ADERISCI AD ALTERNATIVA LIBERTARIA/FdCA

ADERISCI AD ALTERNATIVA LIBERTARIA/FdCA
O SCEGLI NOI O SCEGLI LORO

campagna contro la contenzione meccanica

per giulio

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lunedì 19 maggio 2014

Dall'unionismo industriale degli IWW al sindacalismo di base

CONVEGNO Dall'unionismo industriale degli IWW al sindacalismo di base Agli inizi del ventesimo secolo il sindacato rivoluzionario statunitense IWW affermava apertamente nel proprio programma “La classe dei lavoratori e quella dei capitalisti non hanno nulla in comune. Non vi può essere pace finché la fame e l’indigenza sono il retaggio di milioni di lavoratori, finché lo scarso numero di persone che compongono la classe capitalistica gode di tutte le buone cose che valgono ad allietare l’esistenza. Fra queste due classi la lotta deve continuare finché i lavoratori di tutto il mondo non si organizzino e non diventino una unità che pigli possesso della terra e delle macchine produttrici, finché non venga abolito il lavoro salariato“ Gli IWW animarono contro il governo, i padroni, il sindacalismo corporativa una straordinaria stagione di lotte nel cuore della più “avanzata” economia capitalistica del pianeta. Riflettere sulla loro esperienza ci aiuta nella quotidiana azione del sindacati indipendente e di base che, ora come allora, si scontra con la repressione, la corruzione, leggi liberticide che padronato, sindacati istituzionali e governi impongono. Ora come allora alla nostra classe serve un'organizzazione indipendente che sappia organizzare i lavoratori a prescindere dalla nazionalità, dal genere, dalla situazione contrattuale. Sabato 7 giugno dalle 11 Via San Giacomo 7 Aula Ex Industrie Agricole Bologna Interverranno Valerio Evangelisti Autore di diversi testi sul sindacalismo radicale negli USA Stefano Capello Coordinatore Regionale CUB Piemonte Cosimo Scarinzi Coordinatore Nazionale CUB Scuola Università Ricerca

Oltre le elezioni

Serviranno a poco, da un punto di vista istituzionale e di rappresentanza. Eppure queste elezioni europee saranno un test importante soprattutto sulle scomposizioni politiche in atto, per quanto così impregnate dal tentativo estremo di trovare ancora una volta la sicurezza economica ai candidati. E se questo è uno degli aspetti vistosi di questa campagna elettorale costruita dai media abilmente, che come sempre polarizzano lo scontro mediatico su temi pretestuosi in modo da offuscarne l'essenza politica vera, di fatto come sempre ci si adopera per togliere ogni spazio alle risposte oppositrici de processo autoritario in corso. Ne è una prova ad esempio l'intento di non favorire qualsiasi aggregazione (vedi la lista Tsipras) che esprima una critica ai processi del debito in modo non fascista. La destra sta avendo dalla sua i media e il consenso costruito in tutta Europa dagli esperimenti autoritari dell'est europeo, basti pensare alla fascistissima Ungheria ed al suo ottimo rapporto con l'aggregazione Euro-Europea. Chi ancora pensasse che una risposta di destra possa mettere in discussione l'impianto del potere finanziario europeo dovrebbe ricredersi. Come sempre, la destra esercita sulla forma nazione il suo criminale progetto di controllo sociale: non mette in discussione i livelli di accumulazione per esproprio sanciti dalla troika europea, per colpire così come sempre immigrati e lavoratori, per scaricare sui ceti subalterni gli oneri del pareggio di bilancio. E qualora quest'ultimo fosse contabilizzato in una moneta differente dall'euro e fosse gestito da una nuova sovranità monetaria, non smetterebbe i propri effetti nefasti in un nuovo ciclo inflazionistico. La corsa a destra è evidente anche in Italia. La diaspora berlusconiana ha moltiplicato i centri elettorali; il PD renziano sta collezionando sostegno ed incoraggiamento proprio da quella destra che solamente gli stolti hanno colto come alternativa alla politica di Matteo Renzi. Garantiti gli impegni europei per il rientro del debito ed il pareggio di bilancio, le politiche sociali si abbattono come una scure nel pieno dell'azione politica nazionale su lavoratori e disoccupati. Dal canto suo il M5S, fa sempre attenzione a che nella sua protesta contro il malaffare qualunque non entri la questione di classe, tenuta scientemente fuori dalla porta come indesiderata. Pretestuosa e ben servita dai media, il M5S funge così da stampella della italica destra impegnata a sottomettere i lavoratori in un confuso antieuropeismo da spendere sul terreno nazionale, coltivando la pericolosa illusione di un passato buono e vigoroso dell'economia italiana e della politica di questo paese. Ora, al di la della pericolosità ai richiami nazionali che ricordano gli anni trenta, è abbastanza chiaro il quadro dell'espressione elettorale che si sta delineando: una grande destra, da quella liberale a quella fascista passando per il neopopulismo pentastellato, sta chiudendo il cerchio espellendo di fatto, grazie al concorso dei media e della disinformazione di regime, ogni tipo di alternativa di sinistra e socialista di rappresentanza politica. Ecco il vero colpo di stato di banche e governi. Il futuro esiste quindi, e definito senza il nostro contributo. E non sarà sicuramente quanto abbiamo desiderato in questi anni di ristrutturazione capitalistica che ci hanno visto combattere e resistere tra le fila della nostra classe di appartenenza. Compito arduo, che nessuno ci ha imposto per altro ma che ci siamo scelti: un modo teorico e pratico di star dalla parte degli oppressi e dei ceti subalterni, avendo chiaro sempre quale è la posta in gioco attraverso l'analisi materialista della società, nei suoi aspetti peculiari e nelle sue ricadute sociali. Aspettiamo queste elezioni senza trepidazione, ma prepariamoci al dopo con la volontà ed il rigore che la situazione sociale ci imporrà. Discutiamo di alleanza e di politica, di partecipazione politica, di costruzione di esperienze politiche. Accettiamo fino in fondo di stare nelle contraddizioni del presente con le nostre proposte e le nostre pratiche. E' evidente che percorsi politici comuni avranno da essere condivisi ed applicati su tutti i territori e dovranno essere espressione europea dell'alternativa politica e sociale a ogni liberismo e a ogni fascismo. Costruire assemblee che esprimano potere popolare e di classe, con il nostro contributo. Il pareggio di bilancio ci imporrà delle scelte. Ma per uscire dai fallimenti di quella che fu la sinistra collusa con l'impianto generale del capitale, una delle scelte che ormai si pone è quella dell'organizzazione politica come mezzo necessario alla costruzione di una alternativa di classe alla crisi in atto. Riconoscendo nello spazio europeo il livello minimo di intervento politico e sociale, occorre oggi la costruzione ed il rafforzamento di organizzazioni politiche dalle caratteristiche comuniste e libertarie. Per noi, per la classe lavoratrice. Segreteria Nazionale Federazione dei Comunisti Anarchici 15 maggio 2014

sabato 17 maggio 2014

Incontro No Tav a Pordenone

Sabato 17 maggio in via Pirandello 22 quartiere Villanova presso il Prefabbrikato alle 18.00 incontro-dibattito con alcuni compagni e compagne della Federazione Anarchica Torinese impegnati da sempre nella lotta NO TAV alle 20.00 cena sociale xraccolta fondi pro spese legali dei compagni e compagne torinesi Qual à la risposta dello stato alle lotte NOTAV, antimilitariste, antirazziste che in tutto il paese vengono portate avanti da migliaia di persone? Come agire di fronte a una repressione sempre più crescente? Partendo da questi interrogativi si discuterà a tutto campo dei nuovi modi che le istituzioni repressive stanno sperimentando per per colpire gli attivisti e i movimenti. E di come opporsi. Iniziativa Libertaria - Pordenone

