canada proclamò lo sciopero generale per le 8 ore di lavoro, la prima reazione delle/gli anarchici di Chicago fu quella di giudicare lo sciopero generale come insufficiente. Ma si resero successivamente conto della necessità di sostenere lo sciopero, in quanto furono capaci di vedere nella lotta per le otto ore non solo una semplice riforma, ma una profonda discontinuità col sistema capitalistico.
Gli slogan che si riferivano a 8 ore di lavoro, 8 ore per il riposo e 8 ore di tempo libero, coinvolgevano in quest’ottica il bisogno di coloro che lottano per farsi carico della propria vita, di scegliere qual è il senso del tempo, il senso del lavoro e della vita sociale in generale. Per questo nella campagna dei primi mesi del 1886, furono gli anarchici che pronunciarono i più ardenti discorsi contro l’ordine costituito e per la costruzione di una società di uguali, davanti a migliaia di scioperanti che si erano mobilitati negli Stati Uniti.
La feroce repressione e la persecuzione da parte dello Stato cadde su proprio su coloro che si erano mobilitati in quei giorni lasciando diversi morti e imprigionando quelli che in seguito divennero noti come i martiri di Chicago.
In oltre 130 anni di dominio da quel 1 Maggio 1886, il capitalismo ha raggiunto una globalizzazione senza precedenti. Ha esteso la sua politica neoliberista su gran parte del pianeta. Le sue organizzazioni internazionali agiscono con coerenza travolgente a beneficio di un piccolo gruppo di potenti, e per la frammentazione di ogni forma di resistenza. Distruggono il mondo del lavoro, i legami di solidarietà, la vita sociale, incrementano lo sfruttamento e peggiorano le condizioni di lavoro, creano enormi masse di povertà e di indigenza in tutto il mondo, reprimono le lotte sindacali e disincentivano la creazione di sindacati nei posti di lavoro.
In questa fase di grande difficoltà per milioni di lavoratori e lavoratrici perseguitati dalle guerre guerreggiate e dalla devastante ristrutturazione capitalistica in atto da 10 anni, dobbiamo costruire una strategia di rottura con il sistema di dominio. Per fare questo abbiamo bisogno di organizzare, in tutte le sfere della vita sociale una trasformazione radicale. In questo senso la costruzione di una forza capace di autogestione sociale è indispensabile se vogliamo sconfiggere le classi dominanti, per difenderci dai meccanismi economici e dalle istituzioni che ci opprimono con le politiche securitarie nonchè rafforzando le gerarchie sociali di comando e obbedienza.
E’ necessario costruire e partecipare in tutto il mondo a organizzazioni di classe che si oppongono al neoliberismo, che lottano contro la precarizzazione e le forme di distruzione della vita sociale: non bastano improbabili riforme bensì occorre un ribaltamento della prospettiva di vita e di organizzazione sociale in nome della solidarietà, della partecipazione, della soggettività individuale e collettiva che è in costante conflitto con il sistema capitalistico.
Il comunismo anarchico è la prassi storica degli oppressi, che si traduce nella costruzione di un progetto sociale che propone il primato della autogestione a tutti i livelli della vita sociale: questo è il percorso che abbiamo scelto per costruire un mondo senza dominio, per costruire questo orizzonte di libertà e, come i martiri di Chicago, come i tanti compagni e le tante compagne che nella nostra storia hanno dedicato la loro vita a questo, ora spetta a noi trovare il modo di impegnarci e lottare per questa causa.
Qui ed ora.

sabato 29 aprile 2017

VELENI A NORD-EST

UN AMARO AMARCORD TRA I MIASMI INQUINANTI DEL NORD-EST , RICORDI DI UN'EPOCA IN CUI, FORSE, SI POTEVA ANCORA IMPEDIRE LA CATASTROFE AMBIENTALE, STRISCIANTE O DILAGANTE...














SI SCRIVE MITENI, SI LEGGE RIMAR

(Gianni Sartori)

Avvertenza: questo non è, assolutamente, un articolo di informazione sull'inquinamento da PFASS che sta impregnando le acque e i corpi del Veneto. Soltanto un necrologio, un amaro amarcord condito di qualche considerazione su come funziona il capitalismo, quello del nord-est in particolare. Per gli aspetti tecnici potete attingere alle puntuali denunce pubblicate da qualche anno a questa parte su Quaderni Vicentini. In tempi non sospetti, quando invece un noto quotidiano locale ignorava o minimizzava la grave situazione che si andava delineando.
Non è nemmeno un invito a intervenire per rimediare. Da tempo ho la convinzione che cercare di fermare il degrado ambientale sia quasi impossibile. Nel Veneto senza “quasi”. Qui la catastrofe è ormai completa, per quanto subdola e inavvertita. Il territorio veneto e ancor più quello vicentino (un'autentica “poltiglia urbana diffusa” da manuale) hanno raggiunto livelli di contaminazione e cementificazione tali che soltanto un'apocalisse di ampia portata potrebbe, forse, porvi rimedio. Ripristinando in parte quell'ordine naturale che oggi come oggi appare irrimediabilmente stravolto.

Prendiamo atto comunque che se pur molto tardivamente, la questione PFASS ha assunto rilevanza non solo locale ma anche regionale (vedi la richiesta di analizzare l'acqua “potabile” nelle scuole in provincia di Rovigo). Ma per quanto riguarda la “sfilata degli ipocriti” (i sindaci vicentini che hanno manifestato a Lonigo contro l'inquinamento da PFASS) direi che si commenta da sola. Dov'erano le istituzioni in tutti questi decenni (almeno 4, dagli anni settanta) mentre la RIMAR prima e la MITENI (cambia il nome, ma l'azienda fisicamente è sempre la stessa) poi versavano schifezze direttamente nelle nostre acque e indirettamente nel nostro sangue?
Solo una facile “profezia”. E' probabile che tra una decina d'anni altri sindaci sfileranno nel Basso Vicentino (magari, azzardo, in quel di Albettone, uno dei tratti più riempiti da scarti di fonderia e altre schifezze) per esprimere una tardiva e altrettanto ipocrita indignazione per l'inquinamento prodotto dai rifiuti tossici (metalli pesanti) ammucchiati a tonnellate sotto la A31.
Non dovendo preoccuparmi di fornire numeri e dati sull'inquinamento prodotto dalla exRimar, ora Miteni (ampiamente disponibili in rete), attingo a qualche ricordo personale*riesumando speranze e delusioni di quando, ormai 40 anni fa, forse si sarebbe ancora potuto arginare la marea tossica non più strisciante, ma ora dilagante.

Un accenno soltanto all'apprezzabile richiesta (per quanto simbolica e fuori tempo massimo, a mio avviso) avanzata da qualche oppositore di “parametri certi sulla soglia di inquinanti presenti nelle acque con cui si abbeverano gli animali e si irrigano i campi, così come è doveroso da parte del Governo dare una risposta immediata per fare fronte alla crisi che per ovvie ragioni rischia di precipitare su chi lavora di agricoltura, soprattutto considerando il fatto che l’inquinamento da Pfass ha contaminato anche la catena alimentare, come risulta da una serie di prime analisi effettuate dall’Istituto Superiore di Sanità in alcune zone del Veneto. Sia sul siero umano che su alcuni alimenti come uova e pesci emerge infatti la presenza di contaminazione, come abbiamo sottolineato in una risoluzione indirizzata al Governo a dicembre.”

Una presa di posizione modesta, scontata, ma sempre meglio che niente.
D'altra parte: l'avete voluto il capitalismo? E allora godetevelo, cazzo!

AMARCORD
Metà anni settanta. Qualche anno prima avevo (coerentemente o sconsideratamente...non l'ho ancora capito) rinunciato al posto statale da insegnante elementare, pur avendo vinto il concorso. La scelta (comunque sofferta per un giovane proletario figlio di proletari, con scarse alternative) veniva dopo aver scoperto che l'assunzione comportava un giuramento (allo Stato delle stragi? Mai!). Ero quindi tornato allo scaricamento e stivaggio di camion alla Domenichelli, in notturna, alternando con saltuari lavori da operaio (tra le altre, la Veneta-Piombo di Alte-Ceccato: tutta salute!).
Finendo poi inchiodato per qualche anno alla fresa, nel “retrobottega” di una microazienda artigiana con orari prolungati.
Fu durante un breve periodo di transizione di circa 20 giorni (transitavo da operaio in una microazienda a commesso in una libreria) che tornai a scaricare con una delle due o tre famigerate “cooperative” **di facchinaggio esistenti in città. Questo mi consentiva, paradossalmente, di staccare dal lavoro in orari decenti (tra le cinque e le sei di sera), mentre prima in genere finivo verso le 19,30-20. Una possibilità per frequentare Radio Vicenza, all'epoca gestita da amici e compagni di area libertaria, in particolare Rino Refosco e Rosy. Doveva essere la fine del 1976 , mi pare. Lo deduco dal fatto che quasi ogni sera qualcuno dedicava una canzone (in particolare “Ma chi ha detto che non c'è?” di Manfredi) al compagno Claudio Muraro da poco arrestato (nel 1976) e ancora detenuto a Vicenza, prima di finire nel “circuito dei camosci” delle carceri speciali (a Pianosa, mi pare).
Dalla radio veniva denunciata con ostinazione la recente scoperta che la RIMAR (“Ricerche-Marzotto”) scaricava fetide sostanze nelle acque correnti dell'Alto Vicentino. In particolare quelle della Poscola, un nome a cui ero sentimentalmente legato. Nasceva infatti dall'omonima grotta situata a Priabona, un “aperitivo” prima del Buso della Rana.
Denuncia dopo denuncia, non mancarono velati consigli di “lasciar perdere, non mettersi contro qualcuno troppo grande per voi...”. Se non vere e proprie minacce, quasi.
Tutto qui, per quanto mi riguarda. Tornai quindi ai miei soliti orari e le mie frequentazioni calarono sensibilmente (o forse per scazzi personali e comunque “avevo altro da fare”).

