ADERISCI AD ALTERNATIVA LIBERTARIA/FdCA

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O SCEGLI NOI O SCEGLI LORO

campagna contro la contenzione meccanica

per giulio

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giovedì 24 marzo 2016

Si salvi chi può! Prima le banche e le imprese.A spese di lavoratori, migranti, profughi.


Si salvi chi può! Prima le banche e le imprese.

 

Il bazooka per salvare l'Europa dei profitti

Da tempo la BCE si sforza nel tentativo di stimolare la declinante economia dell'area-euro e di impedire l'affermarsi della deflazione. Già  un anno fa  dava inizio al suo cospicuo programma di alleggerimento finanziario dei rischi delle banche,  tramite quantitative easing, (QE), acquistando 60 miliardi di euro di titoli  al mese,  programma  che aveva avuto una proroga di 6 mesi, fino al marzo 2017, ed ha aumentato la quota di QE  a80 miliardi al mese da aprile.

E' questa la misura più vistosa, certo non risolutiva, presa dalla BCE il 10 marzo. Inoltre i tassi dei depositi bancari presso la BCE, già divenuti negativi (da -0,2% a -0,3% in dicembre 2015) sono stati ulteriormente abbassati al -0.4%, mentre i tassi sui finanziamenti sono scesi dal già ridicolo 0,05% a zero. Fino ad ora, gli acquisti di assets riguardavano i titoli di Stato, insieme a titoli assicurativi emessi dalle banche. Ora entrano nel carrello di spesa della BCE anche le obbligazioni societarie. La BCE condurrà anche quattro nuove operazioni di finanziamento, tra giugno e marzo 2017, ciascuno con una durata di quattro anni, volte a rafforzare il credito al settore privato, fornendo finanziamenti a condizioni estremamente favorevoli.

Sono misure che cercano di rispondere alle mancate attese. Tutte le previsioni vengono riviste al ribasso.  Le previsioni per il 2016 sono dell'1,4% (invece dell'1,7% atteso), mentre i prezzi al consumo nel 2016 aumenteranno solo dello 0,1% (invece dell'1,0%).

Sebbene i tassi negativi sui depositi non entusiasmino le banche, le 4 operazioni di finanziamento di prestiti della BCE ridaranno ossigeno alle stesse banche, mentre l'acquisto di obbligazioni emesse dalle imprese, by-passando le banche, inietta liquidità direttamente nei bilanci del capitale industriale europeo.

E come  accaduto per tutte le precedenti misure “di stimolo” prese dalla BCE (LTRO, QE), finiranno per salvare profitti finanziari delle banche (ed ora anche delle imprese) senza “stimolare” in nessun modo il lavoro, l'occupazione, il reddito, i salari, la domanda.

Ma se le condizioni di milioni di persone della classe lavoratrice europea sono agli ultimi posti delle priorità dei governi della UE, c'è almeno un altro milione di persone che si trova proprio in fondo alle preoccupazioni dei governi europei e della UE. Sono i profughi.

 Le cui sorti vengono ben dopo gli effetti speciali di Draghi, ben dopo le preoccupazioni per gli 86 miliardi di euro che la Grecia deve garantire, ben dopo il conflitto in Ucraina orientale, ben dopo  le ansie per il referendum britannico sulla permanenza nella UE. E comunque in attesa delle elezioni del 2017 in Germania.

Per profughi di guerra e migranti nessuna salvezza

La primavera è vicina e propizia per ulteriori arrivi di migliaia di profughi, ma l'Europa si chiude a fortezza con un effetto domino di confini sigillati per impedirne il passaggio. Se le rotte balcaniche dovessero risultare interdette, i flussi migratori potrebbero spostarsi in paesi come la Bosnia e la Romania, tornare ad attraversare l'Adriatico verso l'Italia, concentrarsi in Grecia.

Lo sgombero delle “giungle” di Ventimiglia e di Calais, le carovane di prifughi trasbordati da autobus in autobus lungo frontiere mai attraversabili dimostrano una volontà politica repressiva e respingente, ma senza alcun futuro se non la violenza ed il terrore come soluzione. Si aprono concrete possibilità per una recrudescenza dei nazionalismi e del razzismo, per la costruzione di lager di contenimento e di detenzione in tutto il continente.

Ma non servirà.

Dieci anni fa l'agenzia ONU contava 38 milioni di profughi. Oggi siamo a 60 milioni. Tra questi, fiumi di umanità che si spostano verso l'Europa dal Medio Oriente, dall'Africa e da ancora più lontano.

Cosa li spinge? La guerra. La disoccupazione. La miseria. La fame.

Arriveranno i Siriani. Sono già 5 milioni i Siriani rifugiati nei paesi circostanti, dove non hanno il permesso di lavorare, dove aiuti alimentari e fondi dell'ONU non arrivano più.

Arriveranno i Curdi, perseguitati dalla guerra scatenatagli contro dalla Turchia di Erdogan, pronto a incassare 6 miliardi di euro per mettere i profughi -che l'Europa non vuole-  in enormi campi di concentramento.

Arriveranno gli Afghani da un paese dove la guerra non è mai finita dal lontano 2001. Come dall'Iraq dove la guerra non è mai finita dal 2003.

Arriveranno dallo Yemen, il più povero paese arabo, da cui sono fuggiti già 1 milione di Yemeniti.

E poi arriveranno dall'Africa, in fuga dai conflitti nel Sahel, in Somalia, nell'area de Grandi Laghi, dalla Libia.

A tentare la fortuna attraverso il Mediterraneo.

A passare per i Balcani prima che la Turchia chiuda i cancelli.

No border!

L'Europa deve aprire le sue frontiere accogliendo profughi direttamente dalla Turchia, dalla Giordania, dal Libano,  ridistribuendo lavoratori e famiglie profughe su tutto il suo territorio, provvedendo ad alloggi, assistenza sanitaria, accesso al mercato del lavoro, diritto all'istruzione per tutti, chiudendo tutti i centri di detenzione e respingimento.

Questo il programma per un grande movimento europeo solidale, internazionalista, di classe, attraverso i confini perchè non ci sia più nessun confine.

Alternativa Libertaria/fdca

93° Consiglio dei Delegati

Fano, 19 marzo 2016

Sepolcri imbiancati. Accordo UE/Turchia


Sepolcri imbiancati. Accordo UE/Turchia

All’ultimo momento l’Europa ha costruito un accordo che, almeno nelle parole utilizzate, rispetta alcune garanzie fondamentali dei Diritti Umani, e cerca di  mettere  a posto sia  le coscienze  che  le  pance   di un'Europa divisa trasversalente  da muri reali e metaforici. Evidenti le  contraddizioni. Da un lato viene riconosciuto il rispetto del principio di non respingimento (no-refoulement) secondo i principi della Convenzione di Ginevra (1950 e del suo protocollo del 1967), dall’altro la dichiarazione che verranno  rimpatriati (ovvero portati in Turchia che non è la loro patria) tutti i migranti arrivati in modo irregolare in Grecia e non bisognosi di protezione internazionale.  Considerando che fuggono tutti  da guerra e da devastazione, quanti  e quali saranno i migranti non bisognosi di protezione? Su che base e con che garanzie ogni caso verrà giudicato? Chi sarà rimpatriato e come? Di sicuro non saranno rimpatri  su base volontaria.