Questi non li votiamo più

Questi non li votiamo più 6 buoni motivi per non votare alle elezioni europee 1- Per lo scandalo delle mazzette del Mose Il Mose, spreco miliardario se non opera inutile, si è distinto per l'arresto dei dirigenti della ditta assegnataria e chi doveva controllare (e cioè il Comune di Venezia) dove era? 2- Per la mancata bonifica e le fogne di Viale San Marco Viale San Marco con i suoi recinti testimonia la gravità di una situazione di avvelenamento del territorio. Il comune di Venezia di Centro sinistra, a conoscenza da decine di anni del problema. Con la regione di Centro-destra se ne sono fregati della salute di migliaia di cittadini. Le fognature vecchie di decine di anni, quando piove inondano le case ed il comune di Venezia con la finta opposizione dove sono? 3- Per il deserto industriale a Porto Marghera Fabbriche che chiudono ed il Comune invece che favorire l'innovazione ed i nuovi insediamenti costruisce il Vega, finto luogo dell'innovazione, altra fonte di corruzione e perdite milionarie diretto da... aggiungete voi il nome! 4- Per aver desertificato Mestre Mestre è oramai circondata da decine di ipermercati, Mestre con le tasse esorbitanti (ICI, IMU, TASI, etc) vede chiudere i negozi, perdere migliaia di posti di lavoro, i parcheggi mancano, la città muore e i responsabili sono sempre loro. 5- Per il buco miliardario nelle casse del Comune di Venezia Il comune di Venezia ha 4 volte i dirigenti del Comune di Roma, gente incapace di ovvia nomina politica equamente divisi fra maggioranza ed opposizione, hanno generato un disastro economico che verrà ripianato con le tasse, facendo morire le piccole imprese e impedendo alla gente di arrivare alla fine del mese, E VENDENDO IL PATRIMONIO PUBBLICO COME L'ISOLA DI POVEGLIA. Che dire di un Casinò in passivo? Di chi è la colpa? 6- Per i lavori che iniziano e non finiscono mai I lavori del Tram che durano da un decennio, cantieri che non finiscono mai, lavori che non iniziano e la colpa è sempre loro per incapacità o per mazzette, in combutta con i grandi imprenditori. I responsabili hanno nome e cognome, esponenti dei partiti che hanno governato Venezia. I responsabili sono anche i cosiddetti partiti dell'opposizione (Forza Italia ed i fascisti) per la loro finta opposizione e la loro vera occupazione delle careghe. La banda che governa questa città è una banda di criminali. Non votiamoli, facciamo sentire finalmente la nostra voce, partecipate al comitato Tuttinpiedi e facciamogli capire cosa potrebbe succedere l'anno prossimo alle elezioni comunali. PRIMA CHE SIA TROPPO TARDI: QUESTI NON LI VOTIAMO PIÙ! Comitato tuttinpiedi@gmail.com (ci troviamo ogni lunedi alle 21 in Piazza Canova 1, laterale di Viale San Marco)

Bakunin a venezia

in occasione dei 200 anni dalla nascita incontro e dibattito sulla figura e il pensiero di Michail Bakunin (1814-1876) Interverranno: nico berti Il pensiero politico di Bakunin pietro adamo Bakunin e la critica della scienza lorenzo pezzica Bakunin in Italia francesco codello L’istruzione integrale contro la meritocrazia SABATO 17 Maggio 2014 alle ore 14:30 All’Ateneo degli Imperfetti Ateneo degli Imperfetti Via Bottenigo, 209 30175 Marghera (VE) tel. 327.5341096 www.ateneoimperfetti.i

venerdì 9 maggio 2014

BECCARIA E' MORTO , IL BOIA VEGETA . (Articolo apparso su Aranea.noblogs marzo 2014)

Sono infinitamente meno pericolose le passioni del mio vicino che non l’ingiustizia delle leggi, poiché le prime sono contenute dalle mie, mentre nulla arresta, nulla ostacola le ingiustizie della legge. (De Sade) Politici, penalisti e intellettuali democratici celebrano quest’anno i 250 anni dalla prima edizione del trattato Dei delitti e delle pene, dove Cesare Beccaria aveva con forza sostenuto che «non vi è libertà ogni qual volta le Leggi permettono che in alcuni eventi cessi di essere Persona, e diventi cosa». L’illustre autore non poteva immaginare che, dopo due secoli e mezzo, la pena di morte e la tortura oggetto del suo J’accuse appartengono ancora alla realtà di una società che si ritiene civile, evoluta e progressista. Infatti, la storia della tortura continua ad aggiornarsi, attraverso i secoli, i continenti e le diverse forme di dominio, con un medesimo intento punitivo che prescinde ogni altra considerazione sul rispetto dei diritti umani che, a parole, tutti dicono di voler salvaguardare. In realtà, dopo la pubblicazione del Dei delitti e delle pene, subito messo all’Indice dalla Chiesa di Roma, in molti accusarono di eccessivo umanitarismo (oggi si direbbe buonismo..) Beccaria, come fece Immanuel Kant che giunse a sostenere che «il diritto di punire è il diritto del sovrano nei confronti dei suoi sudditi di infliggere loro una pena dolorosa» perché altrimenti «il diritto cede, l’ordine crolla, il legame sociale si sfalda, lo Stato vacilla». D’altronde secondo Kant, «nel momento in cui la legge non può fondarsi sul bene, quale principio superiore, essa non deve nemmeno trovare la sanzione del meglio, quale volontà del giusto» (G.Deleuze). Nonostante i risibili tentativi di chi oggi cerca di rivalutarlo come un filosofo “anarchico”, Kant in questo modo si dimostrava invece preoccupato dal potenziale sovversivo insito nelle tesi di Beccaria che negava alle istituzioni e alla comunità il diritto d’arrogarsi alcun potere che non sia loro direttamente trasferito dalla volontà dei singoli individui concreti. Analoga incapacità, peraltro, si riscontra ancora in questo secolo al punto che il ricorso sistematico alla tortura nei confronti dei sospetti terroristi, negli Usa è stato ritenuto un mezzo giustificato dal fine persino da settori ed esponenti liberal, quali ad esempio Alan Dershowitz, esimio professore di legge ad Harvard, favorevole alla sua formale legalizzazione, riecheggiando la cosiddetta “eccezione” di Josef von Sonnenfels, consigliere della corona asburgica. Così, pur in contrasto con tutte le convenzioni e i trattati internazionali, il presente e persino il futuro continuano a non liberarsi dal passato, un passato che ci riporta, senza soluzione di continuità, per vincere, l’uno il tradimento e l’altra l’eresia, sia lo Stato che la Chiesa si sono avvalsi infatti di tale metodo basato sul terrore. Nel 1252, fu Innocenzo IV, nella bolla papale Ad extirpanda a introdurre la tortura come metodo per la ricerca della verità; d’altronde, l’idea stessa di “castigo divino” implicava il principio per il quale, attraverso la sofferenza, era possibile cancellare la colpa riscattandola attraverso la punizione inflitta, sacralizzando così la coincidenza di significato tra dolore e pena e, conseguentemente, benedicendo la figura del boia e dei patimenti impartiti dall’Inquisizione. Questa tetra immagine ci permette di aprire una riflessione sull’istituzione e l’idea stessa di Giustizia, secondo quanto suggerisce Rafael Sánchez Ferlosio che identifica «i giudici, l’avvocato difensore e il pubblico ministero come il personale di servizio del boia». Un’idea da rivoltare in maniera radicale, se si vuole comprenderne realmente l’essenza o, come scrive Ferlosio, è necessario percorrere a ritroso la strada così come ci appare, dissimulata dalla morale dominante e dall’assolutismo legalitario. Considerata infatti l’evidenza per cui la Giustizia continua ad essere soprattutto sinonimo di vendetta, vedendo la priorità del castigare prevalere persino su quella del giudicare, per giungere alla somministrazione del dolore a dei corpi (segregazione, isolamento, tortura, stupro, pena capitale…) e non per provvedere alla riparazione reale dell’ingiustizia, al soccorso della vittima e alla risoluzione preventiva delle cause del delitto. Non appare perciò azzardato condividere l’interrogativo di Ferlosio: «Non sarà dunque, in realtà, il boia il più antico dei funzionari, intorno al quale hanno poi via via preso forma tutti gli altri tramiti anteposti, coi loro corrispondenti funzionari, al cruento proposito della punizione?» Se nei regimi dittatoriali questo aspetto totalitario appare intrinseco alle rispettive ideologie liberticide, nelle democrazie appare dissimulato e coperto dalla ragione “superiore”, a tutela di una sicurezza collettiva minacciata da presunti nemici esterni e interni. Per cui, anche negli Stati liberali, il confine tra azione politica legale e abuso criminale tende ad annullarsi con la complicità di milioni di “spettatori consenzienti” che ritengono come normale e persino plaudono il lavoro dei torturatori, assieme all’esistenza dei campi di concentramento, alle violenze sessuali autorizzate, alla soppressione delle libertà formali, nonché agli omicidi mirati e alle attività terroristiche messe in atto dagli apparati statali. A titolo d’esempio, basta ricordare che lo Stato italiano, presentato ogni giorno come garante costituzionale della libertà e della legalità, dimostra il proprio livello di civiltà giuridica, a tutt’oggi non ha ancora introdotto il reato di tortura nel codice penale e non ha abolito l’ergastolo, dopo essersi presto assolto per le torture e gli stupri perpetrati – e fotografati – dai parà italiani in Somalia durante la missione Restore Hope (1992-’94). Un presente che se da un lato può far apparire Beccaria un simpatico utopista, dall’altro conferma gli sviluppi della sua critica che sono stati ritrovati alcuni anni fa sotto forma di suoi appunti in calce ad una copia dei suoi scritti. In queste annotazioni Beccaria faceva intuire l’intenzione di rivedere la sua opera, giungendo ad una critica radicale e persino con aspetti libertari della pena e del controllo sociale sugli individui, mettendo in discussione il diritto delle istituzioni di limitare o addirittura sopprimere la vita, per il semplice fatto che questo diritto non può venir loro trasferito dagli individui. Da qui, nella consapevolezza che non esiste libertà nella scelta di farsi schiavizzare, tanto meno è ammissibile che un individuo si sottometta all’arbitrio dello Stato nel disporre della sua vita e della sua morte. Altra Informazione