E pensare che in anni non sospetti avevo avuto anche modo di visitarla, la RIMAR intendo. Doveva essere verso la fine del 1967 o l'inizio del 1968, sicuramente prima del 19 aprile e della storica rivolta operaia (a cui, casualmente, mi capitò di assistere, ma ve lo racconto un'altra volta, magari per il 50°) con abbattimento della statua del feudatario locale.
Mi capitava allora di andare qualche pomeriggio a Valdagno in autostop per frequentare la piscina comunale aperta in periodo invernale. Un tardo pomeriggio stavo giusto rientrando a Vicenza quando un macchinone si fermò in risposta al mio pollice levato. Salgo e il signore dopo un po' si presenta. Era uno dei fratelli Marzotto, nientemeno. Evidentemente metteva in pratica i principi paternalistici su cui si fondava la dinastia.
Il clima doveva già aver cominciato a surriscaldarsi (quello sociale, non si parlava ancora dei cambiamenti climatici) perché il borghese che gentilmente si prestava a farmi da autista commentò alcuni recenti episodi di contestazione al consumismo sostenendo (vado a memoria, sono passati 50 anni) che per la “felicità” della gente era indispensabile che tutti potessero godere di auto, frigoriferi e lavatrici. Poi, caso mai, si poteva pensare...non ricordo a cosa, sinceramente.
Dato che non dovevo sembrare molto convinto di questo elogio della merce, mi propose una visita alla sua fabbrica d'avanguardia che sorgeva lungo il percorso. Fu così che mi affidò a un tecnico per una visita guidata della RIMAR. Poco convinto il tecnico, poco convinto anch'io che temevo di non trovare un altro passaggio prima di notte, la visita fu alquanto frettolosa e mi rimase soltanto la sensazione di un leggero bruciore alle mucose respiratorie. Per chi non è del posto, segnalo che la già denominata Rimar oggi si chiama Miteni, dopo aver cambiato due-tre volte nome, consiglio di amministrazione e in parte proprietà.
Tutto qui.Ricordo solo che un'altra volta presi un passaggio dall'altro Marzotto, il fratello in politica nel PLI. Evidentemente ci tenevano a mostrarsi generosi con le masse popolari appiedate.
Ma dopo il 19 aprile le cose cambiarono, evidentemente e non mi capitò più l'onore di un autista chiamato Marzotto. In compenso, nel febbraio 1969 (all'epoca dell'occupazione della fabbrica) tornai a Vicenza con la grandissima compagna, partigiana e giornalista dell'Unità, Tina Merlin (ma questa è un'altra storia).

Gianni Sartori

* nota 1: “Preserva i tuoi ricordi, è tutto quello che ti resta” P. Simon (cito a memoria)

** nota 2 : “famigerate” perché, come scoprii a mie spese, oltre a praticare una forma mascherata di caporalato, non versavano mai alcun contributo, nonostante richiedessero la consegna del libretto di lavoro. Perché? In caso di incidente potevano sempre dire di averti assunto proprio quel giorno e di non aver ancora compilato le “carte”.
Una nota polemica anche per alcuni “compagni”. Ricordo benissimo che per gli amici di Potere Operaio la mia scelta era stata classificata da “lumpenproletariat”. Detto da loro, di estrazione medio e piccolo-borghese pareva un complimento. Questo nella prima metà degli anni settanta. Dopo, nella seconda metà dei settanta, quando erano già diventati quelli di AutOp, le cose cambiarono con la scoperta dell'”operaio sociale”. Addirittura a Scienze Politiche di Padova si organizzarono corsi e seminari sulle cooperative di facchinaggio. Ma non ne ricordo uno che fosse uno di costoro (devo far nomi?) che sia venuto una sola volta a scaricare camion. Avevo invece condiviso spesso tali attività ricreative con il già citato compagno anarchico Claudio Muraro (fratello della filosofa Luisa Muraro, quella dell'Erba Voglio e della Signora del gioco) sia alla Domenichelli che alla Olimpico-traslochi. 

 RIPRESO da http://www.anarkismo.net/article/30209

APPARSO anche su  http://www.ilpopoloveneto.it/rubriche/finis-terrae/2017/04/27/38191-si-scrive-miteni-si-legge-rimar

venerdì 28 aprile 2017

Brexit dura o mite? Il caso dell’Irlanda
















Sabato 29 aprile, si riunirà il Consiglio Europeo straordinario a 27 membri (art.50) per discutere gli orientamenti per i negoziati sulla Brexit.
Inizia un travagliato percorso che potrebbe avere serie ripercussioni non solo sul Regno Unito, ma anche su altri paesi ad esso fortemente correlati da interessi economici.
Uno di questi è sicuramente l’Irlanda.
La strategia del burro

Nel 1962, Tony O’Reilly, presidente della Camera del Commercio irlandese ebbe un’idea che avrebbe trasformato l’economia irlandese.
Quella di creare un marchio per il burro irlandese con cui invadere il mercato britannico.
Venne così creato il marchio Kerry-gold ed il burro veniva venduto in piccoli panetti, confezionati in modo tale da poter essere ispezionati dai consumatori per accertarsi della bontà del prodotto.
Altri prodotti irlandesi da esportazione presero esempio dal burro della Kerry-gold, tanto da  mutare la percezione delle possibilità del mondo degli affari irlandese.
Ruggito e raucedine della Tigre Celtica

Mezzo secolo dopo, l’Irlanda si era trasformata in un hub del commercio globale.
Quasi il 90% delle sue esportazioni è nelle mani di mulitinazionali, di cui la maggior parte sono giganti americani come l’Intel (che produce componenti per i computer) e la Pfizer (che produce farmaci). Per non parlare della Apple e della multa di 13 mld di euro che la UE ha comminato all’Irlanda [che ha fatto ricorso per violazione della “sovranità nazionale”]  per aver concesso un trattamento fiscale privilegiato alla multinazionale americana.
Ma ci sono anche industrie locali, come appunto il Kerry Group.
L’economia irlandese è sostanzialmente fondata sul dualismo tra una componente “moderna” a capitale intensivo, nelle mani dei finanziamenti esteri (USA in primis), ed una componente “tradizionale” basata sulla produzione intensiva -ad alta occupazione- di prodotti alimentari, che ancora insistono sul mercato britannico.
La Brexit potrebbe influenzare in modo del tutto opposto queste due componenti.
Per decenni l’Irlanda si è proposta ai capitali delle multinazionali come il punto d’ingresso di lingua inglese per il mercato unico europeo, potendo offrire condizioni fiscali molto favorevoli.
Ora la Brexit potrebbe rafforzare questo ruolo della ex-Tigre Celtica.
Infatti, l’IDA (Agenzia di Stato per lo Sviluppo irlandese) segnala le preoccupazioni di istituti bancari e  compagnie di assicurazioni  sul fatto che le loro filiali a Londra possano perdere il diritto a vendere servizi finanziari negli altri paesi della UE e stanno quindi considerando un ritiro dall’UK ed un  ritorno in Irlanda, all’ombra di vantaggiose condizioni fiscali.
D’altra parte molte imprese del settore tecnologico hanno scelto l’Irlanda come loro sede centrale.
Ad esempio, Linkedin, sito di una rete a carattere professionale, ha ora uffici che occupano 1500 persone, mentre nel 2010 ne occupava solo…3!
E non mancano le imprese cinesi: la Huawei, che opera nelle telecomunicazioni, ha in Irlanda ben 3 centri.
Naturalmente a scapito dell’industria nazionale irlandese.
I timori per un “cliff-edge”
Quando la Kerrygold decollò negli anni ’60, quasi i 3/4 delle esportazioni di merci irlandesi andava nel Regno Unito.
Ora si parla del 13%, che sale al 17% se si considerano i servizi alle imprese.
Secondo alcuni analisti del Trinity College di Dublino, la quota di export irlandese verso l’UK sarebbe intorno ad 1/4 del totale.
Se nella globale catena di distribuzione di prodotti tecnologici, l’Irlanda costituisce solo una piccola frazione del valore aggiunto alle esportazioni che partono dall’isola verde, è invece alto il valore delle esportazioni di prodotti alimentari verso l’UK.
Metà delle industrie agro-alimentari irlandesi esportano verso il Regno Unito e si troverebbero in grave difficoltà se la Brexit portasse a dazi del 60% sulle importazioni in caso di applicazione
del temuto “cliff-edge” (bordo della scogliera),
che riporterebbe le regole di scambio a quelle stabilite dal WTO (World Trade Organization).
Non solo, l’Irlanda conta sul Regno Unito come terra-di-ponte per il trasporto dei suoi prodotti sul continente, abbattendo così i tremendi costi dei trasporti su gomma.
C’è anche sa dire che un quarto delle importazioni irlandesi proviene dall’UK, soprattutto le catene dei supermercati che sono di proprietà britannica.
Dunque la Brexit potrebbe avere effetti devastanti per l’industria agro-alimentare irlandese, che occupa manodopera irlandese; invece potrebbe avere effetti relativi e persino positivi sugli investimenti dall’estero soprattutto nelle grandi città come Dublino.
Dalla crisi del 2009 ad un nuovo ruolo post-Brexit?