Di fatto però la Turchia accederà ad un finanziamento di 3 miliardi di euro per impedire ai migranti di compiere la traversata fino alla Grecia.  Si scrive che la Turchia adotterà “qualsiasi misura per evitare le rotte di migrazione in collaborazione con l’UE”. Questo significa che la Turchia, paese in cui il Governo agisce in modo autoritario nei confronti di gruppi politici di opposizione e di minoranze, che compie continue violazioni dei diritti umani, che massacra i curdi unica opposizione sociale e popolare contro l’ISIS, verrà lasciata a gestire da sola il blocco di ogni tipo di migrazioni.  In che modo, possiamo sfortunatamente prevederlo.

L’accordo prevede inoltre che per ogni siriano rimpatriato in Turchia dalle isole greche un altro siriano sarà reinsediato dalla Turchia all'UE, assicurando la priorità  ai migranti che precedentemente non fossero entrati o non avessero tentato di entrare nell'UE in modo irregolare. Questo significa che si faranno classifiche e selezioni considerando illecito l’aver cercato di avere un futuro migliore per sé e per i propri cari, anche a rischio di perire in mare, dopo essere stati sfruttati dalla criminalità internazionale dei commercianti di persone. A totale dispregio  di ogni pretesa  garanzia dei  Diritti  Umani. Il rischio è che, dietro le parole di facciata, la questione sia gestita con la finalità che  in Europa arrivino il minimo di profughi, e solo quelli decisi da e con la Turchia.

Noi siamo per la creazione di  corridoi umanitari, il diritto d'asilo, la solidarietà dal basso, il diritto al lavoro e a una vita degna. Per tutte e per tutti.

Alternativa Libertaria/fdca

93° Consiglio dei Delegati

Fano, 19 marzo 2016

 

Tripoli bel.... business core


L'Italia ha sempre voluto Tripoli.

Ora più che mai. Ma è dal 2011 che i tamburi di guerra non hanno mai smesso di suonare.

Prima del 2011, la Libia era al primo posto in Africa in base all'indice ONU dello sviluppo umano.

Dopo l'attacco francese, britannico ed americano che portò alla fine di Gheddafi, la Libia è percorsa da una guerra fatta di conflitti fra le tribù, fra le milizie ed interno all'Islam, ma che ha sempre mantenuto i caratteri di una guerra per interessi geopolitici ed economici.

Un regolamento di conti, una spartizione della torta fra potenze esterne e le due entità libiche di Tripoli e Tobruk, entrambe concorrenti per l'esportazione di petrolio.

In Libia giace il 38% delle riserve africane. Un greggio di qualità che, atttualmente, insieme a gas, è in grado di estrarre solo l'ENI in Tripolitania. Una posizione di privilegio intollerabile per gli alleati occidentali dell'Italia. Una situazione che deve finire, possibilmente con un contributo militare dell'Italia stessa, con l'invio di 5mila uomini, con la promessa di un comando militare offerto a chi, dopo aver perso 5 miliardi di commesse a causa della fine di Gheddafi, viene oggi ritenuto irrilevante.

Quanto vale la Libia? Le ricchezze del sottosuolo più i petrodollari del fondo sovrano libico depositati a Londra dicono che la Libia vale 130 miliardi di dollari oggi ed almeno tre volte tanto se dovesse tornare ad esportare petrolio come prima del 2011, magari con un governo a capo di un paese diviso in zone d'influenza.

La Cirenaica alla Gran Bretagna che lì ha asset della BP e della Shell, oltre ai petrodollari libici da difendere. Ma anche proteggere i consorzi francesi, americani, tedeschi e cinesi.

Alla Francia la guardia del Sahel nel  Fezzan dove curare i suoi interessi energetici e geopolitici verso le ex-colonie.

All'Italia la Tripolitania ed il controllo del gasdotto Greenstream che porta gas sulle coste siciliane.

Quello che conta dunque è rimettere sul mercato le ricchezze libiche e crearci intorno un sistema militare di sicurezza regionale che protegga il tutto. Sotto la supervisione strategica degli Stati Uniti.

Tutto questo non piacerà alle fratricide forze libiche che vorrebbero tenersi le ricchezze per sé.

Ma altri protagonisti possono adoperarsi per mandare a monte la triplice spartizione della Libia. E' il caso della Russia, estromessa nel 2011 perchè contraria ai bombardamenti, che potrebbe istigare il suo acquirente di armi Al Sisi d'Egitto a rivendicare territori in Cirenaica come nel 1943.

E' il caso degli sponsor arabi delle varie fazioni libiche: l'Egitto che appoggia il generale Khalifa Haftar a Tobruk contro gli islamisti radicali di Tripoli; il Qatar che invia dollari agli islamisti radicali di Tripoli; gli Emirati che appoggiano Tobruk; la Turchia che ha spostato o jihadisti libici dalla Siria alla Sirte.

Anche se dalle basi italiane non si alzasse neanche un aereo, l'Italia in guerra c'è già, in un'alleanza fatta di rivali e concorrenti, dentro quella NATO che spinge scelleratamente l'Europa a portare la sua azione militare sempre più lontano. In Libia, i nemici reali o finti,       ISIS o altri- sono coloro che minano la sicurezza dello sfruttamento del petrolio e del gas libici.

Un'altra sporca guerra per le risorse. Una guerra da contestare in Italia come in Francia, in Gran Bretagna come negli USA.

Antimilitarismo e lotta di classe

Alternativa Libertaria/fdca

93° Consiglio dei Delegati

Fano, 19 marzo 2016

giovedì 17 marzo 2016

La rivolta da fare nel Kurdistan iracheno

Questo articolo tratta della recente storia della costituzione del Governo Regionale del Kurdistan (KRG) e del tradimento perpetrato nei confronti del suo popolo. Il KRG è sprofondato nella corruzione, ha dovuto ingaggiare guerra con l'ISIS, si è visto arrivare un grande numero di profughi siriani e provenienti dall'Iraq centro-meridionale ed ora non è in grado di garantire i salari ai lavoratori. Di conseguenza ci sono state manifestazioni, proteste e boicottaggio del lavoro da parte delle persone. 
In questo articolo si cerca di spiegare perchè è importante organizzarsi indipendemente dai partiti politici.