martedì 6 maggio 2014

ALPINI ? NO GRAZIE !

Mentre si avvicina il centesimo anniversario dell’inizio della prima guerra mondiale i bottegai del Friuli Venezia Giulia si fregano le mani compiaciuti al pensiero dei profitti che potranno ricavare dalle “celebrazioni “ dell’immensa e assurda carneficina. A breve si terrà a Gorizia la “Borsa europea del turismo della Grande Guerra” allo scopo di lanciare un percorso turistico che richiami visitatori da tutta Europa per i prossimi quattro anni, mentre le iniziative commerciali non si contano più. Le vittime civili e militari del conflitto vengono così assassinate per l’ennesima volta: prima uccise dal militarismo, poi imbalsamate dal fascismo, infine triturate dalla mercificazione turistica e digerite nei talk show culturali. In questo nazionalismo da fast food trova il suo degno spazio l’adunata degli alpini di Pordenone. Un quotidiano locale arriva a scrivere (parole testuali): “Noi siamo alpini. Siamo alpini immortali, perché il bene e il male ci saranno sempre nell’umanità e la nostra sorte è di difendere il bene […] “. Qui lo sforzo lirico del giornalista raggiunge le vette del delirio… Lotta eterna tra il bene e il male ? MA DI CHE COSA DIAVOLO STIAMO PARLANDO ? Gli alpini sono semplicemente un corpo armato dell’esercito italiano creato per combattere e uccidere ! Una Italia che, oltre tutto, non ha mai combattuto una sola guerra difensiva nel corso della sua intera esistenza, ma solo guerre di aggressione nei confronti di altri popoli ! È lo stesso grado di rimozione che troviamo nel tempio di Cargnacco (UD). Qui le ingenue immagini dipinte dai superstiti raccontano gli orrori della campagna di Russia, quando una intera armata venne annientata prima ancora dal freddo che dagli attacchi delle forze sovietiche. Eppure manca qui ogni valutazione critica o autocritica: cosa ci fanno gli alpini in Russia ? chi ce li ha mandati ? a quale scopo ? Le responsabilità del nazifascismo sono completamente oscurate. Tra qualche anno vedremo i turisti visitare il tempio mangiando pop corn e scolando birre così come avviene oggi passeggiando tra le trincee della “Grande guerra”. La stupidità umana è sempre stata la migliore alleata del militarismo e del nazionalismo. Una stupidità volutamente alimentata dallo Stato. ALPINI E MILITARISMO ? NO GRAZIE ! da affinitàlibertarie http://affinitalibertarie.noblogs.org/2014/05/02/alpini-no-grazie/