Nel 2009 l’Irlanda era un paese devastato dalla crisi finanziaria: una recessione al -7,5%; un tasso di disoccupazione al 13,8% nel 2009 (12,5% nel marzo 2010); deflazione al 6,5% nello stesso 2009; un aumento del deficit pubblico da 33,6 miliardi di euro a 40,46 miliardi di euro,  contenuto da un rapporto debito-PIL del 63,7%, dato il già livello basso pre-crisi.
In cambio dell’aiuto di 70 mld di euro di UE e FMI nel 2014, lo Stato si era impegnato a tagliare la spesa pubblica per una quota da primato, tra il 15% e il 20% entro il 2014, scaraventando milioni di lavoratori e cittadini che si trovavano nelle fasce più disagiate della società, in una politica di austerità da lacrime e sangue.
L’Irlanda di oggi, con una crescita del PIL del 7,8 % nel 2015  ed una ripresa degli investimenti, punta ad una Brexit mitigata.
Mantiene le precedenti politiche opportunistiche mirate al reperimento di ingenti capitali esteri e ad una forte e rapida crescita in poco tempo, usando al solito la leva fiscale e le facilitazioni bancarie come forte elemento di attrazione.
Del resto Dublino è sempre stata più un complemento della City di Londra, piuttosto che una rivale, tanto da beneficiare dello status di quest’ultima.
Una Brexit mitigata, che lasciasse i dazi attuali per un certo periodo di tempo, darebbe anche il tempo alle imprese agro-alimentari irlandesi di ri-orientare il loro export verso altri mercati europei.
Compito non facile: come nel caso del burro Kerrygold, l’Irlanda dovrebbe nel breve futuro inventarsi un marchio per le sue carni, oppure francesizzare il suo formaggio Cheddar!!


Ufficio Studi Alternativa Libertaria/fdca
(cfr. The Economist, IDA, Trinity College of Dublin, Institute of International and European Affairs, Il Sole24Ore et cetera ….)

martedì 25 aprile 2017

25 aprile 2017: per sempre in lotta - per sempre in resistenza


25 aprile 2017: per sempre in lotta - per sempre in resistenza
Alternativa Libertaria/fdca aderisce, promuove e partecipa alle manifestazioni nelle città in cui è presente
Antifascisti, perché nel ricordo di coloro che morirono sui monti per combattere il regime nazi-fascista, continuiamo la loro lotta oggi.
Antifascisti perché il fascismo si nasconde dietro il capitalismo più sfrenato, nelle barbarie dei morti sul lavoro, nella repressione sistematica di chi lotta per maggiori diritti e per la libertà, nell'omologazione di massa attraverso il consumo estremo e folle che rende ciechi di fronte ai bisogni e svuota le coscienze.
Il fascismo sono le politiche sulla sicurezza, basate su paure false indotte dai mass-media servi del potere e sulla crisi economica reale, che hanno trovato negli immigrati il capro espiatorio di tutti i mali della società.
Il fascismo oggi ha il viso di un imprenditore senza scrupoli, di giovani esaltati che vorrebbero riaprire i campi di sterminio per immigrati, di una telecamera in piazza che controlla ogni passo sospetto, di una discarica abusiva dietro un asilo nido.
Il fascismo è un governo totalitario schiavo del capitale e della chiesa che considera i morti tutti uguali tra fascisti e anti-fascisti, che fa della storia della gente carta straccia.
Il fascismo è l'incubo nascosto nei movimenti populisti, sovranisti e protezionisti che vorrebbero impadronirsi dell'Europa.

Il fascismo si combatte nelle piazze, con l'azione diretta, con la conquista maggiore di nuove libertà, con l'autogestione e con l'organizzazione dal basso.
Il fascismo non si sconfigge tra le poltrone di un governo o di una sala del consiglio comunale ma con l'assaporare il gusto della libertà in ogni attimo della vita.
Alternativa Libertaria/fdca
aprile 2017

lunedì 17 aprile 2017

TRUMP E LA «MADRE DI TUTTE LE BOMBE» di Pier Francesco Zarcone


Il lancio in Afghanistan di uno dei più devastanti ordigni non nucleari non vale per il suo immediato esito tattico sul campo di battaglia: se è vero che ha causato la morte di circa 36 o 94 miliziani dell'Isis (secondo l'Isis, invece, non ci sarebbero state vittime), allora questo risultato mal si concilia con la spesa di ben 14,6 milioni di dollari, perché tanto costa una bomba GBU-43 Massive Ordnance Air Blast (MOAB), creativamente definita dai militari "Madre di tutte le bombe", anche in base alle lettere del suo acronimo (pare che la Russia disponga di un ordigno similare detto "Padre di tutte le bombe", di potenza quattro volte superiore). A questa spesa bisogna aggiungere quella a suo tempo sostenuta dai contribuenti statunitensi per la costruzione dei tunnel da poco bombardati. Secondo l'ex analista Edward Snowden si tratterebbe infatti delle gallerie sotterranee fatte costruire dalla Cia nel 1980 - all'inizio del conflitto afghano scoppiato in seguito all'invasione sovietica - per proteggere i mujahidin islamisti.
Poiché abbiamo detto e ripetuto che il diritto internazionale oggettivo non esiste più, sostituito dal diritto internazionale soggettivo creato dagli Usa a proprio uso e consumo, non desti meraviglia il fatto che l'uso della MOAB sul territorio di uno Stato formalmente sovrano sia avvenuto su semplice comunicazione al governo afghano, e non già in base al consenso previo di questo.
La MOAB è un ordigno terrificante, pur non generando radiazioni, e il suo utilizzo costituisce il pericoloso e incosciente avvicinarsi al confine dell'abisso. Per ora si tratta di un ulteriore palese messaggio da parte di chi poco tempo fa era stato erroneamente considerato un isolazionista, da contrapporre alla guerrafondaia Hillary Clinton. Un errore di prospettiva notevole, bisogna ammetterlo.
I destinatari minori del messaggio - per il terrore generato da questa super bomba - sono gli afghani che appoggiano Isis e Talebani, o che ne fanno parte. Si dice che le esibizioni muscolari di questo emulo della Sfida all'O.K. Corral manifestino una carenza di strategia. Sarà, ma riflettendo si può dissentire. Non si vogliono certo smentire gli addetti ai lavori, secondo i quali alla Casa Bianca le decisioni sono prese e variano di ora in ora. Semmai sosteniamo che al di là di ciò esiste una strategia definibile come il ritorno in grande e a tutto campo dell'imperialismo statunitense guerrafondaio e del suo autarchico ruolo di gendarme del mondo. Non ci si deve fermare al fatto che nel caso di Trump (soggettivamente assunto) - personaggio psichicamente instabile e, se possibile, meno colto di George W. Bush - risulti in primo piano il "menare le mani" senza apparente coordinazione, ma si deve fare attenzione alle coincidenze non casuali: il lancio della MOAB è avvenuto lo stesso giorno in cui a Mosca si apriva un vertice fra Russia, Cina e Iran per cercare una soluzione politica alla quasi ventennale guerra in Afghanistan. È come se Trump avesse affermato, per fatti conseguenti, il suo "no" a una pace russo-cino-iraniana.
Trump può avere uno stile da cowboy, ma sul piano delle conseguenze esso corrisponde agli interessi e agli scopi del complesso militar-industriale e dell'establishment guerrafondaio e imperialistico degli Usa, di cui molti sostengono che Trump sia finito "prigioniero". Comunque sia, sembra proprio che in atto la politica estera statunitense venga diretta più dai militari che dai politici a essa preposti. Paradossalmente pare che la caduta del reazionario Steve Bannon abbia facilitato questo risultato, poiché Bannon era contrario a interventi militari all'estero, preferendo concentrarsi sulle questioni interne.
A proposito dell'attuale bellicismo di Trump, sembra davvero che esso abbia fatto tirare il classico sospiro di sollievo ai suoi "democratici" alleati occidentali, che tante lacrime avevano versato per la sconfitta di quell'altro impresentabile personaggio rispondente al nome di Hillary Clinton. Oggi c'è stata una palese metamorfosi nella considerazione occidentale per Trump: da populista, xenofobo, razzista, maschilista, ignorante ecc. ecc. è diventato il rispettato difensore del "mondo libero", dinanzi al quale i governi occidentali - come da costume - si sono "appecoronati" acriticamente e autolesionisticamente.
Altri e non secondari destinatari del messaggio di Trump sono certamente i Nordcoreani, e qui il discorso si fa di estrema delicatezza. Il neo-presidente Usa si sta comportando come se fosse sicuro che la metaforica corda da lui tirata con vigore su vari fronti non si spezzerà, e che quindi il colosso statunitense rimarrà impunito. Si tratta di un presupposto pericoloso tutto da verificare, poiché nella storia non mancano affatto i casi di ragionamenti del genere che poi hanno dato luogo a guerre non volute, ma catastrofiche per vincitori e vinti. Al riguardo la cosa più preoccupante non è certo la diffusa passività dell'opinione pubblica internazionale di fronte alle gesta di un palese incompetente che potrebbe far piangere lacrime di sangue al mondo. Intendiamoci: non è che la vasta mobilitazione pacifista mondiale concretizzatasi con la Prima guerra del Golfo sia servita a qualcosa; a preoccupare davvero è la sostanziale acquiescenza planetaria da parte di un gran numero di governi, a parte il solito terzetto di Cina, Russia e Iran. Essendo il leader nordcoreano Kim Jong-un un degno contraltare di Trump, è naturale che il governo cinese (e non solo esso) manifesti preoccupazione per l'improvviso scoppio di un conflitto che appare tutt'altro che improbabile.
Animati da un complesso alla dottor Stranamore, gli ambienti militari Usa parlano di usare contro la Corea del Nord una bomba ancor più potente della MOAB: si tratterebbe della GBU-57A/B Massive Ordnance Penetrator (MOP). Se la MOAB ha il peso di 9,5 tonnellate e scoppia a 6 metri di quota, distruggendo tutto nel raggio di 800 metri circa, la MOP pesa 13,6 tonnellate, è stata progettata per penetrare anche in bunker sotterranei protetti da vari metri di cemento e riuscirebbe a sfondare fino a 100 metri di terreno o 20 metri di cemento armato, per poi esplodere. Gli esperti dicono che la MOP abbia il difetto di non possedere un sensore che - una volta penetrati gli strati protettivi di un bunker - individui lo spazio sottostante in cui deflagrare, dimodoché potrebbe anche esplodere sotto il pavimento del bunker colpito, cioè al di sotto dell'obiettivo. Questo comunque è un dettaglio.
Può pure darsi che la costosa spedizione navale statunitense non dia luogo ad alcun attacco a basi nordcoreane, e che qualcuno convinca Trump a presentare al Consiglio di Sicurezza dell'Onu un inasprimento delle sanzioni alla Corea del Nord: in questo caso sarà interessante l'atteggiamento che adotterebbe la Cina (che gode del diritto di veto), poiché già un'astensione significherebbe un distanziarsi di Pechino da Pyongyang. Tuttavia non è detto che ammorbidirebbe Trump o Kim Jong-un. Resta però ignoto di quali strumenti disponga in effetti la Cina per condizionare eventualmente la Corea del Nord. Considerata la grande (e unica) protettrice di Pyongyang, non è detto che tale ruolo escluda l'autonomia decisionale nordcoreana. A complicare il tutto c'è il preoccupante dato geografico dell'essere la Corea del Nord confinante con la Cina. Siamo sicuri che di fronte a un attacco statunitense Pechino potrebbe restare inerte? Del resto alcuni commentatori sostengono che anche la Cina sia destinataria del messaggio implicito nell'uso della MOAB.
Certo è che Trump si sta mettendo a forte rischio di uno scontro militare con la Russia in Siria e con la Cina in Corea. E sempre che non faccia qualche corbelleria anche sul Baltico o in Ucraina.