Prima della Marcia della rivolta del 1991 in Kurdistan, i Peshmerga [le forze armate del PUK (Patriotic Union of Kurdistan ) e del KDP (Kurdistan Democratic Party)] virtualmente non esistevano, se non ai confini con l'Iran ed in aree remote. La guerra tra Iran ed Iraq e la campagna Anfal condotta dal precedente regime  costò la vita di oltre 180mila persone, sgomberate dai loro villaggi completamente distrutti e poi scomparse.  Quando scoppiò la rivolta, le forze governative furono sbaragliate dal movimento di massa e fu allora che il PUK ed il KDP furono reinsediati con l'aiuto degli USA e dei paesi occidentali. In breve tempo, i due partiti assunsero il controllo delle città e dei villaggi che erano stati liberati dal popolo. Nel maggio 1992, formarono e si spartirono una Amministrazione territoriale tramite elezioni farsa. Il 05/10/1992 iniziarono a combattere il PKK, in uno scontro durato circa 3 mesi. Nel 1995, il  PUK ed il KDP ruppero gli accordi, si combatterono l'un l'altro e si spartirono il Kurdistan.
Durante il conflitto, il PUK riportò una vittoria quasi completa nei confronti del KDP ed, a quel punto, il capo del KDP, Masoud Barzani, chiese l'appoggio dell'ex-presidente iracheno Saddam Hussein.
Il 31/08/96, l'esercito del regime precedente giunse a Erbil e salvò il KDP. In seguito, il KDP lanciò degli attacchi contro il PUK riuscendo ad assumere il controllo di molte aree, città e villaggi che prima si trovavano sotto il controllo del PUK. Questi non aveva altra scelta se non chiedere aiuto all'Iran, grazie a cui riuscì a riguadagnare il controllo delle località che aveva perso ed a rimettere in piedi la sua amminstrazione. Dopo questo conflitto, il PUK ed il KDP hanno assunto il controllo delle rispettive aree di influenza del Kurdistan. Il KDP ha posto la sua Amministrazione su Erbil e sulle città circostanti. Il PUK ha preso il controllo di Sulaymaniyah e delle città intorno.
Nel 2003 il precedente regime cadde dopo l'invasione dell'Iraq da parte degli USA e dei paesi occidentali: si aprì così una straordinaria opportunità per il PUK e per il KDP per la creazione di un Kurdistan Regional Government, che venne costituito con le elezioni del 2005. Le seconde elezioni dopo l'invasione si tennero nel 2009. Dal 2005 al 2014 entrambi i partiti (PUK & KDP) sono state le forze principali nel KRG. Nelle ultime elezioni del 2014, gli equilibri di potere sono un po' cambiati. Il cosiddetto Movement of Change (Goran) formatosi nel 2007, è risultato il secondo partito più votato ed è entrato nel governo insieme a KDP, PUK, organizzazioni islamiche ed altri piccoli partiti. Tuttavia, la corruzione, il terrorismo, la scomparsa di persone, le uccisioni e l'assassinio di attivisti politici, scrittori, giornalisti e donne continuano senza sosta.
In breve, nessuna vera riforma è stata approvata nonostante la presenza del movimento ’Goran’ nel governo con KDP, PUK e gli altri. Infatti, la situazione è peggiorata. Nell'ottobre del 2015, il KDP ha rimosso tutti i parlamentari, i ministri ed i presidenti parlamentari del movimento Goran vietando loro di far ritorno a Erbil. Da allora ogni vera attività parlamentare in Kurdistan è completamente cessata. 
E' il Popolo che è in crisi e non il KRG.
IL popolo del Kurdistan iracheno (Bashur) sotto il controllo del KRG è in una drammatica situazione economica e politica. Dall'ottobre 2015, il KRG non paga gli stipendi ad 1,4 milioni di dipendenti. Da febbraio 2016, gli insegnanti percepiscono solo metà del loro stipendio. Il KRG se la prende con il governo centrale iracheno che non verserebbe il dovuto 17% del bilancio nazionale. Il KRG esportava 550mila barili al giorno di greggio via governo centrale, il quale avrebbe dovuto restituirne i proventi in proporzione. Ora il KRG ha iniziato a vendere greggio evitando l'intermediazione governativa centrale e si tiene i proventi senza documentarne i dettagli riguardanti la quantità venduta ed a quali acquirenti.
Il KRG ha fatto sapere che ci sono altre ragioni che stanno prosciugando le sue risorse, quali il calo del prezzo del petrolio, la guerra all'ISIS ed i costi derivanti dal mantenimento di oltre 1,5 milioni di profughi siriani e delle regioni centro-meridionali dell'Iraq.
Dall'ottobre 2015, il commercio, i mercati, l'edilizia stanno rallentando e tutti i progetti sono fermi a causa della mancanza di fondi. Inoltre, migliaia di curdi, specialmente giovani, hanno lasciato il Kurdistan per andarsene in Europa. E' difficile per il popolo del Kurdistan vivere in condizioni così dure sotto il governo del KRG. Perciò, il popolo non ha alcuna scelta se non quella di protestare e boicottare il lavoro, soprattutto nelle città e nelle località sotto il controllo del PUK (Patriotic Union of Kurdistan).
Dall'inizio di febbraio 2016, ci sono state piccole manifestazioni e proteste a Erbil, la capitale del KRG, controllata dal Kurdistan Democratic Party (KDP). Molti uffici e molte scuole primarie e secondarie sono state chiuse perchè gli insegnanti ed altri impiegati non hanno i soldi per pagarsi il biglietto dei mezzi di trasporto per raggiungere il loro posto di lavoro. I prezzi al dettaglio sono aumentati di conseguenza, molti negozi e molte attività hanno chiuso.
Come da ogni parte, è il popolo che è in crisi e non il sistema, non il governo. Sono le persone che perdono la fiducia in se stesse, dipendenti come sono dai partiti politici. Sono le persone che perdono la fiducia nelle loro capacità e si mettono a cercare un capo che le guidi. E' il popolo che non impara dalle esperienze del passato, che ancora crede nella più famosa e potente bugia della storia che sono le elezioni parlamentari.
Non serve una rivolta qualsiasi.
Ci sono state molte rivolte in passato, in diversi paesi. Nel 1979 in Iran, nel 1991 nel Bashur (Kurdistan Iracheno), negli ultimi 5 anni le "Primavere Arabe". Però, le rivolte in tutti questi paesi sono sfociate in una terribile guerra civile o in un mutamento di regime che nei fatti non si è dimostrato migliore dei precedenti governanti. Le ragioni di ciò sono semplici, sia nel caso delle rivolte guidate da partiti politici sia nel caso di quelle guidate da persone che non avevano nessun piano per il dopo-rivolta e magari domate dagli USA e dai paesi occidentali. Queste rivolte miravano a cambiare il potere e non la società, volevano una rivoluzione politica e non una rivoluzione sociale, volevano portare dei cambiamenti dall'alto della società e non dal basso. Ecco perchè sono facilmente cadute sotto l'influenza degli USA, della politica e dell'economia neoliberista dei paesi occidentali. In conclusione, non solo non sono riuscite a portare alcun cambiamento, ma il dopo-rivolta è servito alle classi dirigenti, alle classi superiori ed agli interessi del sistema attuale molto più della situazione precedente. Questo fallimento ha disilluso le persone portandole in gran parte a non credere più in manifestazioni, proteste e nemmeno nelle rivolte.
Attualmente, tra i Curdi iracheni ci sono -specialmente tra le file dei comunisti, dei socialisti autoritari, delle sinistre e dei liberali- colloqui e prese di posizione per una rivolta. Quello che vogliono fare non porterà a niente di meglio di quello che è successo con le primavere arabe.
Al fine di evitare un'altra sconfitta e di realizzare i veri cambiamenti, abbiamo bisogno di formare gruppi locali radicali, non gerarchici, che siano antiautoritari, antistatalisti e contro il potere. Dobbiamo organizzarci nei quartieri, nelle fabbriche, nei luoghi di lavoro, nelle scuole, nelle università, per le strade, nei villaggi. Abbiamo bisogno di formare comuni e cooperative, per insediare assemblee popolari ed il municipalismo libertario in ogni villaggio ed in ogni città. Utilizzando l'azione diretta e la democrazia diretta nel processo decisionale, che dovrebbe essere il modo di far progredire e sviluppare il potere popolare. Abbiamo bisogno di fare tutto questo indipendentemente dai partiti politici.Il nostro obiettivo deve essere quello di cambiare la società dal basso verso l'alto, e questo deve riguardare i cambiamenti politici e di governo,  i cambiamenti economici, educativi, sociali e culturali. Abbiamo bisogno di lavorare sulla costruzione del potere del popolo  e non della dittatura del proletariato o di qualsiasi altro potere di classe.
Non ci serve una rivolta qualsiasi. Abbiamo bisogno di quel tipo di rivolta che ci permetta di fare cambiamenti reali nella creazione di una società socialista / anarchica. Questo può essere fatto attraverso il Confederalismo Democratico ed il comunismo libertario.