Dove sono in nostri

Numeri. Assoluti ed in percentuale. E poi grafici. Istogrammi. E le "torte". In bianco e nero. Sono la prima cosa che lo sguardo coglie al solo sfogliare questo volume di 200 pagine circa. Beh, di questi tempi è una caratteristica sorprendente che, sì, colpisce. Setacciate le fonti Istat (classificazione Ateco delle attività economiche appunto), fonti INPS, ministeriali, Eurostat, OCSE, ABI, sindacali... Riprese fonti classiche: insostituibile Marx soprattutto. E un pizzico di Debord. Per costruire un duplice telaio. Quello tematico: ri-trovare oggi nella materialità dei numeri e nella loro interpretazione i nostri: il proletariato, gli sfruttati, i non-possessori dei mezzi di produzione, la classe, i subordinati, i dipendenti salariati, le trasformazioni avvenute nel mondo del lavoro. Quello politico: smontare alcuni miti costruiti negli ultimi 20 anni (deindustrializzazione, scomparsa della classe, fine del proletariato, era della moltitudine, del precariato cognitivo, delle lotte madri di tutte le altre, delle disobbedienze di turno) per riposizionarsi nell'unica centralità che conta (quella proletaria), e ri-costruire sulla base della materialità dei dati una precisa prassi di lotta: "supportare la resistenza" vertenziale, "ma preparare l'offensiva" politica. Sullo studio di questa impressionante mole di dati si fonda dunque questa presa di posizione netta che caratterizza l'attività di ricerca e di lotta del collettivo Clash City Workers, al momento attivo - si apprende dalla quarta di copertina - a Napoli, Roma, Firenze, Padova. Dati pubblici, già disponibili ed usati anche in maniera superficiale in precedenza. Ma qui diventano dati economicamente intellegibili, politicamente significativi per un uso collettivo anticapitalista. Non si può dunque che salutare con piacere questo ritorno ad un'analisi strutturale classica. Ma, per ogni settore lavorativo, dopo aver dato conto della sua materialità, il collettivo CCW prova a dare anche indicazioni di intervento, senza nascondersi difficoltà e con opportuna prudenza. Con un obiettivo che però attraversa la lotta sindacale e che è quello di acquisire la "coscienza di sé, la coscienza di classe" (pag.197). Ma come? Vediamo. Nel capitolo finale, gli autori - senza presumere di inventare nulla di nuovo - si preoccupano di dare delle opportune indicazioni pratiche che qui scorriamo velocemente. La prima è "ricostruire la filiera [di un settore produttivo] agendo su ogni punto per creare l'alleanza più vasta possibile fra i lavoratori coinvolti nella produzione estesa" (pag.180). Ma farlo anche ad un livello internazionale, creando network internazionali di filiera. Agire sulle contraddizioni della questione femminile e degli immigrati (pag.183-186). Saper collocare la questione meridionale nella questione sociale nazionale e viceversa (pag.186-190). Lotta al neocorporativismo (pag.190-197). Qui un'analisi non ideologica del ruolo del sindacalismo confederale dal 1992 in poi. "Evitare un errore che è stato fatto e rifatto dalla sinistra negli ultimi venti anni. Quello di pensare che ci siano scorciatoie che ci permettano di rappresentare la classe, attraverso parole d'ordine o cartelli elettorali" (pag.197) A pag. 198, gli autori sembrano dichiarare a quale livello intendono fissare il loro compito: "(...) ogni forma sindacale (dall'autorganizzazione dei lavoratori, al sindacato di base, fino a quello confederale e autonomo) può e deve essere impiegata per entrare in contatto con quanti più lavoratori è possibile". E fin qui siamo nella prima parte dell'indicazione strategico-tattica "supportare la resistenza, ma preparare l'offensiva" (pag. 200). Per preparare l'offensiva politica occorre che ogni opzione, ogni formula, ogni pratica va valutata in base alla "definizione quanto più chiara possibile dell'interesse proletario" (pag. 200). "Parliamo dei rapporti di produzione!" (pag. 200). "Siamo per il massimo sviluppo delle forze produttive, per l'organizzazione del lavoro e per le innovazioni tecnologiche che liberano il tempo e alleggeriscono il lavoro, per l'utilizzo a nostro vantaggio di tutto ciò che il capitale unisce" (pag. 200). "(...) accumulare le forze ... prendendoci le case, le merci, i trasporti, il denaro e tutto ciò che abbiamo prodotto e di cui la borghesia si è appropriata" (pag. 200). Infine "(...) lavorare tutti, lavorare meno e a salari più alti" (pag. 202) è la rivendicazione che deriva dal fatto che "l'indice più chiaro per misurare i rapporti di forza tra le classi è la quota di plusvalore che viene estratto dal proletariato (...)" (pag. 201-202). Non è esattamente il linguaggio che si era soliti ascoltare negli ambienti di movimento fino a pochi anni fa. Rimane però non esplicitata fino in fondo qual è la funzione politica a cui gli autori pensano. Se il contatto con la classe può e deve avvenire per via vertenziale/rivendicativa nonché organizzata sindacalmente, vi è una sola strada: far parte di quella filiera produttiva in quanto lavoratore o lavoratrice ed organizzare il conflitto insieme agli/alle altri/e, contribuendo a far crescere la coscienza di classe nella lotta sul posto di lavoro. Oppure incontrare i/le lavoratori/lavoratrici nel territorio sulla faglia di altre contraddizioni sociali costruendo organismi di base con cui sollevare vertenzialità e conflitto (abitare, servizi, ambiente...) e di cui si è membri naturali, perché residenti nel medesimo quartiere o nel medesimo territorio. Nella prassi del "dualismo organizzativo" di cultura comunista-anarchica, la funzione espressa dall'organizzazione politica è del tutto dialettica e dinamica rispetto all'organizzazione di massa (sindacato, comitato di lotta, di quartiere, ecc.); i militanti dell'organizzazione politica sono parte della classe, in cui vi svolgono un ruolo interno di orientamento delle idee e non di direzione esterna. Stare col proletariato vuol dire porsi inizialmente al livello di coscienza di classe che esso esprime in un dato momento storico. Partecipare con tutti/e alla crescita della coscienza di sé e della coscienza del proprio ruolo come classe. Le esperienze storico-politiche sostitutive della classe (quella leninista in generale) oppure quale organo della classe (quelle bordighiste in generale) hanno - su questo versante - dimostrato ampiamente i loro limiti ed errori, alimentando un processo di cessione di coscienza di sé e di titolarità decisionale alle strutture esterne del partito. Con conseguente deleteri meccanismi di delega, di deresponsabilizzazione, di inutilità degli organismi di base. Oggi quel poco che si muove sul piano delle lotte sociali e proletarie "del grigio lavoro quotidiano" (pag.197), cerca di farlo su basi completamente diverse: lo fa su basi di prassi libertaria. Ma questo gli autori di questo straordinario contributo all'analisi ed alle sorti della lotta di classe lo sanno benissimo.

Ancora sul Primo Maggio: costruire un nuovo movimento dei lavoratori e delle lavoratrici