Nella diffusione e/o ripubblicazione di questo articolo si prega di citare la fonte: www.utopiarossa.blogspot.com

martedì 11 aprile 2017

(Bielorussia) Libertà immediata per il nostro compagno Mikola Dziadok!



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Revolución Internacional / World Revolution

Mikola Dziadok è un giovane militante libertario, avvocato e scrittore che vive Bielorussia. Fa parte della alleanza "Revolución Internacional / World Revolution - Прамень 'Pramen'" con cui  collabora traducendo testi e saggi in russo e bielorusso sull'autogoverno, sui processi di comunità e sui movimenti sociali nel mondo. ma anche di storia, scienze sociali e pensiero critico, tematiche che dall'America Latina hanno suscitato l'interesse di molte organizzazioni e molti compagni in Europa.

Insieme a centinaia di persone, è stato arrestato e picchiato brutalmente il 25 marzo in una protesta di massa contro il regime di Aleksandr Lukashenko, "l'ultimo dittatore d'Europa" - che ha trascorso 24 anni al timone di uno Stato corrotto e assassino erede di una tradizione autoritaria post-sovietica. Lo hanno "sequestrato" ed è stato picchiato in un camion della polizia causandogli una commozione cerebrale che ha provocato un trauma clinico, tanto da rendere necessario il ricovero  urgente in ospedale.
Per quattro giorni in ospedale è stato sottoposto ad una continua sorveglianza della polizia, che gli ha impedito di ricevere visite da parenti e compagni. Dopo essere stato dimesso il 29 marzo, è stato immediatamente portato in tribunale presso la Corte Federale di Minsk.
Il suo processo è stato crivellato di irregolarità e assurdità. La corte ha mostrato un documento di polizia in cui si afferma che Mikola è stato arrestato un paio d'ore prima del processo, cioè sulla strada dall'ospedale in tribunale, invalidando i precedenti quattro giorni in cui era stato ricoverato.
La condanna a suo carico è stata di due settimane di carcere (una per aver partecipato a una "manifestazione non autorizzata" e un'altra per "resistenza all'arresto della polizia"), ma si prevede di aumentare il numero di giorni della pena a causa della sua militanza libertaria e della partecipazione a vari movimenti sociali.
Egli è un militante impegnato nell'elaborazione teorica e nell'azione di trasformazione radicale della società. Si è laureato come avvocato nella "Belarusian State University College" lavorando come agente giuridico per una società privata. Nel 2009 entra a far parte della "European Humanities University (Vilnius)" laureandosi in Scienze Politiche e Studi Europei.
Il 3 settembre 2010 venne stato arrestato con la falsa accusa costruita dallo Stato Bielorusso di "aver partecipato ad un attacco contro l'ambasciata russa," a cui è stata aggiunta un paio di giorni dopo l'accusa di "aver violentemente attaccato la sede della Federazione Sindacale". Entrambe le accuse non sono mai state sostenute da prove per dimostrare la sua partecipazione, mentre gran parte del movimento studentesco e della società bielorussa aveva costruito una campagna per la sua liberazione.
Ma, il 27 maggio 2011, venne "riconosciuto colpevole" e condannato a 5 anni di carcere. E' stato scarcerato il 22 agosto del 2015.

Da allora, si è dedicato a scrivere un libro sulla sua esperienza nelle prigioni federali, che ha presentato in varie università del paese facendo conoscere i processi di comunità noti principalmente in America Latina e in Asia.
FERMARE IL TERRORISMO DI STATO CONTRO CHI LOTTA PER L'AUTONOMIA E PER LA RIVOLUZIONE!

SOLIDARIETA' INTERNAZIONALE COL POPOLO BIELORUSSO IN LOTTA  E CON TUTTI GLI ARRESTATI NELLA GUERRA SOCIALE MONDIALE!

Pubblicato il 9 aprile 2017 su:

http://rupturacolectiva.com/libertad-inmediata-a-nuestr...adok/

(traduzione a cura di AL/fdca - Ufficio Relazioni Internazionali)

mercoledì 5 aprile 2017

LAGER Minniti

Il decreto numero 13 del 17 febbraio 2017 – recante “Disposizioni urgenti per l’accelerazione dei procedimenti in materia di protezione internazionale, nonché per il contrasto dell’immigrazione illegale” prevede l’apertura dei Cie (ex Cpt), rinominati in Cpr (Centri di permanenza per il rimpatrio), in tutte le regioni.
CIE, i lager italiani del XXI secolo
Istituiti con l’articolo 12 della legge n.40/1998 e divenuti Cie con il decreto legge n.92/2008 (“Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica”), i Centri sono stati da sempre sotto osservazione, contestazione e vigilanza militante per violenze e abusi, fino a essere considerati dei veri e propri lager come il “Regina Pacis” di Lecce, luoghi dove si violano sistematicamente i diritti umani, dove si alimenta il racket degli appalti.
Dopo l’inizio della guerra in Libia (decreto Maroni del 2011), c’era stato un superamento dei Cie con la costituzione dei Cas, e successivamente degli hotspot (centri di identificazione in cui la polizia italiana sarà coadiuvata da funzionari delle agenzie europee Europol, Eurojust, Frontex ed Easo). Strutture contro cui si sono levate denunce per violazioni dei diritti umani, violenze e abusi. A Bologna è prevista la riapertura del Centro di Via Mattei, un luogo da orrori quotidiani, dove le persone vittime della Legge Bossi-Fini venivano private della libertà e della dignità, punite anche con violenze e abusi polizieschi per un reato che non hanno commesso.
La condizione di reclusione senza colpa degli immigrati subisce, nel decreto Minniti, un’ulteriore peggioramento impedendo ai richiedenti asilo di ricorrere in appello – ma solo direttamente in Cassazione – e saranno istituite sezioni specializzate nei tribunali. Una scelta indubbiamente discriminatoria sul piano delle garanzie.
Comportati bene se no ti butto fuori dalla città
Ma, insieme al decreto numero 13 del 17 febbraio 2017 è in discussione in Parlamento anche un secondo decreto, il numero 14 del 20 febbraio 2017, su “Disposizioni urgenti in materia di sicurezza delle città”. Esso stabilisce, tra le altre norme, che possano essere allontanate per la “tutela ed il decoro di particolari luoghi” persone la cui “colpa” potrebbe essere il non avere una fissa dimora, introducendo una sorta di mini-Daspo urbano, rinforzando i poteri dei sindaci in tema di ordine pubblico. Un provvedimento, che prima ancora di essere convertito in legge, viene già applicato in termini repressivi come nel caso dei fogli di via comminati a decine di manifestanti di Eurostop dopo la manifestazione del 25 marzo, oppure quasi anticipato dal sindaco di Roma, che ha annunciato un nuovo regolamento comunale con divieti e multe per chi rovista nei cassonetti.
La fusione tra i due decreti crea un mix che andrà a colpire poveri e persone ai margini della società, operando una vera e propria criminalizzazione degli ultimi e di chi ne difende i diritti.
E’ necessaria la mobilitazione delle tante associazioni che operano in questo campo, delle organizzazioni sindacali e di tutta l’opposizione sociale e politica a leggi discriminatorie e repressive come queste per arginare una pericolosa sottrazione di diritti insieme ad una repressione per via amministrativa finalizzata alla distruzione delle libertà e delle garanzie ancora vigenti.
Alternativa Libertaria/fdca
6 aprile 2017

No Global?






