Zaher Baher
febbraio 2016
(traduzione a cura di Alternativa Libertaria/fdca - Ufficio Relazioni Internazionali)

La memoria non si cancella, con DAX nel cuore

 
Oggi, mercoledi 16 marzo, è il tredicesimo anniversario dell’omicidio di Davide Cesare, ‘Dax.
Una notte cominciata in via Brioschi nel quartiere Ticinese a Milano, dove un gruppo di nazi-fascisti aggredisce a coltellate alcuni compagni ferendone tre. Uno di loro, Davide “Dax” rimane a terra, assassinato.
Subito dopo il fattaccio amici e compagni sono accorsi all’ospedale San Paolo per avere notizie. Ad aspettarli numerose pattuglie di polizia e carabinieri (tra cui alcune del 3° battaglione Lombardia, noto per essersi distinto nei feroci pestaggi del G8). La presenza delle forze dell’ordine è pressante e provocatoria e presto sfocia in brutali cariche sia all’interno che all’esterno del pronto soccorso. I feriti si contano numerosi, colpiti in
faccia e in testa anche con armi “speciali” quali mazze da baseball.
Ricordiamo quei fatti perché rimangano impressi nella memoria di tutti, ma soprattutto per non dimenticare Dax. E' nostra convinzione che per farlo vivere per sempre e sentirlo ancora al nostro fianco sia necessario
continuare oggi le battaglie a cui lui stesso si dedicava con passione, e
che mantenere viva la sua memoria non significhi limitarsi a commemorare la sua persona ma perseverare nell’antirazzismo e nell’antifascismo sopratutto in questi ultimi anni dove stiamo scivolando verso una deriva nazionalista, razzista e sempre più
intollerante. Dove si contano a decine le aggressioni fatte da gruppi fascisti come Forza Nuova o Casa Pound nei confronti di compagni, migranti, omosessuali e delle persone più deboli.
Bisogna praticare l'opposizione a questo clima sociale e per fermare questa deriva populista e razzista è necessario autoorganizzarsi ovunque, nei quartieri, nelle scuole e nei luoghi di lavoro facendo controinformazione, sviluppando pratiche d' integrazione, di mutuo aiuto e di solidarietà.
NEA (nord est antifà)

mercoledì 16 marzo 2016

IL CINEMA DEL NO - Elèuthera editrice

sabato 19 Marzo 2016 ore 17,30
All’Ateneo degli Imperfetti
 
 
 
 Il cinema del no
Visioni anarchiche della vita e della società libro
 
Elèuthera Editrice, Milano 2015
presentazione del libro
 
ne discutiamo con:
Goffredo Fofi
critico cinematografico e letterario
 
Se è vero che la grande arte ha sempre in sé qualcosa di anarchico, di critica dell’esistente, di contestazione dell’ordine sociale dato, il cinema ha sempre avuto
due anime: quella consolatoria, ovvia, tesa a intorpidire le menti (prevalente), e quella non conciliata, provocatoria, critica del “mondo così com’è” (minoritaria). Ed è di quest’ultima che si
occupa Fofi ………..

Ateneo degli Imperfetti
Via Bottenigo, 209
30175 Marghera (VE)

tel. 327.5341096

domenica 13 marzo 2016

18 marzo sciopero generale contro la guerra e l'autoritarismo del mondo del lavororo





 
 
 
 
 
Il SI Cobas, La Cub e l’USI-Ait hanno indetto per l’intera giornata di Venerdì 18 Marzo uno Sciopero Generale Nazionale, che vedrà i due cortei principali snodarsi tra le vie di Milano e Napoli.

 

Con questo sciopero ci opponiamo

·           alle legislazioni degli ultimi decenni e in particolare al Jobs Act che hanno cancellato diritti conquistati con la lotta, liberalizzato i licenziamenti, reso precari tutti i contratti di lavoro esistenti,

·           agli accordi tra padroni e sindacati venduti che espellono la democrazia e il dissenso dai luoghi di lavoro.

 

Nello stesso tempo lo sciopero si propone di  unificare le lotte, diffuse ma frastagliate, di quei settori che si oppongono alla brutale offensiva del grande capitale e del suo governo e in molti casi riescono a strappare miglioramenti,(vedi accordi della logistica) per generalizzarle agli altri settori e creare un fronte di classe.

All’offensiva interna contro i lavoratori corrisponde un’offensiva esterna degli Stati imperialisti per imporre e spartire il loro dominio sul mondo. Per questo la nostra lotta è tutt’uno con la lotta contro tutte le guerre di oppressione che alimentano il terrorismo  e minacciano esperienze   rivoluzionarie dal basso (es. a Kobane nel Rojava).

Quindi un forte NO A OGNI INTERVENTO MILITARE ITALIANO, in Libia o altrove!

Chiediamo la cancellazione delle pessime riforme sulla scuola che hanno sottratto risorse a quella pubblica per privilegiare le private e che l’hanno sottomessa agli interessi speculativi delle aziende, regalandovi manodopera gratuita con l’alternanza scuola-lavoro.

Rivendichiamo una sanità gratuita e di qualità, un reddito dignitoso per disoccupati e precari, un aumento delle pensioni e l’uguaglianza per gli immigrati.

Lottiamo contro inquinamento e devastazione ambientale, commessi in funzione degli interessi del capitalismo, per la difesa della salute.

Lottiamo per il  diritto all’abitare, negato dalle politiche antipopolari dei governi che, per favorire la speculazione edilizia, svendono le case popolari ai privati e criminalizzano gli occupanti in stato di necessità con minacce e sgomberi militarizzati.

 

Contro questo crescendo di macelleria sociale ai danni dei lavoratori, degli studenti, dei pensionati, dei disoccupati, degli inquilini è necessario unirci e lottare.

sabato 12 marzo 2016

Tripoli bel.... business core

12 e 18 marzo contro la guerra
Tripoli bel.... business core.
 