Comunicato anarchico internazionalista Breve storia del Primo Maggio Il Primo Maggio ricorda i martiri di Haymarket a Chicago. 127 anni fa questi anarchici di Chicago, che erano influenti organizzatori, portavoce e pubblicisti all'interno del movimento operaio di Chicago, contribuirono alle lotte del periodo, non solo per le 8 ore, ma anche per l'emancipazione sociale da tutte le forme di oppressione. Le origini del Primo Maggio risalgono al 4 maggio 1886 in cui avvenne il massacro dell'Haymarket. Quella giornata iniziò con una memorabile manifestazione di lavoratori in sciopero che chiedevano le 8 ore, si esacerbò per una bomba lanciata da uno sconosciuto mentre la polizia disperdeva i pacifici manifestanti. Ci furono scontri a fuoco che portarono alla morte di 7 poliziotti e di 4 persone con un certo numero di feriti. Otto anarchici vennero accusati di cospirazione nel corso del processo che seguì. Sebbene non ci fossero prove fondate che qualcuno degli 8 accusati avesse lanciato la bomba, sette di loro vennero condannati a morte ed uno a 15 anni di prigione. La condanna a morte di due dei condannati venne commutata in ergastolo ed un altro si suicidò prima dell'impiccagione. Gli altri 4 vennero impiccati l'11 novembre 1887. Nel 1893, il nuovo governatore dell'Illinois diede la grazia ai condannati rimasti e criticò l'infondatezza delle prove usate nel corso del processo. Da allora, ricordiamo tutti coloro che hanno lottato, che si sono sacrificati e che sono morti per la difesa e per la vittoria della classe lavoratrice. Non solo i martiri dell'Haymarket, ma tutti coloro che sono venuti dopo. Le condizioni attuali Col sangue, il sudore, le lacrime e con dure battaglie, la classe lavoratrice ha continuato a lottare riuscendo a sfidare il capitalismo e lo Stato. Nonostante questi sforzi collettivi, le nostre piccole conquiste duramente ottenute sono sotto continui attacchi. Il peggioramento delle condizioni di lavoro, la crescente precarietà ed il lavoro sottopagato, la deindustrializzazione e la marginalità sono diventati la normalità. I governi, col pretesto della crisi hanno imposto, manovra dopo manovra, misure sociali di austerità in cui i tagli alla spesa pubblica ed ai servizi colpiscono i lavoratori e le famiglie mentre i più ricchi possono continuare a trarre profitti dal frutto del nostro lavoro. Con l'emergere della xenofobia tramite la carta dei valori del Parti Québécois, i recenti successi del Front National in Francia, di Alba Dorata in Grecia fino all'emergere del fascismo in Ucraina, non ci deve sorprendere che in questi tempi di crisi, quando le fondamenta del capitalismo sono messe a dura prova, vengano fuori formazioni di destra per mistificare, confondere e dividere. In aggiunta alla disperazione ed alla confusione, lo Stato ed i capitalisti coinvolgono i lavoratori in nuove guerre imperialiste nel Medio Oriente e nell'Europa Orientale, mentre prosegue inarrestabile una irresponsabile estrazione di risorse e di devastazione ambientale. Le lotte di oggi e quelle di domani Sebbene stiamo assistendo al continuo espandersi del capitalismo globale e dei suoi alleati fascisti, ogni giorno siamo testimoni di molteplici esempi di lotta che incoraggiano i lavoratori. In tutto il Nord America, vediamo studenti e lavoratori che sperimentano nuove forme di lotta, di organizzazione e di militanza. I popoli indigeni del Nord America sono impegnati in molteplici lotte e prendono posizione contro lo sviluppo capitalistico sulle loro terre. I clandestini negli USA sono protagonisti di azioni dirette per fermare le deportazioni e gli sgomberi. Nei quartieri di Seattle sono stati boicottati con successo i test aziendali obbligatori. Attraverso reti di solidarietà e centri di lavoratori, questi in molteplici città stanno prendendo posizione e reagendo al rampante furto del salario. A livello internazionale, in Bosnia-Erzegovina, stiamo assistendo a lavoratori che, seppur tradizionalmente divisi dalla violenza settaria, si mettono insieme come classe per lottare contro l'austerità e la corruzione, usando la democrazia diretta e tattiche combattive per radunare tutti i segmenti della classe lavoratrice contro i suoi nemici. In tutta Europa, vediamo come l'antifascismo stia affrontando l'ondata di razzismo nelle strade. Negli ultimi giorni, in Cina ci sono lavoratori che stanno partecipando al più grande sciopero generale nella storia del paese. La Spagna, la Francia, la Grecia ed altri paesi europei sono attraversati dalle proteste contro l'austerity. In Bangladesh i lavoratori tessili con salari da fame stanno scioperando e contrastando la repressione per ottenere miglioramenti salariali. Per un nuovo movimento dei lavoratori e delle lavoratrici Per troppo tempo i maggiori segmenti della classe lavoratrice se ne sono stati dormienti nell'illusione che il mutamento potesse essere delegato ad organizzazioni esterne o ai partiti. Quando le nostre lotte cadono vittime delle burocrazie e vengono delegate ad altri, noi ne perdiamo la titolarità ed il controllo con la conseguente perdita di molte conquiste ottenute tramite esse. Una vittoria della classe lavoratrice è possibile solo se è la nostra classe a guidare le lotte alla vittoria. Dalla battaglia per le 8 ore alle lotte degli ultimi anni sale forte la necessità di organizzarsi per contrastare la guerra scatenata contro i lavoratori in ogni paese. In queste lotte possiamo iniziare a scorgere un futuro alternativo e le sperimentazioni per giungervi. Un nuovo movimento dei lavoratori/trici deve essere organizzato su linee di classe, un movimento che non attende più che la soluzione alle disuguaglianze ed all'oppressione possa giungere dai politici e dai burocrati. Un movimento di lavoratori/trici organizzato autonomamente in organizzazioni sindacali e di territorio democratiche e conflittuali che sostituiscano le forme statali di sindacalismo e di lobbysmo socialdemocratico che hanno dominato e compromesso gran parte delle lotte degli ultimi decenni. Questo nuovo movimento di lavoratori e lavoratrici dovrebbe allearsi con i movimenti di sostegni, quali quelli contro i tagli ai servizi sociali ed all'istruzione, quelli che cercano di proteggere l'ambiente e quei movimenti contro tutte le forme di oppressione e di disuguaglianza. Vediamo l'interconnessione di varie forme di oppressione quando facciamo queste lotte, insieme alla lotte contro l'espandersi della brutalità delle forze di polizia e delle incarcerazioni, la criminalizzazione dei poveri e dei clandestini, ed i continui attacchi alla libertà di riproduzione. Le lotte contro l'oppressione non hanno futuro senza la forza della classe lavoratrice e le lotte della classe lavoratrice non hanno futuro senza il riconoscimento che una ferita inferta ad uno è una ferita inferta a tutti e con il superamento all'interno della nostra classe di tutte le idee e le pratiche reazionarie. Nonostante quanto tutto questo possa sembrare ancora in embrione o di piccole dimensioni, le lotte recenti hanno dimostrato che la vittoria della classe lavoratrice risiede nelle lotte gestite e controllate dai lavoratori stessi al di fuori dei partiti socialdemocratici o delle verticistiche attività di lobby, nei movimenti sociali di base autonomi ed autogestiti. Portiamo un nuovo mondo In quanto anarchici cerchiamo di portare avanti la battaglia delle idee e della sperimentazione di nuove forme di lotta. Dobbiamo anche stare all'interno dei movimenti di massa dei lavoratori, democratici, conflittuali ed autonomi, e laddove questi movimenti non ci siano, dobbiamo cercare di organizzarli. Impegnandoci in queste lotte, costruiamo la necessaria esperienza, diamo inizio ai dibattiti necessari ed affrontiamo l'attuale austerità imposta dalle classi dominanti in barba alla legislazione civile ed a quella sul lavoro. Attraverso queste lotte, costruiamo ed accumuliamo la forza necessaria per difendere la nostra classe oggi mentre erigiamo le fondamenta del futuro. Attraverso la lotta, noi in quanto classe, iniziamo ad immaginare e ad organizzarci per una società senza classe, a costruire una società senza il potere, senza il profitto ed il privilegio, in cui le persone nei luoghi di lavoro e nei quartieri possano decidere cosa e come lavorare. Questo Primo Maggio, come tutti gli altri, è un appello a tutti i lavoratori per organizzarsi contro lo sfruttamento quotidiano imposto dal capitalismo. Nello spirito di coloro che hanno lottato perla giornata di 8 ore, continuiamo a combattere per l'avanzamento ed il miglioramento delle condizioni della nostra classe mentre prepariamo e costruiamo la battaglia finale. Per un movimento di lavoratori e lavoratrici autonomo e conflittuale! 1 Maggio 2014 Prairie Struggle Organization (Canada) Workers Solidarity Movement (Irlanda) Zabalaza Anarchist Communist Front (Sud Africa) Organisation Socialiste Libertaire (Svizzera) Federazione dei Comunisti Anarchici (Italia) Workers Solidarity Alliance (USA) Melbourne Anarchist Communist Group (Australia) Collectif Communiste Libertaire-Bienne (Svizzera)