Cosa ne è della globalizzazione contro cui abbiamo manifestato e lottato per più di 20 anni?
E quali basi reali ha l’attuale atteggiamento no-global che caratterizza la destra sovranista? Ma anche certa sinistra nazionalista?
Bisogna ficcare il naso nel business internazionale per capirci qualcosa.
1. La sbornia della globalizzazione
Per esempio nel caso della globalizzazione alimentare, sia i detrattori che i sostenitori considerano aziende multinazionali quelle che realizzano oltre il 30% delle loro vendite al di fuori del loro paese/regione, quelle che predano l’ecosistema modificandolo, quelle che dirigono il flusso di merci, servizi e capitali che tengono in vita la globalizzazione.
E sebbene queste multinazionali occupino solo il 2% della forza-lavoro mondiale, esse posseggono o manovrano tutte le supply chains che occupano oltre il 50% della forza-lavoro mondiale; inoltre il valore prodotto è pari al 40% del mercato merci occidentali; infine posseggono la maggior parte delle proprietà intellettuali a livello mondiale.
Ma qualcosa sta succedendo: la Yum che controlla la Kentucky Fried Chicken (pollo fritto) ha registrato nel 2012 un crollo del 20% dei suoi profitti all’estero ed ha gettato la spugna sul mercato cinese, spacchettando il suo business.
L’8 gennaio 2017 la MacDonald ha venduto ad un’azienda di stato cinese la maggioranza delle azioni delle sue aziende.
Se pensiamo alla (immeritata) fortuna che ebbe 25 anni fa il libro di Francis Fukuyama sulla fine della storia e la nascita di una democrazia mondiale in cui il capitalismo avrebbe avuto un ruolo di svolta, non dobbiamo dimenticare che già all’epoca la Shell, la Coca-Cola e Unilever si muovevano a livello globale, seppure come aziende libere con alle spalle un business nazionale.
Ma in questi 25 anni le nuove multinazionali son davvero diventate globali, ossessionate dai dati sui consumatori, sulla produzione, sulla gestione manageriale.
Bisognava globalizzarsi verticalmente, ricollocando la produzione e l’approviggionamento di materie prime, oppure orizzontalmente semplicemente andando a vendere sui nuovi mercati?
Comunque sia è stata un’ondata inarrestabile di acquisizioni di aziende rivali, di campagne pubblicitarie e di apertura di fabbriche dove conveniva.
Ben l’85% degli investimenti globali è stato creato dopo il 1990.
Come dicevano gli attivisti no-global nel 1999 a Seattle: le imprese integrate a livello globale funzionano come un’organizzazione unitaria piuttosto che come una federazione, oltrepasseranno ogni confine nazionale per perseguire l’integrazione della produzione e del valore prodotto a livello mondiale.
Curiosamente all’epoca la Warren Buffett preferì restare un monopolio in casa sua.
Nel 2016 gli investimenti delle imprese globali sono scesi del 10-15% mentre è dal 2007 che vi è una stagnazione sul mercato delle supply chains.
2. Quelli erano giorni sì…
Tre sono stati gli attori in campo nei quasi 25 anni di globalizzazione:
– gli investitori (mercati finanziari, banche, fondi-pensione, hedge-funds, operatori di Borsa, agenzie di transazioni internazionali, camere di compensazione, e tanto altro ancora…);
– i paesi-madre in cui hanno sede le multinazionali;
– i paesi ospiti che hanno ricevuto gli investimenti delle multinazionali;
tutti e tre convinti -per ragioni differenti- che la globalizzazione delle aziende avrebbe portato a risultati finanziari ed economici più alti.
Per gli investitori si trattava di trarre enormi profitti da un’economia di scala.
Mano a mano che la Cina, l’India e l’ex-URSS si aprivano e con la liberalizzazione del mercato europeo, le imprese potevano vendere lo stesso prodotto ad un maggior numero di consumatori.
Con l’integrazione globale le imprese erano in grado di armonizzare i vari segnali provenienti da varie parti del mondo, un gigantesco comprare e vendere contemporaneamente sui diversi mercati che avrebbe dovuto dare efficienza al sistema
Le imprese si sono avvalse delle competenze gestionali, dei capitali, dei marchi e della tecnologia accumulata nella parte ricca del pianeta.
Dai paesi emergenti hanno potuto ottenere forza-lavoro a buon mercato, materie prime ed una legislazione favorevole sull’inquinamento.
Per gli investitori, tutto questo significava che avrebbe reso i profitti più alti e più veloci.
Per i paesi-madre delle grandi multinazionali una spinta costante alla competizione per ottenere benefici domestici.
Nel 2007, alle multinazionali attive negli USA che coprivano il 19% dell’occupazione privata, va imputato il 25% dei salari, il 48% dell’export ed il 74% della ricerca e dello sviluppo. [fonte McKinsey, società internazionale di consulenza)
Ed è stato così per un bel pezzo.
3. C’è chi scende….
Eppure negli ultimi 5 anni le prime 700 multinazionali con sede nei paesi ricchi sono calate del 25% (fonte FTSE), mentre nel mercato domestico i profitti sono saliti del 2%.
Alla debolezza di alcune monete rispetto al dollaro, viene attribuito un peso relativo (1/3) nel calo dei profitti.
Un altro dato per misurare i profitti esteri delle multinazionali proviene dalle statistiche globali delle bilance dei pagamenti [« uno schema contabile che registra le transazioni tra i residenti in un’economia e i non residenti, in un dato periodo di tempo. Una transazione è un’interazione tra due entità istituzionali che avviene per mutuo consenso o per legge e comporta, tipicamente, uno scambio di valori (beni, servizi, diritti, attività finanziarie) o, in alcuni casi, il loro trasferimento senza contropartita.» (Banca d’Italia, Manuale della bilancia dei pagamenti e della posizione patrimoniale sull’estero dell’Italia, pag. 8)].
Per le imprese che hanno sede in paesi membri dell’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico), i profitti esteri medi sono calati del 17% negli ultimi 5 anni.
Per le imprese statunitensi il calo si è fermato al 12%, grazie al settore hi-tech che tirava. Per le imprese non-americane, il calo è stato del 20%.