 
 
 
 
L'Italia ha sempre voluto Tripoli.
Ora più che mai. Ma è dal 2011 che i tamburi di guerra non hanno mai smesso di suonare.
Prima del 2011, la Libia era al primo posto in Africa in base all'indice ONU dello sviluppo umano.
Dopo l'attacco francese, britannico ed americano che portò alla fine di Gheddafi, la Libia è percorsa da una guerra fatta di conflitti fra le tribù, fra le milizie ed interno all'Islam, ma che ha sempre mantenuto i caratteri di una guerra per interessi geopolitici ed economici.
Un regolamento di conti, una spartizione della torta fra potenze esterne e le due entità libiche di Tripoli e Tobruk, entrambe concorrenti per l'esportazione di petrolio.
In Libia giace il 38% delle riserve africane. Un greggio di qualità che, atttualmente, insieme al gas, è in grado di estrarre solo l'ENI in Tripolitania. Una posizione di privilegio intollerabile per gli alleati occidentali dell'Italia. Una situazione che deve finire, possibilmente con un contributo militare dell'Italia stessa, con l'invio di 5mila uomini, con la promessa di un comando militare offerto a chi, dopo aver perso 5 miliardi di commesse a causa della fine di Gheddafi, viene oggi ritenuto irrilevante.
Quanto vale la Libia? Le ricchezze del sottosuolo più i petrodollari del fondo sovrano libico depositati a Londra dicono che la Libia vale 130 miliardi di dollari oggi ed almeno tre volte tanto se dovesse tornare ad esportare petrolio come prima del 2011, magari con un governo a capo di un paese diviso in zone d'influenza.
La Cirenaica alla Gran Bretagna che lì ha asset della BP e della Shell, oltre ai petrodollari libici da difendere. Ma anche proteggere i consorzi francesi, americani, tedeschi e cinesi.
Alla Francia la guardia del Sahel nel Fezzan dove curare i suoi interessi energetici e geopolitici verso le ex-colonie.
All'Italia la Tripolitania ed il controllo del gasdotto Greenstream che porta gas sulle coste siciliane.
Quello che conta dunque è rimettere sul mercato le ricchezze libiche e crearci intorno un sistema militare di sicurezza regionale che protegga il tutto. Sotto la supervisione strategica degli Stati Uniti.
Tutto questo non piacerà alle fratricide forze libiche che vorrebbero tenersi le ricchezze per sé.
Ma altri protagonisti possono adoperarsi per mandare a monte la triplice spartizione della Libia. E' il caso della Russia, estromessa nel 2011 perchè contraria ai bombardamenti, che potrebbe istigare il suo acquirente di armi Al Sisi d'Egitto a rivendicare territori in Cirenaica come nel 1943.
E' il caso degli sponsor arabi delle varie fazioni libiche: l'Egitto che appoggia il generale Khalifa Haftar a Tobruk contro gli islamisti radicali di Tripoli; il Qatar che invia dollari agli islamisti radicali di Tripoli; gli Emirati che appoggiano Tobruk; la Turchia che ha spostato  jihadisti libici dalla Siria alla Sirte.
Anche se dalle basi italiane non si alzasse neanche un aereo, l'Italia in guerra c'è già, in un'alleanza fatta di rivali e concorrenti, dentro quella NATO che spinge scelleratamente l'Europa a portare la sua azione militare sempre più lontano. In Libia, i nemici –reali o finti,  ISIS o altri- sono coloro che minano la sicurezza dello sfruttamento del petrolio e del gas libici.
Un'altra sporca guerra per le risorse. Una guerra da contestare in Italia come in Francia, in Gran Bretagna come negli USA.
Il 12 ed il 18 marzo 2016 manifestazioni e sciopero contro la guerra in tutte le città.
Antimilitarismo e lotta di classe.
Alternativa Libertaria/fdca
11 marzo 2016

mercoledì 9 marzo 2016

A VICENZA MANIFESTAZIONE CONTRO LA GUERRA

Rceviamo da Ross@ Padova

SABATO 12 MARZO ORE 10.30 A VICENZA
MANIFESTAZIONE CONTRO LA GUERRA E CONTRO LA NATO 
APPUNTAMENTO DI FRONTE ALLA CASERMA EDERLE IN VIALE DELLA PACE



Il nostro paese è in guerra. Siamo in guerra, assieme alla NATO e a tutto il cosiddetto Occidente, da 25 anni. 
Nonostante i milioni di morti, le devastazioni e le migrazioni bibliche provocate da questi interventi, il nostro come gli altri governi progettano e organizzano nuove imprese militari. 
Queste nuove imprese sono però inserite in un quadro diverso, nella Grande Crisi che attraversa il mondo da quasi dieci anni, nelle crescenti frizioni che questa crisi sta determinando tra poli e blocchi mondiali. 
Non sono più semplicemente guerre neocoloniali di espansione e stabilizzazione, ma si stanno trasformando in guerre di egemonia e sopravvivenza.

L'Unione Europea in guerra produce orrore e lo usa per giustificare sia la distruzione della democrazia sia le politiche di austerità. 
Si possono sforare i criminali vincoli del fiscal compact per comprare armi, ma non per costruire ospedali o scuole. UE e Nato, austerità e guerra sono oramai la stessa cosa.

È necessaria una mobilitazione diffusa e permanente contro la guerra esterna e contro la guerra sociale interna che banche, multinazionali, interessi industrial militari vogliono imporci. Bisogna che l'Italia esca dalla NATO, alleanza che oggi non ha più alcuna giustificazione politica e morale. 

Manifestiamo per : 

- La fine immediata di ogni partecipazione italiana alle guerre in corso, con il ritiro delle truppe da esse e il ripristino dell'articolo 11 della Costituzione.
- Lo smantellamento delle basi e delle servitù militari, il rispetto del trattato di non proliferazione nucleare, la fine del commercio delle armi. 
- L'uscita dell'Italia dalla Nato e da ogni alleanza di guerra. L'Italia deve diventare un paese neutrale per contribuire alla pace. 
- La fine delle politiche persecutorie e xenofobe contro i migranti.
- La fine delle politiche di austerità e del sistema di potere UE che le impone.
- La cancellazione delle leggi sicuritarie che in tutta Europa nel nome della guerra al terrorismo stan costruendo uno stato di polizia.