Solidarietà internazionalista anarchica contro la repressione di Stato in Russia

Comunicato anarchico internazionalista All'indomani dei giochi olimpici di Sochi, durante i quali il dittatoriale governo russo ha concesso alle multinazionali ed altri Stati di dare sfogo alla loro cupidigia capitalista tacitando le opposizioni e vietando le manifestazioni, continua senza soste la repressione ai danni di attivisti anticapitalisti, degli anarchici, degli attivisti sindacali, dei movimenti femministi e contro l'omofobia. Il 24 febbraio, 7 oppositori al regime sono stati condannati per aver preso parte ad una manifestazione contro Putin nel 2012, una protesta che voleva denunciare le elezioni presidenziali. Sono stati condannati a 4 anni di detenzione in un lager per aver "procurato disordini" e "violenza contro le forze della legge e dell'ordine". Questo processo politico è stato criticatissimo dall'opposizione che aveva indetto una partecipata manifestazione davanti al tribunale per protestare contro l'autoritarismo e la repressione messi in campo dallo stato russo. Per tutta risposta, tra le 200 e le 400 persone sono state arrestate e condannate a sentenze similari. Fra loro ci sono molti compagni anarchici, come pure anticapitalisti, femministe ed antifascisti. La situazione sta diventando sempre più difficile per i nostri compagni in Russia, specialmente da quando lo stato russo, oltre ad imporsi sistematicamente con la violenza della polizia e con la repressione sia politica che giudiziaria contro gli elementi "più selvaggi", ha iniziato ad incoraggiare i movimenti di estrema destra, legittimando le loro azioni. Non abbiamo dimenticato la vicenda del nostro compagno antifascista Ivan Khutorskoi, ucciso a casa sua nel 2009 dai neo-nazisti. Gli anti-fascisti, gli immigrati, le femministe, i gay, le lesbiche ed i transessuali sono vittime di omicidi, violenza ed intimidazioni da parte dei fascisti e dello Stato. Il che non deve sorprendere se si pensa che, ad esempio, la persecuzione degli omosessuali è del tutto legittima in Russia (grazie alla legislazione contro la "propaganda omosessuale"). Ma gli anarchici non si faranno intimidire. Lo scorso 9 aprile, alcuni anarchici che avevano organizzato una manifestazione a Petrozavodsk contro la guerra in Ucraina, sono stati sequestrati, picchiati e sottoposti ad abusi da uomini mascherati. Queste persone, vestiti come i poliziotti, non hanno esitato a minacciare di morte gli attivisti. Le manifestazioni contro la guerra sono state filmate ed infiltrate dalle forze di Stato, dalla polizia e da forze paramilitari. Mentre l'imperialismo russo colpisce in Ucraina ed in Crimea per salvaguardare i suoi interessi economici e politici nella regione, le manifestazioni dell'opposizione sono diventate quasi impossibili oppure permesse ma a costo di violenze, incarcerazioni e rischio di morte. Gli Stati occidentali preferiscono lambiccarsi su un intervento in Ucraina, giusto per prendersi la loro parte contro il gigante russo. Ma il loro silenzio fa rumore quando si tratta della violazione dei diritti umani in Russia, in particolare quelli concernenti gli omosessuali, denunciati dagli organismi internazionali. Contro il terrorismo di stato, portiamo il nostro sostegno ai compagni anarchici russi, agli anticapitalisti, alle femministe, a chi lotta contro l'omofobia, agli antifascisti ed agli attivisti sindacali. Sosteniamo le loro lotte e le iniziative auto-organizzate che riescono a promuovere. Denunciamo la repressione dei movimenti sociali in Russia, la repressione e l'espulsione della "popolazione sgradita" (immigrati, gay, lesbiche, bisessuali, transessuali...). La solidarietà internazionale è la nostra forza per combattere lo Stato, le sue leggi liberticide, la violenza dei gruppi fascisti al suo servizio. La rete Anarkismo, che comprende circa trenta organizzazioni in tutto il mondo, chiede la fine della repressione in Russia, l'abrogazione delle leggi contro gli omosessuali, come pure di tutte le leggi che impediscono la libertà d'espressione, Chiediamo la liberazione di tutti i prigionieri politici. Contro la repressione e l'autoritarismo, autodifesa ed auto-organizzazione internazionale e popolare! Anarkismo.net Alternative Libertaire (Francia) Federazione dei Comunisti Anarchici (Italia) Libertære Socialister (Danimarca) Melbourne Anarchist Communist Group (Australia) Prairie Struggle Organization (Canada) Organisation Socialiste Libertaire (Svizzera) Collectif Communiste Libertaire Bienne (Svizzera)

TU SEI MALEDETTA !

Venerdì 9 maggio ore 17.30 Biblioteca di Marghera In occasione del centenario dell’inizio della Prima Guerra Mondiale inaugurazione TU SEI MALEDETTA! mostra delle opere di Elis Fraccaro fabbro e scultore