4. Il ROE

Un altro indicatore fondamentale per rapportare i profitti ai capitali investiti è il ROE (Return On Equity- indice di redditività del capitale proprio. Esprime, in massima sintesi, i risultati economici dell’azienda).
Non è la prima volta che facciamo ricorso a questo indicatore nelle nostre analisi e sulla nostra stampa.
Ebbene il ROE di quelle famose 700 grandi imprese sarebbe calato in 10 anni dal 18% all’11%.
Per i 3 paesi che hanno le sedi delle più grandi multinazionali (USA, UK, Olanda), il ROE sugli investimenti esteri è calato dal 4 all’8%.
La tendenza è simile per gli altri paesi membri dell’OCSE (fonte da grafico di The Economist: appena sopra il 5% OCSE insieme all’Olanda, mentre UK è sotto il 5% e gli USA sotto il 10%)
Le imprese con sede nei paesi emergenti, che incidono per 1/7 sull’attività globale delle imprese multinazionali, registrano un ROE all’8%.
La cinese Lenovo che aveva comprato la parte commerciale della IBM e parte di Motorola ha subito flop finanziari.
Nel 2012 l’azienda di stato cinese CNOOC aveva acquistato la canadese Nexen, produttrice di petrolio, da cui intende ora ritirarsi.
Come spiegare il deterioramento del ROE nelle multinazionali negli ultimi 5-10 anni?
Un paio di ragioni vanno individuate nel crollo del prezzo delle materie prime e del petrolio (specialmente per le imprese energetiche).
Poi ci sono le banche e le batoste prese dalle imprese che forniscono servizi cruciali per la globalizzazione.
Ad esempio, hanno perso il 50% imprese di trasporto marittimo come la danese Maersk, imprese di transazioni internazionali come la cinese Mitsui, imprese di servizi alla catena di distribuzione per i dettaglianti come la cinese Li&Fung.
Ma il contagio è ovunque: metà delle grandi multinazionali hanno visto negli ultimi 3 anni un calo progressivo del ROE; il 40% di esse non tocca il 10%, e, attenzione: il ROE è utilizzato come indicatore per monitorare la capacità di un’impresa di creare un valore degno di considerazione.
Non se la passano bene nemmeno giganti come la Unilever, la General Electric, la Pepsi-Co e Procter&Gamble, in calo di 1/4 dei loro profitti più alti.
5. C’è chi sale….Chi se la passa bene sono i giganti della tecnologia.
I loro profitti coprono il 46% delle prime 50 multinazionali americane: il 17% in più rispetto a 10 anni fa.
La Apple ha fatturato $46 mld…nel 2016, 5 volte di più della General Electric.
Ma questi dati, come i precedenti, sembrano indicare che non vi è più una spinta espansiva negli investimenti e nei rendimenti.
Le vendite all’estero crescono più lentamente di quelle sui mercati nazionali.
In diversi settori globali (industria, consumi ciclici, finanza, componentistica di base. media&comunicazione,…) il ROE delle imprese locali è in crescita contro il calo delle multinazionali.
6. A chi dare la colpa?
I capitalisti se la prendono con i movimenti valutari, col collasso del Venezuela, con la depressione in UE, con la stretta sulla corruzione in Cina e via dicendo.
In realtà i vantaggi che erano stati creati con una una gigantesca economia di scala e con il poter comprare e vendere contemporaneamente su diversi mercati speculando sui prezzi stanno svanendo.
Le imprese globali sono diventate ardue da gestire a causa delle ingenti spese generali di funzionamento e dell’impatto delle complesse catene di rifornimento sul capitale.
Anche le opportunità offerte dai trattati internazionali sono sempre più logore: aumentano i salari in Cina (dure lotte, ma anche nuova politica a sostegno della domanda interna da parte del PCC), toccato il fondo del barile per i vantaggi fiscali offerti dai paesi ospiti.
7. Casa, dolce casa
Intanto le imprese concentrate sul mercato domestico si fanno vincenti.
In Brasile, due banche locali, la Itau e la Bradesco hanno scalzato grandi banche mondiali; in India, la Vodafone e la multinazionale indiana Bharti Airtel (attiva in 20 paesi) stanno perdendo utenze a vantaggio di Reliance, un’impresa locale.
In USA, le imprese locali del petrolio da scisto sono tornate ad essere competitive rispetto alle grandi majors del petrolio.
In Cina, le imprese locali che producono gnocchi si stanno mangiando il mercato della KFC (la più famosa catena di ristorazione statunitense specializzata in pollo fritto).
Globalmente, la quota dei profitti globali delle multinazionali sarebbe passata negli ultimi 10 anni dal 35% al 30%.
8. Nell’era della crisi finanziaria
Questi anni di crisi cambiano la percezione sulle multinazionali nei paesi-madre: vengono viste come un fattore di iniquità.
Hanno creato posti di lavoro all’estero, ma non in patria, dove cresce la disoccupazione.
Negli USA, tra il 2009 ed il 2013, solo il 5% di nuovi posti di lavoro (400.000) viene creato dalle multinazionali statunitensi.
La crisi ha portato ad uno sfilacciamento dell’ordito di regole costruite per sostenere la globalizzazione: dalla contabilità globale all’antitrust, dal riciclaggio di denaro alle regole sui capitali bancari.
Le acquisizioni di imprese occidentali vengono sottoposte a vincoli dai governi nazionali per salvaguardare i posti di lavoro e gli impianti.
I trattati internazionali come il TPP ed il TTIP sono falliti.
Gli stessi tribunali internazionali istituiti dalle multinazionali per aggirare i tribunali nazionali sono oggi sotto attacco.
9. Protezionismo e paradisi fiscali
Tuttavia la globalizzazione ha ormai radici così profonde che eventuali politiche protezionistiche ricorrendo a dazi sulle importazioni per favorire le imprese nazionali potrebbero non funzionare come al tempo che fu.
Oltre la metà delle esportazioni globali, in termini di valore, oltrepassa un confine almeno due volte prima di giungere ai consumatori, per cui una politica protezionistica risulterebbe dannosa.
Altrimenti si ricorre al fisco ed alle politiche muscolari dei vecchi tempi.
Una multinazionale-tipo dispone di almeno 500 entità legali, frequentemente domiciliate in paradisi fiscali.
Essa negli USA pagherebbe circa il 10% di tasse per i suoi profitti esteri.
La UE sta cercando di andare oltre.
Ha usato la mano pesante con il Lussemburgo che offriva accordi vantaggiosi alle multinazionali per indurle a parcheggiarvi i loro profitti; ha colpito la Apple con una sanzione di $15 mld per aver violato le regole sugli aiuti di Stato facendo profitti in Irlanda, dove si era procurata un accordo fiscale su misura.
Gli USA, da parte loro, hanno impedito alle grandi imprese di ricorrere alla “inversione” legale che consente di spostare la loro base imponibile all’estero: vedi il caso del colosso farmaceutico Pfizer.
Nel Congresso degli Stati Uniti, i repubblicani hanno proposto una revisione del sistema fiscale che permetterebbe alle imprese esportatrici che riportano i loro profitti in patria di godere di agevolazioni fiscali, mentre verrebbero penalizzate le imprese che spostano la produzione all’estero.
Lo scorso 3 gennaio 2017, la Ford ha cancellato la costruzione di una nuova fabbrica in Messico per investire di più in patria.
Il presidente Trump sta facendo pressioni sulla Apple perchè porti in patria la gran parte della sua catena di distribuzione.
Se questa dovesse divenire una tendenza consistente e continua, i costi fiscali ed il costo del lavoro delle imprese globali porterebbero ad una contrazione dei profitti.
E’ stato calcolato che se le multinazionali americane spostassero un quarto dell’occupazione estera in patria, retribuita con i livelli salariali americani, e pagassero le tasse in patria invece che all’estero, ci sarebbe un crollo del 12% dei loro profitti, escluse le spese per eventuali nuove fabbriche in USA.
10. E i paesi ospiti?
Chi sembra essere ancora entusiasta della globalizzazione sarebbero i cosiddetti “paesi ospiti”, che ricevono gli investimenti delle multinazionali in cambio di politiche fiscali, occupazionali ed ambientali favorevoli, ancorchè antiproletarie.
La Cina si dice preoccupata di un ritorno alle economie nazionali; e sì che nel 2010 il 30% della sua produzione industriale ed il 50% delle esportazioni derivava da filiali o da joint-ventures delle multinazionali.
Il Messico ha venduto le sue azioni petrolifere ad imprese estere come la ExxonMobil e la Total.
L’Argentina vuole attirare imprese straniere per uscire dall’ennesima crisi.
L’India ha lanciato la campagna “fallo in India” per attirare le catene di distribuzione multinazionali. Secondo un monitoraggio dell’OCSE sul grado di apertura dei “paesi ospiti”, non vi è stato alcun deterioramento dagli inizi della crisi finanziaria.
Tuttavia ci sono nuvole in arrivo.
La Cina ha operato un giro di vite sulle imprese estere per promuovere “l’innovazione indigena”.
I padroni cinesi vogliono che aumentino i prodotti di provenienza locale e che la proprietà intellettuale resti a livello locale.
Industrie strategiche come internet sono intedette agli investimenti esteri.
Si teme che se l’atteggiamento della Cina diventa contagioso, le imprese multinazionali sarebbero costrette ad investire di più in patria creando posti di lavoro.
Un effetto speculare alle pressioni politiche in atto.
11. Cambiamenti nei paesi ospiti
Il malumore dei paesi ospiti verso le multinazionali è cresciuto.
Il fattore scatenante sembra essere lo spostamento dell’attività delle multinazionali verso i cosiddetti “servizi intangibili” (proprietà intellettuale, tecnologia, finanza, brevetti sui farmaci).
Attualmente è da questi servizi che deriva il 65% dei profitti esteri estratti dalle prime 50 multinazionali americane.
Dieci anni fa era solo il 35%.
Quel 65% tende a crescere, mentre per Europa e Giappone non vi è molto spazio data la mancanza di grandi imprese multinazionali ad alta tecnologia.
In queste condizioni, sembra non esserci alcun “appetito” delle multinazionali a riprodurre in Africa o in India quella diffusione di centri manifatturieri che avevano invece promosso in Cina.
Si crea così un effetto specchio, per cui nemmeno i paesi ospiti sono ora così impazienti di aprirsi alle multinazionali se non ci sono investimenti nella manifattura.
Nel 2000, ogni miliardo di dollari investiti sul mercato mondiale produceva 7000 posti di lavoro e $600 milioni di esportazioni su base annuale.
Oggi, quello stesso miliardo di dollari rappresenta solo 3000 posti di lavoro e solo $300 milioni di esportazioni su base annuale.
Le più recenti stelle della Silicon Valley stanno avendo serie controversie all’estero.
Nel 2016, in Cina, Uber ha venduto ad un operatore locale tutto il suo business, dopo un duro scontro.
Lo scorso dicembre, in India, due campioni digitali come la Ola (impresa on-line di trasporto a chiamata) e la Flipkart (sito di acquisti on-line) hanno chiesto al governo un intervento protezionista contro Uber ed Amazon, accusate di costituire dei monopoli senza creare posti di lavoro e di portarsi via i profitti in America.
Alcune multinazionali saltano tra i dazi, costruendo nuove fabbriche in paesi protezionisti.
Molte ristrutturano, cedono autonomia alle filiali all’estero per cercare di dar loro un profilo più locale.
Altre hanno deciso di farla finita.
12. Precedente storico
Una situazione del genere per le multinazionali si è riscontrata all’indomani della Grande Depressione.
Tra gli anni ’30 e ’70 gli investimenti sull’estero erano calati di circa 1/3 rispetto al PIL mondiale.
La ripresa si ebbe solo nel 1991.
13. Situazione incerta
Oggi le multinazionali stanno ripensando come tornare a fare profitti.
La maggior parte di loro non opera sui mercati interni. Solo 1/3 della loro produzione viene acquistata dalle loro filiali.
E le catene delle forniture all’estero fanno il resto.
Sembra perso il controllo sulle innovazioni e su come innovare la gestionalità dell’impresa.
Dove mantengono brevetti su marchi di valore, si trovano ancora in una situazione di vantaggio come nella produzione di motori per i jet, in cui l’economia di scala permette ancora di spalmare i costi sul mondo intero.
Ma i benefici sono inferiori alle attese.
La perdita di terreno si evidenzia anche nel poco valore prodotto rispetto alla quantità di attività.
E torniamo ad usare il ROE (return on equity) come indicatore: circa il 50% degli investimenti su estero produce un ROE di meno del 10%.
Intanto la Ford e la General Motors (che -guarda caso- ha detto no alla fusione proposta da Marchionne/FCA) fanno l’80% dei loro profitti in Nord America, cosa che fa pensare che i loro profitti esteri siano abissali.
Molte imprese che hanno cercato di globalizzarsi sembrano funzionare meglio su base nazionale o regionale.
Hanno capito che l’aria è cambiata.
Rivenditori come la Tesco (UK) e la Casino (Francia) hanno abbandonato molti dei loro punti vendita all’estero.
Lo stesso hanno fatto due giganti della telefonia americana, AT&T e Verizon.
Le imprese finanziarie si ritirano nei loro mercati cruciali,
Lafarge-Holcim, un’impresa che fa cemento, venderà (se non lo ha già fatto) i suoi cementifici in India, Corea del Sud, Arabia Saudita e Vietnam.
A dieta anche multinazionali di successo come Procter&Gamble.
Le sue vendite all’estero sono diminuite di quasi 1/3 a partire dal 2012, costrigendola a chiudere o vendere i punti deboli.
14. Il futuro?
Le tendenze sembrano essere tre.
La prima.
Solo un ridotto numero di multinazionali di alto livello cercherà di radicarsi nei paesi ospiti, cercando di placare le preoccupazioni di carattere nazionalistico.
La General Electric sta ri-localizzando la sua produzione, la sua catena di di forniture e la gestione.
La Emerson, una conglomerata che ha oltre 100 fabbriche fuori degli USA, ha l’80% della sua produzione nelle regioni in cui viene venduta.
Alcune imprese straniere potrebbero investire di più in produzione con base in America al fine di evitare i dazi, salvo provvedimenti contrari di Trump, come fecero le fabbriche di auto giapponesi negli anni ’80.
Ma occorre essere molto grandi.
La Siemens, gigante industriale tedesco, ha negli USA 50.000 dipendenti e 60 fabbriche.
Per le medie industrie si pone il problema delle risorse da investire su tutti i mercati.
Il ceto politico nazionale, messo di fronte all’acquisto di aziende nazionali da parte di multinazionali, ora chiede che venga preservato il carattere nazionale dell’azienda (cioè mantenere posti di lavoro, pagamento delle tasse e investimenti in ricerca e sviluppo).
Nel 2016, la SoftBank, un’azienda giapponese che ha comprato la ARM, un’impresa britannica che fabbrica microprocessori, ha sottoscritto questi impegni.
La stessa cosa ha fatto la cinese Sinochem che sta comprando la sua rivale svizzera Syngenta che produce semi e prodotti chimici per l’agricoltura.
Il boom degli acquisti cinesi all’estero, nel frattempo, potrebbe esaurirsi o esplodere, dal momento che molti di questi acquisti contano su prestiti agevolati da parte delle banche di stato, cosa che oggi non ha molto senso finanziario.
La seconda.
Il ruolo di uno strato sempre più esiguo di multinazionali che posseggono proprietà intellettuale e digitali.
Vale a dire imprese tecnologiche come Google e Netflix, le multinazionali dei farmaci e le imprese che usano il franchising con le aziende locali come un modo economico per mantenere una presenza globale con tutti i vantaggi che porta il mercato.
L’industria degli hotel, con i suoi grandi marchi come l’Hilton e l’Intercontinental è il primo esempio della nuova tattica.
McDonald sta adottando un modello di franchising in Asia.
Queste multinazionali “intangibili” probabilmente cresceranno velocemente, ma dato che non creano molti posti di lavoro tendono a diventare oligopoli senza beneficiare della protezione delle regole del commercio internazionale globale, il quale si occupa per lo più di merci fisiche, e rischiano di andare a sbattere contro le ripercussioni nazionaliste.
La terza.
Il ruolo di un crescente numero di piccole imprese che usano l’e-commerce per vendere e comprare su scala globale.
Più del 10% di queste imprese statunitensi già lo fa.
La PayPal, un gigante delle imprese di pagamenti on-line, dichiara che le transazioni in cui sono coinvolte queste multinazionalette stanno crescendo ad un livello di $80 miliardi all’anno e sempre più velocemente.
Jack Ma, il boss della famosa impresa di e-commerce Alibaba, va dicendo che secondo lui in Cina si assisterà ad un’ondata di piccole imprese occidentali che esportano beni per i consumatori cinesi ribaltando la tendenza dei due decenni passati in cui le imprese americane importavano merci dalla Cina.
15. Sfera di cristallo
In questo scenario, una eventuale nuova e prudente era delle multinazionali non sarà senza costi.
Quei paesi che sono cresciuti grazie alle imprese globali ed al loro investire in giro in contanti potrebbero scoprire che se la competizione scema i prezzi crescono.
Quegli investitori, che avrebbero 1/3 o più dei loro portafogli azionari nelle multinazionali, potrebbero andare incontro a qualche spiacevole turbolenza.
Quelle economie che contano su entrate derivanti dagli investimenti su estero o su afflussi di capitali da nuove succursali, potrebbero ben presto avere dei problemi.
Il crollo dei profitti delle multinazionali del Regno Unito è la ragione del pessimo stato della bilancia dei pagamenti dell’UK.
Sui 15 paesi con un rapporto deficit partite correnti/PIL del 2,5% nel 2015, ben 11 contano su nuovi investimenti multinazionali per finanziare almeno un terzo del buco.
Avremo un capitalismo più frammentato e di tipo provinciale, meno efficiente ma forse con un più ampio sostegno pubblico?
Forse, l’infatuazione globalizzatrice degli scorsi decenni sarà vista come un episodio nella storia del capitalismo e non come un segno della sua fine.
Ufficio Studi di AL/fdca
[fonti: The Economist; Financial Times; Il Sole 24 Ore; siti di analisi economica e finanziaria,…]