martedì 8 marzo 2016

8 Marzo, Giornata Internazionale delle Donne


Sono questi  tempi di riorganizzazione e di emancipazione per le donne e per la classe lavoratrice.
Nella Giornata Internazionale delle Donne, il movimento delle donne di tutto il mondo celebra le conquiste sociali, politiche ed economiche ottenute in oltre un secolo. Una giornata in cui denunciare l'oppressione che grava sulle donne nella morsa tra capitalismo e patriarcato, una realtà tuttora innegabile per la maggioranza della donne di oggi. 
L'oppressione sulle donne assume varie forme: un padrone sessista, il partner, un compagno. Per noi anarchici c'è un grande lavoro da fare prima che ci sia uguaglianza di genere e nelle relazioni sessuali, nella società, nelle nostre vite e nella più ampia comunità in cui viviamo.
La lotta per l'emancipazione femminile è tutt'una con la lotta militante delle donne per l'auto-organizzazione. La lotta delle donne contro il patriarcato si muove sia contro il patriarcato che contro lo stato. Lo Stato, il capitale ed il patriarcato si alleano reciprocamente per sostenere i padroni che sfruttano le donne e cercano di frammentare la loro resistenza.
Le mobilitazioni per l'8 marzo, come quelle di tuti gli altri giorni, devono sfidare la vacua nozione neoliberista di uguaglianza di genere all'interno di un sistema di generalizzata disuguaglianza. Questa è una giornata di resistenza contro tutte le forme di oppressione.
Nelle regioni della Turchia e del Kurdistan le donne partecipano ad una lunga lotta contro il fascista regime turco, contro il totalitarismo teocratico del cosiddetto "Stato Islamico" e contro il patriarcato. La rivoluzione nelle autonome regioni del Kurdistan è un esempio militante vivente della auto-organizzazione delle donne per l'autonomia sociale, nonostante le perplessità sulle implicazioni di un'alleanza delle YPG-YPJ con l'imperialismo USA.
Che tutte le lavoratrici del mondo si uniscano in questa lotta, per fare di questo giorno una giornata di resistenza. Si onorino le donne assassinate i cui corpi sono gettati nelle strade quale trofei di caccia.
Le donne del Kurdistan siano un punto di riferimento qui ed ovunque per l'emancipazione e la libertà.
Melbourne Anarchist Communist Group
(traduzion a cura di AL/fdca - Ufficio Relazioni Internazionali)

martedì 1 marzo 2016

Architettura del dissenso

sabato 05 Marzo 2016 ore 17,30
                 All’Ateneo degli Imperfetti
 
presentazione del libro di C. Ward con
Giacomo Borella
architetto
 
 
Colin Ward
Architettura del dissenso
Forme e pratiche alternative dello spazio urbano
 
a cura di Giacomo Borella
Elèuthera Editrice, Milano 2016
 
Gli interventi raccolti in questa antologia, tradotti per la prima volta in italiano, documentano le sue riflessioni sull’architettura e l’urbanistica, condotte con la precisione dello studioso, la freschezza dell’autodidatta e la passione del militante

Ateneo degli Imperfetti
Via Bottenigo, 209
30175 Marghera (VE)

tel. 327.5341096

LA SITUAZIONE MILITARE IN SIRIA, di Pier Francesco Zarcone


LA SITUAZIONE MILITARE IN SIRIA
di Pier Francesco Zarcone




Si tratta di un argomento praticamente non trattato dai grandi media. Al massimo ogni tanto si comunica il numero di vittime civili a seguito di scontri e bombardamenti, e si dà notizia di successi militari dell'Isis e di altre formazioni jihadiste, magari dilatandone la portata suscitando il classico effetto di Hannibal ante portas, ma senza inquadrarli nelle oggettive proporzioni tattiche e strategiche. Cosa accada davvero sui campi di battaglia resta sconosciuto ai più, e nella presente fase, alquanto negativa per i cosiddetti takfiri (sinonimo dei jihadisti per il loro tacciare di apostasia i musulmani di orientamento diverso), il silenzio è pressoché totale. Eppure in questi circa quattro anni di guerra in Siria sul piano militare (e politico) ci sono stati sviluppi interessanti.


Le premesse tattico-strategiche
In primo luogo va rimarcata l'opportunità della scelta fin dall'inizio effettuata dal governo di Damasco di fronte a una massiccia e capillare invasione di combattenti stranieri sostenuti (militarmente ed economicamente) dall'esterno. Le opzioni possibili erano due: a) cercare di difendere subito tutto il territorio siriano, con prevedibili esiti disastrosi sul terreno, oppure b) attestarsi nella difesa della capitale e della zona costiera (cioè dell'area con la maggiore concentrazione alawita e sciita in genere). Questa seconda ipotesi implicava il temporaneo abbandono al nemico dei territori orientali – che, seppure in buona parte desertici, presentano risorse energetiche importanti - e poi manovrare da quello "zoccolo duro" territoriale per un'auspicata azione di riconquista. La scelta è caduta sulla seconda opzione.
Al riguardo i grandi media l'hanno generalmente interpretata come segnale o della prossima sconfitta militare dei governativi o di una precisa exit strategy, nel senso che Assad avrebbe fatto della zona costiera il ridotto in cui rifugiarsi e concentrarvi la resistenza dopo il disastro sul campo, dato come inevitabile. La prospettiva strategica alla base di quella decisione era diversa e si basava - in ragione della globale situazione siriana, più complessa e comunque diversa rispetto a quelle di Egitto e Tunisia - sulla vera carta giocabile dal governo damasceno: l'appoggio pratico e concreto da parte di Russia, Iran e Hezbollāh libanese. Era quindi essenziale mantenere aperti i canali aerei, terrestri e marittimi con questi alleati, fornitori di aiuti non solo diplomatici, ma anche militari ed economici. Come infatti è avvenuto.
All'inizio della guerra l'Esercito Arabo Siriano (Eas) disponeva di circa 300.000 uomini (tre Corpi d'armata e un raggruppamento direttamente dipendente dallo Stato maggiore, per tredici divisioni: sei corazzate, quattro meccanizzate, due di Parà/Forze speciali, una meccanizzata di Guardie repubblicane, due brigate di fanteria indipendenti e sei reggimenti di Commandos indipendenti). Struttura portante per ogni comando di divisione, la brigata. La maggiore presenza di truppe (divisioni) all'inizio della guerra si trovava nella parte sudovest della Siria, l'11ª divisione era nella zona di Homs, la 18ª in quella di Aleppo, mentre la 17ª era nella parte est, zona di Deir Ezzour.
Non casualmente gli invasori takfiri avevano concentrato gli attacchi sulle città lontane dai centri con maggiore presenza di truppe governative (Hama, Homs e anche Aleppo), al fine di far concentrare su di esse il più consistente sforzo bellico, lasciando così sguarniti centri vitali; tenuto conto dei continui e abbondanti flussi di militanti jihadisti, questo avrebbe significato esporsi a una vasta manovra di accerchiamento non solo in caso di rovescio militare su quel fronte, ma anche qualora il massiccio concentramento governativo su esso venisse - per così dire - "agganciato" dal nemico, in modo da non poter effettuare manovre di ripiegamento senza incorrere in forti perdite. Tanto più che inizialmente l'Eas non era preparato a condurre una guerra non puramente convenzionale.
La prima fase del conflitto, quindi, fu di sostanziale ripiegamento difensivo e poco impegnata sul piano militare, mentre su quello politico il governo riscosse i suoi successi nel referendum costituzionale del febbraio 2012 e nelle elezioni di primavera: entrambi ignorati dai media e dai governi occidentali, in quanto suscettibili di far argomentare (non foss'altro per l'entità della partecipazione popolare) che tutto sommato l'elettorato siriano preferiva lo statu quo alle scelte auspicate da Washington e dall'Ue. Si trattò di successi politici del tutto ininfluenti sul piano militare, e infatti la stessa Damasco fu direttamente minacciata dai jihadisti, con l'attentato al ministero della Difesa (in cui morirono il ministro, generale Dawoud Rajiha, e furono seriamente feriti vari ufficiali d'alto rango) e combattimenti nella capitale. Poi i jihadisti vennero respinti, fu messo in sicurezza l'Aeroporto internazionale e le residue sacche nel Rif Dimanshq non furono più un reale pericolo.
Prima dell'intervento russo si è rivelata fondamentale, nel gennaio 2013, la decisione governativa di formare i Comitati popolari di difesa (detti anche "Milizia Ndf"), nelle cui fila entrarono veterani, giovani non ancora in età di leva, miliziani di gruppi già formatisi in via spontanea, militari rimasti separati dalle unità di appartenenza o anche disertori pentiti. Non solo furono dotati di armi automatiche, ma anche di lanciarazzi, mortai leggeri e medi, e di artiglierie di piccolo e medio calibro, in modo da far svolgere a questi miliziani gli indispensabili compiti di appoggio all'Eas, o presidiando e pattugliando territori già liberati o effettuando operazioni su scala ridotta. Il fatto di operare essenzialmente nelle zone di origine ha reso queste formazioni maggiormente motivate. Né va trascurata al riguardo l'importanza dell'apporto addestrativo da parte di elementi della Guardia rivoluzionaria iraniana. Poi sono intervenuti i Battaglioni del Partito Baath, unità di profughi palestinesi filosiriani e anche milizie religiose sciite e cristiano-assire. Questi volontari sono "coperti" dal mantenimento dei precedenti posti di lavoro, le loro famiglie ricevono dal governo aiuti alimentari e sovvenzioni, e spetta loro metà della paga dei soldati.
Nell'immediato le cose non sono state tanto semplici, giacché le forze armate di Damasco hanno dovuto subire duri colpi da parte jiahdista, come a Idlib, a Jisr al-Shoughour e a Tadmur-Palmira. Tuttavia il collasso militare non c'è stato. Da notare che l'"informazione" occidentale nulla dice circa la tenace resistenza, da anni, dei centri sciiti di Fouaa e Kafraya, oppure dei villaggi della zona di Aleppo come Nubbul e Zahraa; oppure del lungo assedio sostenuto dai militari nella prigione principale di Aleppo, solo alcuni mesi fa liberati dalla stretta jihadista, o anche dei due anni di assedio alla base di Kuweires o della strenua resistenza dei governativi a Deir Ezzour e Hasakah (difesa, oltre che da soldati dell'Eas e miliziani dell'Ndf, dalle Brigate del Baath e da cristiani assiri e curdi).