SU BENICOMUNISMO DI PIERO BERNOCCHI , di Michele Nobile

in www.utopiarossa.blogspot.com In Benicomunismo di Piero Bernocchi possiamo vedere tre grandi campi aperti alla discussione: la riflessione teorica sulle ragioni interne del fallimento del comunismo novecentesco; la discussione intorno al capitalismo contemporaneo; l’emergere di una nuova prospettiva politica e ideale di democrazia radicale, indicata nel titolo. Il mio accordo con le tesi del libro è molto ampio, specialmente su quelle che meno sono digeribili per la sinistra italiana. Si vedrà che esistono alcune divergenze d’analisi, anche importanti; ma molto più del computo delle concordanze e delle divergenze quel che conta, ai miei occhi, è la prospettiva d’insieme, la tensione ideale, la direzione verso cui si muove questo lavoro. Nel modo più sintetico, in Benicomunismo è viva e forte l’aspirazione a liberare l’anticapitalismo dal professionismo politico e dallo statalismo, in uno spirito che può dirsi libertario. L’asse unificante le diverse tematiche del libro ritengo sia quello del rapporto tra etica e politica. Che è poi la condensazione di tutti i problemi e il nodo cruciale veramente fondamentale per il futuro dell’umanità. La coerenza tra mezzi e fine e la politica come professione Il primo e fondamentale accordo con Bernocchi è di natura etico-politica: in nessun caso il fine può giustificare l’uso di mezzi non coerenti con esso perché «cattivi mezzi producono cattivi fini, e viceversa» (p. 268). Certamente questo non è il principio sufficiente per costruire una prospettiva anticapitalista ma, altrettanto certamente, esso è il principio basilare e imprescindibile da cui muovere nella direzione giusta. Se applicato con coraggio e rigore all’intero spettro della pratica politica, della riflessione teorica e della ricostruzione storiografica, le sue conseguenze sono enormi, si susseguono a cascata. Innanzitutto, applicandolo nel campo della politica che aspira a rivoluzionare il mondo, il criterio della congruenza tra mezzi e fine si può formulare in questo modo, assai noto ma concretamente negato, sia nella realtà istituzionale e sociale degli Stati sedicenti socialisti sia nella prassi dei partiti di sinistra nei paesi capitalistici: che la liberazione degli oppressi può essere opera solo degli stessi oppressi, sia nel processo di rivoluzionamento della società capitalistica sia in quello di costruzione di un nuovo ordine sociale. Ne consegue che nessun apparato e nessuna forma di rappresentanza possono sostituirsi all’azione e all’auto-organizzazione delle classi dominate e delle categorie sociali impegnate in questi processi, di rottura e di costruzione. Essi sono distinti ma concatenati: non si tratta solo della successione temporale ma del fatto che la forma e la strutturazione che, fin dall’inizio, assume il movimento di liberazione sociale influisce sull’esito finale. Concordiamo dunque sul fatto che la tragedia del socialismo è stata l’identificazione della socializzazione con la statalizzazione e del partito con la classe, a sua volta omogeneizzata e mitizzata. Quelle fatali identità erano foriere dell’inversione tra mezzi e fine e dello snaturamento dei contenuti stessi del fine. Da molto tempo la parola comunismo può generare equivoci tremendi, al punto che è legittimo chiedersi quanto il nome sia ancora adeguato alla cosa, sia pur dai contorni sfumati, che si intende designare. E ciò essenzialmente per responsabilità degli stessi comunisti, non del nemico, come gli ingenui o i nostalgici possono credere. Tuttavia, a differenza di Bernocchi, non ritengo che Marx abbia responsabilità teorica per questa tragedia (altro potrebbe essere il discorso circa la responsabilità, sua ma non solo, della scissione della Prima internazionale tra le anime dette bakunista e marxista, che fu ed è tuttora nefasta nei suoi effetti). Nella critica dell’economia politica Marx fece benissimo a trattare teoricamente l’insieme dei proletari e l’insieme dei capitalisti come aggregati macroeconomici; d’altra parte, nelle sue analisi di situazioni concrete (ad esempio ne Le lotte di classe in Francia e nel 18 Brumaio) mostrò notevole capacità di differenziare le diverse correnti politiche borghesi e di cogliere i limiti d’azione e di coscienza delle classi dominate. La questione cruciale non è tanto quella dei limiti e delle oscillazioni del pensiero di Marx, che ci sono, ma della formazione e diffusione, nell’ultimo quarto del XIX secolo, di una originale rielaborazione del suo pensiero, che passò per ortodossia e che ebbe per «papa» Karl Kautsky. Questo processo di costruzione ideologica deve spiegarsi con le concrete circostanze e i modi in cui vennero costruiti e funzionarono i partiti e i sindacati operai a cavaliere dei secoli XIX e XX e, in termini più generali, con il modo in cui le organizzazioni del movimento operaio non solo subirono (e subiscono) i molteplici fattori di divisione e di integrazione delle classi dominate nel sistema capitalistico, ma anche li interiorizzarono (e li interiorizzano). La dicotomica divisione del lavoro tra partito e sindacato e l’assunzione che lo Stato, democratico-borghese o socialista, possa incarnare un presunto interesse generale della società (o dei lavoratori), altro non sono che la cristallizzazione nel movimento operaio della capitalistica differenziazione tra le sfere della politica e dell’economia. Quanto alla tesi che il socialismo consista essenzialmente nella statalizzazione dei mezzi di produzione, essa non è altro che l’opposto speculare della forma sociale capitalistica. Con l’aggravante, però, che se nella seconda il potere economico sopra i lavoratori è frammentato, nel socialismo di Stato esso viene concentrato e moltiplicato in modo totalitario. Ai due punti precedenti è poi connessa la tesi della superiorità del partito sull’organizzazione autonoma del movimento sociale, la cui forma estrema ma logica è la dittatura del partito unico sulla classe. Il punto cruciale è la genesi e la riproduzione allargata di un ceto sociale di professionisti della politica (in senso ampio, comprendendovi i funzionari sindacali): che non è da intendersi moralisticamente come una malattia degenerativa o come un tradimento personale e ideologico, bensì come fatto socialmente determinato. I pericoli intrinseci alla forma-partito socialista, al professionismo politico e sindacale, alla separazione tra compiti e istituti della lotta politica e della lotta economica, erano stati razionalmente previsti fin dall’inizio del Novecento, sia nell’ambito della sociologia accademica, da Max Weber e da Robert Michels, sia dal giovane Trotsky e da Rosa Luxemburg, e, ovviamente, dell’anarchismo. In sintesi, si tratta del fenomeno sociale della burocratizzazione (qualcosa di diverso dal mero vendersi al padrone). Se Weber e Michels interpretarono la fenomenologia del burocratismo (come prassi) e della burocrazia (come determinato gruppo sociale) degli istituti operai come un destino o una legge della modernità, Luxemburg ne individuò la causa nella tensione obiettiva, da una parte, tra la tendenza dei partiti e dei sindacati socialisti a costruirsi un seguito di massa operando come organi di riforma del capitalismo, così anteponendo, per dirla alla Bernstein, il «movimento» al fine; e, dall’altra, nella fedeltà dogmatica al fine che tende, però, a farne delle sette. Da qui la divaricazione tra la retorica, i simboli, i riti e i miti, che richiamano l’alta finalità in modi anche ossessivi e intolleranti, e una pratica reale che con quel fine non ha più alcun vivo rapporto, essendo il secondo confinato alla definizione di un’identità ideologica che, col tempo, sarà progressivamente erosa, infine svuotata di senso dagli accomodamenti nel sistema. Operativamente, la divaricazione tra il fine e i modi della pratica si sostanzia nel timore e nell’arginamento della spontaneità, ovvero di quei processi di mobilitazione sociale di massa che si radicalizzano politicamente nell’esperienza concreta della lotta. Ciò che più teme la burocrazia è l’organizzazione della conflittualità sociale in organismi indipendenti, che non costituiscono emanazioni o cinghie di trasmissione della linea del partito. Ciò perché finalità sociale della burocrazia è sempre la salvaguardia e l’espansione del potere dell’apparato nei confronti dei semplici membri del partito e del sindacato, la conquista di una posizione nelle istituzioni e l’acquisizione, per questa via, di uno stabile status sociale. Per questo essa deve sostituire la propria rappresentanza e la propria organizzazione, come mediatrice dei rapporti tra le classi e tra la classe dominata e lo Stato, alla radicalizzazione politica e all’autorganizzazione dei movimenti sociali. La burocrazia è congenitamente avversa al rischio, sempre presente nell’intensificazione della lotta, puntando invece a ciò che, con falso realismo e vero conservatorismo, essa definisce come «obiettivamente possibile» o il meno peggio. Così la sinistra ha precostituito le condizioni per disastri politici, essendo il nemico di classe abbastanza flessibile da usare la burocrazia social-comunista per neutralizzare le spinte sociali radicali, ma non altrettanto timida e codarda quando giunge il momento di sferrare il colpo decisivo; inoltre, la vocazione statalista della burocrazia comporta che essa sia, in effetti, sempre profondamente nazionalista nei suoi orizzonti. La specificità della burocrazia e la questione del capitalismo di Stato È bene ricordare che sia Luxemburg che il giovane Trotsky denunciarono al suo nascere le implicazioni autoritarie e sostituzioniste della concezione leniniana del partito, non a caso un adattamento «rivoluzionario» al quadro autocratico dell’Impero russo dell’idea kautskiana del partito-guida della classe (curioso che quel che è considerato più caratteristico del leninismo sia eredità del centrista archetipico). La polemica anti-leniniana di Luxemburg era coerente con la complessiva battaglia antiburocratica che condusse coerentemente fino alla morte; e quella di Trotsky era quasi contemporanea all’elaborazione degli argomenti che