Welfare, alternanza scuola/lavoro, Università















Per quanto riguarda la questione del welfare, in particolare in merito a sanità ed istruzione, è utile considerare preventivamente che la privatizzazione di questi settori, ossia il passaggio dalla prospettiva della relazione utente-servizio a quella cliente-prestazione (prodotto), è stata anticipata nei decenni precedenti da un primo passaggio, troppo spesso taciuto o sottovalutato dalla sinistra radicale e dal mondo libertario, che ha portato al passaggio dall’originaria relazione cittadino-diritto a quella di utente-servizio.
Questo primo passaggio è di particolare rilevanza, dal momento che ha sostituito l’orizzontalità che caratterizzava il tema dell’estensione dei diritti con la verticalità del tema della qualità del servizio. Da lì il passo è stato breve per arrivare alla frattura della relazione fra la persona e il suo bisogno, che sta alla base di tutto il discorso del welfare.
Alternanza scuola-lavoro
La “Buona Scuola”, con le sue 400 ore di alternanza scuola-lavoro richeste ad ogni studente nei suoi ultimi tre anni di corso, non ha mutato per niente la situazione organizzativa degli stages lavorativi degli istituti professionali, ha modificato solo in minima parte il medesimo aspetto in relazione agli istituti tecnici, mentre del tutto nuova è la situazione che si presenta nell’istruzione liceale. Molti istituti afferenti a questo indirizzo, pur cercando di istituire relazioni con le imprese del territorio, faticano a trovare in esse l’interesse a creare percorsi di inserimento/formazione di studenti direttamente sul posto di lavoro, in particolare perchè risulta spesso difficile per il datore di lavoro estrarre plus-valore, e di conseguenza profitto, dall’attività svolta da questi ragazzi. Prima che  imprenditori-speculatori riescano a costruire iniziative, in sinergia con amministratori pubblici compiacenti, finalizzate a mettere in piedi progetti commerciali fondati sullo sfruttamento della forza-lavoro degli studenti, è auspicabile che i compagni delle varie sezioni, tenendo conto delle diverse disponibilità sui propri territori, si impegnino nell’ideazione di progetti che siano in grado di offrire agli studenti interessati ai percorsi di alternanza scuola-lavoro opzioni di inserimento in contesti associativi locali che indirizzino la propria attività verso la risposta ai bisogni fondamentali emergenti nei territori di riferimento,valorizzando al contempo le necessità formative degli studenti stessi.
Dopo la “Buona Scuola” il governo pensava anche alla “Buona Università”.
Le linee di questa riforma furono impostate in occasione del convegno di Udine, organizzato dal Partito Democratico nell’ottobre del 2015, ma gli organizzatori furono troppo tempestivi: anche la FLC – CGIL aveva già manifestato la propria contrarietà, così come  la lobbies dei docenti universitari, fresca dell’applicazione della legge Gelmini reagì opponendosi sia pure per motivi corporativi. La questione fu temporaneamente accantonata ma è ancora all’ordine del giorno. I tratti caratteristici di questa riforma sarebbero due: la trasformazione degli atenei in fondazioni a indirizzo privatistico; la conseguente trasformazione dello stato giuridico del personale tecnico/amministrativo delle università da pubblico a privato con l’applicazione del contratto del commercio (la cosa non riguarderebbe ovviamente la docenza che rimarrebbe ancora pubblica e non contrattualizzata, come è adesso. Negli atenei italiani comunque l’alternanza scuola lavoro è un dato di fatto e assume forme variegate che, comunque, possono essere riassunte sotto la parola “tirocinio” (fonte: sito Università di Pisa):
Tirocinio”
è un periodo di formazione presso un’azienda o un ente che permette di creare momenti di alternanza tra studio e lavoro nell’ambito dei processi formativi, offrendo allo studente un’esperienza diretta del mondo del lavoro”.
I tirocini curriculari”
  –sono rivolti agli studenti iscritti ai corsi di laurea, master e dottorato di ricerca;
  –sono inclusi nei piani di studio e si svolgono all’interno del periodo di frequenza del corso anche se non direttamente in funzione del riconoscimento di crediti formativi universitari. Sono pertanto curriculari anche i tirocini finalizzati allo svolgimento della tesi di laurea;
  –sono disciplinati, anche per quanto riguarda la durata, dalla normativa interna dei singoli Atenei (regolamenti universitari), nel rispetto della normativa nazionale di riferimento (D. I. 25 marzo 1998, n° 142)”.
I tirocini non curriculari”
sono rivolti ai neolaureati che hanno conseguito il titolo di studio da non più di 12 mesi;
il tirocinio deve iniziare, e non necessariamente concludersi, entro i 12 mesi dal conseguimento della laurea;
non possono essere attivati da coloro che hanno conseguito un Master o un Dottorato di ricerca;
sono svincolati da percorsi formali di istruzione universitaria in quanto maggiormente finalizzati a favorire l’inserimento lavorativo e le scelte professionali mediante un periodo di formazione in ambiente produttivo e una conoscenza diretta del mondo del lavoro.
Come si vede le definizioni sono suadenti ma mancano studi comparativi, qualitativi e quantitativi, tra le diverse realtà universitarie in merito alle sopradescritte realtà.
Alternativa Libertaria
97° Consiglio dei Delegati
Fano, 25 marzo 2017