L'intervento russo e la situazione attuale
Ovviamente l'intervento russo ha fatto sì che le forze armate governative potessero passare a una fase più apertamente offensiva su veri settori, e da qui la riconquista di Homs e Hama, e una sostanziale rimonta ad Aleppo. In questa città i combattimenti continuano, ma ai jihadisti resta solo la parte est con 300.000 abitanti, mentre la parte ovest con 2 milioni di abitanti è sotto il controllo delle forze di Damasco. Innegabilmente senza l'intervento russo - a fronte del non ancora esaurito "serbatoio" di rinforzi umani per i jihadisti - il governo damasceno non avrebbe potuto passare all'attuale fase offensiva. Viene infatti valutata a circa il 70% la perdita del potenziale bellico dei jihadisti a seguito dei bombardamenti russi sui loro magazzini e fabbriche di armi, munizioni, esplosivi e sui depositi di carburante, oltre che sui centri di comando. Anche la loro capacità di manovra e di coordinamento rientra nella predetta percentuale.
Da ciò derivano estreme difficoltà per i jihadisti, dovendosi essi orientare sulla difesa delle posizioni ancora tenute. Proseguire nelle operazioni offensive implicherebbe infatti manovre e concentramenti di uomini e mezzi di una certa entità; cioè qualcosa di non occultabile alla sorveglianza aerea (oggi russo-siriana). E sempre di qui la maggiore capacità di manovra dell'Eas, tanto più che il ritiro dei jihadisti da vari centri abitati rende più agevole l'utilizzazione delle forze corazzate sostenute da un'aviazione che martella le postazioni nemiche prima dell'assalto finale. Superfluo dire che da sempre i conflitti locali servono pure a "testare" i nuovi armamenti, come sta accadendo per i blindati russi 8×8 Bumerang e il nuovo carro T-15.
L'intervento aereo russo conta su vari punti di partenza: la base di Mozdok nell'Ossezia del Nord, con 12 bombardieri pesanti Tu-22M3, in grado di operare in Siria dopo 2 ore e 44 minuti, protetti da una batteria di missili antiaerei S-400 stanziata nella base di Humaymim, Lataqia (è una delle quattro inviate in Siria), e dalla batteria della base di Quwayris, a 30 km a est di Aleppo; circa 64 aerei saranno presto operativi a Humaymim (24 Su-24M2, 12 Su-25, 12 Su-34 e 16 Su-30SM). Infine, una volta terminato il processo di modernizzazione dell'aeronautica militare siriana, entreranno in funzione dai 66 ai 130 aerei siriani (9 MiG-29SMT, 21 Su-24M2, 36 Jak-130 e probabilmente 64 MiG-23-98), in aggiunta ai 112 non modernizzati ma riparati dai russi (MiG-21, Su-22M4 e L-39). Sarebbe folle ritenere che tutto questo costoso materiale riguardi solo un intervento a favore di un alleato sul punto di crollare.
La presenza dell'Isis in Siria è innegabilmente pericolosa, ma non va valutata semplicemente guardando la carta geografica, oppure omologandola a quella in Iraq. Mentre in quest'ultimo paese l'Isis è insediato nella ricca e fertile zona di Ninive, in Siria in realtà controlla solo una piccola parte di "territorio utile", alcune vie di comunicazione e alcuni punti di rilievo strategico, tra cui la città di Raqqa. Le cartine pubblicate dai media in cui si evidenziano i territori siriani in mano all'Isis comprendono enormi estensioni desertiche o rocciose praticamente spopolate, talché non hanno torto quanti le considerano fonte di oggettiva disinformazione, facendo cioè dell'Isis in Siria qualcosa di più incombente e massiccio di quanto non sia.
Il 2 ottobre e il 1° dicembre dello scorso anno, Obama dichiarò che la Russia incontrava in Siria difficoltà di rilievo e che i pochi successi non compensavano gli elevati costi sostenuti e futuri, tanto da parlare di sprofondamento russo in un nuovo Afghanistan. Ma il 28 dicembre la certo non filorussa Reuters ha pubblicato una valutazione fondata su interviste ad analisti del Pentagono, con conclusioni opposte: ottimi risultati già nei primi tre mesi di intervento, scarsi costi operativi (circa 1-2 miliardi di dollari l'anno), e quindi senza sostanziali problemi di bilancio per Mosca. In concreto i predetti analisti avrebbero valutato l'intervento russo come assai flessibile e soft in quanto a materiali e forze, ma rivelando una proficua capacità di coordinamento con le forze di terra. Particolare valenza è stata attribuita a un aspetto sopra accennato: la sperimentazione russa di nuovi armamenti in condizioni di combattimento e della loro capacità operativa immediata. A parte ciò, sembra che dagli analisti del Pentagono pervengano conclusioni non in linea con la tesi ufficiale circa la Siria teatro di guerra civile in cui i russi si sarebbero infilati, trattandosi in realtà di una guerra ibrida e asimmetrica alimentata da aggressori esterni e da competizione fra potenze straniere. Valutazioni del genere inducono a riflessioni critiche circa l'operato statunitense nei recenti teatri del suo intervento bellico. Vale a dire, si profila un dubbio: finora le imprese statunitensi hanno messo in campo mezzi, uomini e risorse economiche infinitamente maggiori, ma dai non esaltanti risultati, del resto sotto gli occhi di tutti. La performance russa in Siria dal canto suo attesterebbe una sorprendente situazione di recupero militare rispetto agli anni '90, con l'ulteriore interrogativo - in prospettiva - circa l'eccesso di congruità del potenziale militare russo rispetto agli odierni conflitti locali.