SULLE QUESTIONI ETICHE E POLITICHE INERENTI LA FINE DELLA VITA


















Il tema delle fasi finali della vita oggi è diventato via via sempre più importante nel dibattito etico e politico sulle questioni di salute per due motivi principali. Il primo è di carattere economico e tecnologico, il secondo sociale-filosofico. Si vive sempre più a lungo attraversando diversi livelli di cronicizzazione delle malattie che colpiscono le persone nell’arco della loro vita.
  1. La tecnologia che abbiamo a disposizione in modo standardizzato per continuare a vivere è costituita da ausili molto avanzati ma anche facilmente accessibili in paesi come l’Italia perché garantiti a diversi livelli dal Sistema Sanitario Nazionale. I costi della gestione economica della cronicizzazione di patologie importanti sono elevati e per far fronte alle dotazioni di base si tiene in secondo piano la grande questione della qualità della vita, giungendo in alcuni casi al paradosso dell’obbligatorietà delle cure, somministrate anche con l’uso della contenzione chimica, meccanica e ambientale. La qualità della vita è un valore collettivo – oggi è considerato un desiderio individuale – per cui la vita in quanto tale è e rimane un valore comune, ma una vita buona, una vita soddisfacente, una vita di qualità è considerata un privilegio, un valore individuale, un di più che ciascuno può volere ma che si dovrebbe anche pagare. I processi di privatizzazione della salute passano anche attraverso alcuni dettami culturali, uno di questi è quello che separa la vita di qualità dalla vita in quanto tale.
  2. L’altro elemento che influisce in modo determinante nelle questioni etiche sul fine vita è dato dalla totale alienazione della morte dalla nostra prospettiva sociale. Il morto o chi sta per morire è un invisibile, un indesiderato. La morte – che fa parte della vita e del suo svolgimento – una volta considerata dai saggi come un punto di arrivo di una intera esistenza che andava vissuta con consapevolezza, è oggi un momento occultato e privato. Chi sta male, chi ha malattie inguaribili secondo la medicina attuale, chi vive processi di cronicità che lo portano ad essere gravemente disabile, è considerato una persona che non ha per sé e per gli altri alcuna utilità, una persona che ha bisogno di molte risorse per essere mantenuta in vita, una persona a perdere, come un guscio vuoto, attorno a lui si sviluppano processi di colpevolizzazione impliciti e sono noti a tutte e a tutti gli appellativi di “vegetale” che vengono dati per descrivere diverse e variegate condizioni di disabilità – dalla tetraplegia al coma vigile.

Buona morte o buona qualità di vita

Ragionare oggi sui processi che riguardano la fine della vita significa, diversamente da quanto preso in considerazione nei dibattiti incentrati su autodeterminazione delle scelte ed eutanasia come buona morte, ragionare sui sistemi di welfare sanitario che debbono garantire la qualità della vita a tutte le persone per tutto il tempo in cui la loro vita è da loro stessi considerata degna di essere vissuta, in una situazione di continuo monitoraggio sulle condizioni psicologiche e di accettazione della malattia e sui desideri possibili e realizzabili per le diverse condizioni di dipendenza che si vivono nella vita. Non si può davvero sapere quando si è sani cosa si vorrà rispetto alla propria vita in una situazione di molto mutata, la vita può continuare e può essere di qualità se ci sono gli strumenti e se le persone care sono messe nella condizione di poter vivere insieme alla persona malata senza che questa sia una condanna alla povertà, all’infelicità e alla fine della vita attiva di tutti.

Buona morte e rischio di eutanasia di stato e capitalista

Il rischio a cui siamo di fronte è di enorme portata culturale. Sostenendo solo le proposte di eutanasia o sviluppando una cultura solo incentrata sulla buona morte – senza ragionare sulle cure materiali e sulle relazioni umane di cura per le persone gravemente malate che vorrebbero o potrebbero essere sostenute, curate e amate per poter ancora vivere – si accolga in modo passivo quello che ormai è evidente come un diktat del capitalismo: il diritto di vivere bene è solo appannaggio di chi se lo può permettere perché è in grado di farlo economicamente1. Non dimentichiamoci che il programma di eutanasia di stato del Nazismo, che poi fornì la base per la Soluzione Finale di milioni di persone (ebrei, zingari omosessuali, lesbiche, oppositori politici), nacque e si sviluppò in un clima culturale-scientifico impregnato di eugenetica. Era “eticamente” accettabile far terminare le sofferenze delle persone considerate indegne di vivere perché profondamente danneggiate dalle loro disabilità cognitive su base genetica e psichiatrica, presentate come profondamente infelici. Ci furono genitori che portarono di persona i loro figli a morire perché li amavano e non volevano più “vederli” soffrire. Il carico della loro assistenza era presentato anche come peso economico di un sistema di welfare che doveva sostenere chi non aveva alcun valore per la collettività, soprattutto in un momento di crisi economica e di investimenti delle risorse per tecnologie di guerra.

Consapevolezza, Consenso, Autodeterminazione

Oggi in Italia ci sono strumenti legislativi che hanno al centro il rispetto delle decisioni personali in merito alla fine della vita. La Costituzione Italiana nel suo Articolo 32, il Codice di Deontologia Medica, i testi scientifici e le prese di posizione degli Ordini sull’accesso alle cure palliative e sulla sedazione palliativa e continuata (terminale) sono ormai strumenti fondamentali, molto noti e accurati in ambito sanitario e le prassi cliniche che si svolgono sempre più in modo capillare sul territorio nazionale li hanno recepiti. Il processo culturale che pone al centro il rispetto della persona nelle fasi finali della vita è sempre di più acquisito dalla classe medica e dalle professioni sanitarie. I punti controversi di qualsiasi Legge che si voglia approvare su questi temi, rimangono sempre relativi alle responsabilità e quindi al potere decisionale in caso di emergenza o di rimozione di ausili vitali impiantati in emergenza: il medico deve rianimare oppure NO un malato di SLA che ha deciso di non accedere alla tracheostomia e alla ventilazione meccanica? Anche se questa persona arriva in un reparto di emergenza? Queste domande, dirimenti da un punto di vista penale, sono questioni etiche di fondo che dividono e continueranno a dividere il paese a livello ideologico se trattate come merci di scambio o trasformate in baluardi identitari, invece di essere lasciate alla conciliazione e alla definizione di percorsi individuali basati sulle scelte, sui desideri e sul rispetto delle persone coinvolte. Quello che una Legge sulle direttive anticipate di trattamento, anche la migliore Legge possibile, continuerà a non risolvere è il fatto che se la struttura del sistema sanitario, gestita su base regionale, continuerà a finanziare l’attività di cura privilegiando gli Ospedali, sarà in grado di sostenere solo marginalmente i servizi territoriali pubblici, garantendo con difficoltà una gestione domiciliare di qualità alle persone che sono alla fine della loro esistenza e a chi le assiste a casa.
Senza piani di finanziamento di processi di continuità assistenziale per le persone inguaribili e vicine alla morte (che abbiano al centro i processi decisionali e quindi la comunicazione chiara e accurata di ogni momento di sviluppo della malattia) non è possibile portare ad un buon livello di sviluppo tutte le competenze di relazione di cura: tra pazienti, caregivers, medici di medicina generale, personale infermieristico e tecnico sanitario territoriale. E tali competenze sono fondamentali per garantire la qualità della vita fino al momento di accedere – per chi lo ha scelto – alla sedazione palliativa continuata e terminale, prima, ad esempio, che un problema respiratorio conduca direttamente in un Dipartimento di Emergenza e interroghi i medici sulla scelta di praticare la rianimazione e la tracheostomia, oppure no. Questo è il principale punto di criticità, sostanzialmente non risolvibile in termini definitivi da una Legge, se non con la depenalizzazione di alcuni reati.

Siamo per percorsi di buona cura in cui la fine della vita sia parte della vita

Occorre promuovere una campagna di maggiore sensibilizzazione per programmi politici di welfare sanitario che abbiano al centro la ridistribuzione delle risorse sul territorio per favorire economicamente lo sviluppo da parte dei contesti socio-sanitari diversi, di percorsi di buona cura in cui la fine della vita sia parte della vita e sia affrontata da tutti gli attori in modo consapevole e qualitativamente soddisfacente. Questo è possibile solo di fronte a relazioni di cura in cui ci sia una distribuzione di potere e di responsabilità in merito alle scelte e questo si costruisce solo in termini orizzontali, tra persone che si conoscono, si incontrano, si confrontano e decidono insieme in un clima di mutua fiducia. Solo questo sarà il modo per portare a termine un percorso legislativo e una programmazione che avrà come obiettivo la più corretta distribuzione delle risorse e il maggiore rispetto per le scelte di ciascuna e di ciascuno, che sono sempre scelte svolte in un dato contesto relazionale, sociale ed economico.
1 Il neoliberismo prevede anche un diritto alla cura solo per chi si è comportato bene, non danneggiando la propria salute (evitando fumo, alcol, droghe, eccessi alimentari, sedentarietà) dimenticando i determinanti delle malattie insiti nell’ambiente di vita e lavoro (inquinamento dell’aria, acqua, alimenti, stress lavoro correlato, infortuni ecc.); sarà questo uno dei motivi per cui non si investe nella vera prevenzione?

IX Congresso Nazionale della FdCA

IX Congresso Nazionale della FdCA
1-2 novembre 2014 - Cingia de' Botti (CR)