Gli Usa
Poiché film e serie televisive made in Usa ci hanno abituati a divaricazioni e conflitti operativi fra Cia, Fbi, Dea e varie altre agenzie di intelligence, quanto segue non sembrerà molto strano o del tutto anomalo. Secondo un articolo di Seymour Hersh, pubblicato alla fine dello scorso anno sulla London Review of Books, vertici del Pentagono avrebbero dato vita a una svolta contraria alla linea finora tenuta da Washington e dalla Cia. La premessa sta nell'inclusione della Turchia nel programma della Cia per armare i "ribelli moderati" in Siria, e nel fatto che il governo turco decise di effettuare un "riorientamento" di questi aiuti statunitensi in favore dei jihadisti, tra cui Jabhat an-Nusra e l'Isis. Al Pentagono, invece, si sarebbero "accorti" della sostanziale inesistenza di questi ribelli moderati, e quindi nell'autunno del 2013 i Joint Chiefs of Staff (Jcs) del generale Martin Dempsey avrebbero deciso di inviare informazioni di intelligence a Germania, Russia e Israele affinché le trasmettessero al governo di Assad. Certo non gratuitamente, ma con la richiesta a Damasco di cercare di mettere un po' di freno a Hezbollāh verso Israele, di tenere aperti i negoziati sulle alture del Golan e di indire le elezioni dopo la fine della guerra. Secondo questa ricostruzione, nell'estate del 2013, in barba alla Cia sarebbero state inviate ai ribelli siriani armi obsolete, quale attestazione di buona fede ad Assad. Il ritiro di Dempsey a settembre avrebbe posto fine al tentativo di intesa.
Nella Siria nordoccidentale la sconfitta jihadista sembra essere più che prossima. Nella provincia di Aleppo i governativi hanno già tagliato le maggiori vie di rifornimento dalla Turchia ed è finito il quadriennale assedio di Nubul e al-Zahra, con la liberazione di più di 70.000 abitanti, e la stessa grande città del nord non è lungi dall'essere ripulita dalla presenza takfira, e non c'è da stupirsi se a breve tutto il confine turco sarà di nuovo sotto il controllo di Damasco. Anche la provincia di Lataqia è praticamente ripulita.
Importante, anche in prospettiva, il fatto che nella Siria nordoccidentale la sconfitta jihadista sembra essere più che prossima. Si ha notizia che dal 10 febbraio sono in corso scontri e bombardamenti a nordovest della base aerea di Kuweyres contro militanti dell'Isis che cercano sia di arginarne l'avanzata governativa verso la parte orientale del sobborgo industriale aleppino di Sheikh Najjar (il che preluderebbe alla chiusura di una vasta sacca tra l'aeroporto di Aleppo e Kuweyres), sia di prevenire la riconquista di Al-Sin e Jubb al-Kalb. Il giorno 9 si è avuta notizia dell'arrivo a Damasco e Aleppo di ben 6.000 ufficiali e soldati iraniani: questo dopo un'opera di disinformazione di Teheran per far credere a un suo ritiro militare dalla Siria.

Torna il problema curdo
Ci sono due fatti importanti da ricordare. Il 7 febbraio truppe siriane (appoggiate da miliziani di Hezbollāh e da paramilitari iracheni di Nujaba, Kataeb Hezbollah, Badr) hanno occupato la località di Kiffin, prossima a Ziyarah (sotto controllo di milizie curde) e creato nella zona un centro di coordinamento siriano-curdo, sia in funzione operativa sul campo, sia per non lasciare ai soli occidentali la "carta curda". A ciò si aggiunga che truppe siriane e iraniane hanno l'ordine di non ostacolare l'azione delle milizie curde, ed è chiaro l'intento russo di far valere nei "colloqui di pace" (a prescindere dall'esito che daranno) il peso dell'avanzata delle forze curde verso il confine turco.
E proprio la questione curda potrebbe trovarsi dietro al fatto che, nel quadro della persistente e non ridotta tensione fra Russia e Turchia, si sia parlato da parte russa di un possibile intervento turco in Siria – seguìto dal minaccioso avvertimento che ogni eventuale incursione sarà affrontata con la forza e non con la diplomazia. Che Erdoğan possa compiere qualche colpo di testa non è impossibile: semmai c'è da chiedersi fino a che punto la Nato sarebbe così folle da andargli dietro. E c'è pure da domandarsi se esista un collegamento tra una tale previsione e la messa in allerta - ai primi di febbraio - delle forze aviotrasportate del Distretto militare meridionale russo.
Il fatto è che il coordinamento tra i governativi siriani e le milizie curde potrebbe accelerare la completa e forse definitiva chiusura del confine turco ai rifornimenti per i jihadisti. Su Ankara incombe sempre il pericolo di saldature fra i curdi della Siria e quelli della Turchia, cosa suscettibile di complicare le relazioni anche con gli Usa. In precedenza Erdoğan aveva minacciato di bombardare i curdi siriani se avessero superato la linea dell'Eufrate, e quando in estate si prospettò un'operazione curda per prendere Jarabulus e quindi interrompere i rifornimenti all'Isis, la Turchia minacciò l'intervento militare: questione tamponata dagli Stati Uniti annullando quell'operazione. Sta di fatto che a nord di Aleppo i curdi hanno operato sotto la copertura degli aerei russi e si sono comunque avvicinati al confine. In questo pasticcio le possibilità di manovra russe ci sono eccome, facilitate dalla contraddittorietà (ovvero incompatibilità) delle alleanze di Washington. Non è chiaro fino a che punto Bashar al-Assad sia del tutto felice per la prospettiva di un'alleanza con i curdi, ma è certo che - a prescindere dal non potersi opporre alle manovre moscovite in questo senso e dall'utilità militare dell'apporto curdo - nel dopoguerra la questione dovrà essere affronta da Damasco realisticamente, e non certo lasciandola irrisolta alla maniera turca. Vedremo come andrà a finire, ma se davvero Putin riuscisse a sfilare i curdi (Iraq a parte) dall'intesa con gli Stati Uniti farebbe un bel colpaccio.

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IX Congresso Nazionale della FdCA

IX Congresso Nazionale della FdCA
1-2 novembre 2014 - Cingia de' Botti (CR)