anticipavano la dinamica rivoluzionaria del 1917: un complesso di temi strettamente connessi che forma picchi altissimi, forse i più alti, del pensiero rivoluzionario del XX secolo. Restare ancora al di sotto di quelle elaborazioni all’inizio del XXI secolo è assurdo, irrazionale. Condivido dunque pienamente la critica del professionismo politico e dello statalismo, ma se considero la burocrazia «socialista» un nemico, a differenza di Bernocchi non ritengo però che il problema interpretativo che essa pone si risolva identificandola con una borghesia dominante in società caratterizzabili come capitalismo di Stato. Innanzitutto perché, se il capitale di Stato non è solo possibilità logica ma ricorrente realtà concreta, in alcuni paesi molto estesa (almeno fino agli ultimi decenni del secolo scorso), un’intera economia capitalistica statalizzata, in tutte le sue branche e in tutte le sue scale, mi sembra invece una impossibilità storica. Con Pierre Naville si può dire che nei cosiddetti socialismi esistano scambi di valore e sfruttamento del lavoro salariato (quindi con estrazione di plusvalore); tuttavia, la logica della riproduzione allargata e della distribuzione delle risorse in queste formazioni sociali è retta da regole obiettive diverse da quelle esistenti nel capitalismo. L’irrazionalità macroeconomica e microeconomica dei socialismi di Stato è enorme, ma essa si manifesta in modi e forme diverse da quelle capitalistiche, essendo determinate dai meccanismi di comando, amministrazione e competizione all’interno di una gerarchia strutturata per via politica, dentro e attraverso il partito-Stato. A mia conoscenza, la più ricca trattazione storica del rapporto di lavoro salariale in Unione sovietica e delle sue contraddizioni, micro e macroeconomiche, è in due splendidi lavori di Donald Filtzer, che coprono gli anni dal 1953 al 1991 (Soviet workers and de-stalinization e Soviet workers and the collapse of perestroika, Cambridge University Press, 1992 e 1994). Quel che accomuna la storia dei partiti socialdemocratici e comunisti (o, meglio, di matrice staliniana) è l’integrazione nei sistemi partitici e statali, sia pur con tempi e in modi differenti. Con Bernocchi son dunque d’accordo sul risultato finale. Tuttavia, considerare solo il risultato finale non spiega il percorso della burocratizzazione né attrezza adeguatamente a comprendere il modus operandi della burocrazia, le ragioni della sua egemonia sui lavoratori, oppure la tragicommedia della sinistra italiana post-Pci, Rifondazione, Pdci e Verdi. Il punto è che la burocrazia partitica e sindacale di sinistra, almeno fino a quando si muove nel solco ideologico dell’originale matrice nel movimento operaio, presenta una caratteristica doppiezza. I suoi margini operativi si collocano tra il fine ideologico indicato come socialismo, da realizzare in un futuro indeterminato, e la concreta azione nel presente di mediazione fra le classi antagonistiche, il cui orizzonte è costituito dalla riforma del capitalismo e da un qualche genere di «democrazia progressiva» o «partecipata», di cui è parte integrante l’accesso di detta burocrazia ai governi nazionali e locali dello Stato capitalistico. È la capacità di mantenere questa doppiezza che fonda la credibilità della burocrazia di fronte ai lavoratori e che ne permette l’egemonia sui movimenti di lotta, la riproduzione di un senso d’appartenenza e di un serbatoio di voti. Ed è questa stessa doppiezza che spiega le oscillazioni circa la tattica tra componenti burocratiche «movimentistiche» e «di sinistra» e quelle più disposte al compromesso immediato e di basso profilo, o la differenziazione tra i presunti puristi della tradizione ideologica e i «revisionisti». Un’analisi approfondita dovrebbe distinguere paesi, momenti storici e partiti; ma, fino ai primi anni Ottanta del secolo scorso, perfino i partiti socialdemocratici erano diversi tra loro. Se si tiene conto di questo, credo si possa meglio apprezzare in tutta la sua portata storica il fallimento politico del riformismo socialista, rispetto ai fini da esso postulati, e della logica del meno peggio. E, viceversa, si può meglio valutare la mutazione dei partiti di sinistra realizzatasi nelle ultime due decadi del secolo scorso: l’assunzione definitiva, generale e integrale del capitalismo come orizzonte politico, la rinuncia alla sua riforma e a difendere anche gli interessi minimi dei salariati, consapevolmente subordinati alla competitività e all’accumulazione del capitale, la loro completa statalizzazione e il deciso prevalere delle funzioni di governo rispetto a quella della rappresentanza, sia pur limitata, di interessi sociali (con i corollari dell'impossibilità di esistere senza il finanziamento pubblico e della diffusione della corruzione). È questa mutazione, la convergenza tra partiti di matrice operaia e gli altri, che, a mio parere, costituisce il passaggio decisivo verso regimi politici postdemocratici. Che non sono imposizione dall’estero, da centri di potere transnazionali, ma risultato di una lunga storia, in cui le specificità nazionali si sono combinate con l’interdipendenza continentale e con la riconfigurazione dell’economia mondiale, sfociando nella costruzione di una struttura istituzionale internazionale europea, fin dall’inizio concepita in modo non democratico (si veda a proposito The new old world di Perry Anderson, Verso, London 2011); questa, a sua volta, rafforza e promuove la postdemocrazia. Da questo punto di vista, proprio per quella che era la forza del Pci e della Cgil, l’Italia è un caso esemplare: dell’avvento della postdemocrazia il Pci, i suoi mutanti e la Cgil sono stati protagonisti determinanti. Rompere radicalmente, anche psicologicamente, con l’eredità dei sedicenti socialismi reali Per chi si dice comunista, la cartina di tornasole rivelatrice dell’assimilazione o meno del principio secondo cui i mezzi devono essere adeguati al fine è, a mio parere, questa: si è in grado o no di trarre le logiche conclusioni dal fatto che nel solo biennio del Grande terrore il regime staliniano massacrò almeno 780 mila persone, a cui si devono aggiungere le deportazioni, i morti, le sofferenze e il lavoro schiavistico di milioni di esseri umani imprigionati nell’arcipelago Gulag, esempio macroscopico di regressione storica e di civiltà? Si è disposti o no ad ammettere, psicologicamente e intellettualmente, e a indagarne fino in fondo le ragioni, che, fino allo scatenamento della logica genocida del nazismo durante la guerra, nessuno massacrò i suoi concittadini più di Stalin, neanche Hitler? Ritengo che le rispettive radici dello stalinismo e del nazismo affondassero in processi storici molto diversi, che gli orrori dello stalinismo furono figli degeneri di una rivoluzione sociale e non di una società capitalistica in una particolare situazione storica, come invece il fascismo e il nazismo. Si può, si deve discutere, della genesi e del funzionamento del sistema sovietico; si deve discutere se i socialismi reali fossero una forma di capitalismo di Stato, di collettivismo burocratico, di Stato operaio degenerato, o un qualche tipo di formazione sociale nuova e instabile ecc. Tuttavia, la vera linea di demarcazione è di natura etico-politica. Occorre essere assolutamente limpidi e radicali nel giudizio, riconoscere lo stalinismo e le sue varianti (tra cui il maoismo) per quello che furono o per quel che ancora oggi sono: dei nemici della liberazione dell’umanità dallo sfruttamento e dall’oppressione, diversi dal capitalismo (per chi scrive) ma almeno pari al capitalismo nelle sue peggiori e oppressive espressioni politiche. È chiaro che un giudizio così severo si estende oltre i periodi più drammatici di ingegneria sociale e le personalità feroci, investe l’intera storia dello Stato detto socialista in tutti i campi, richiede la ricerca critica anche intorno ai suoi tempi «eroici», non permette illusioni sulla riformabilità di questo genere di potere statale (si ricordino le illusioni su Gorbaciov) né nostalgici piagnistei sulla sua ingloriosa autodistruzione (le cui linee fondamentali, errate solo nei tempi, erano state previste da Trotsky mezzo secolo prima). Altra cosa è la lotta contro gli effetti della restaurazione del capitalismo (o del capitalismo nella sua forma «occidentale»). Sul lungo periodo, a poco vale denunciare le nefandezze dell’imperialismo e nulla vale compilare libri neri del capitalismo se non si è capaci di dire la semplice verità su quel che furono (e sono) i cosiddetti socialismi reali. A poco serve denunciare le nefandezze dell’imperialismo e del capitalismo se non si è capaci di dire la semplice verità su quel che furono (e sono) i cosiddetti socialismi reali. Il negazionismo o anche solo la sottovalutazione degli orrori sovietici o della Cina maoista (e di altri «socialismi») sono intollerabili ed è del tutto inaccettabile l’argomento, giustamente criticato da Bernocchi all’inizio del libro, per cui «non si può gettar via il bambino insieme all’acqua sporca». No, il «bambino» va «gettato» perché ha prodotto una montagna di escrementi che hanno sporcato, forse irrimediabilmente, lo stesso termine comunismo. Se non si riesce in questo, allora sarà ben difficile procedere nel riesame razionale dei miti, dei metodi e degli orientamenti politici che discendono dal cosiddetto comunismo novecentesco. Attraverso mutamenti della forma e dl linguaggio essi sono ancora operanti. Un esempio di cecità etica e strategica: la politica internazionale dei socialismi reali e «l’unità della sinistra»Una forma diffusa di giustificazionismo dei regimi dei socialismi reali è l’assunzione, specie per l’Urss, che essi abbiano svolto una funzione storicamente progressiva come validi contrappesi all’imperialismo nell’arena geopolitica. Si finisce così col confondere la lotta contro l’imperialismo e il militarismo capitalistici con il sostegno politico delle caste dominanti dette socialiste (se non di dittature nazionaliste), altrettanto militaristiche ed oppressive (per quanto non capaci, lor malgrado, della stessa forza espansiva del capitalismo). La tesi può coesistere anche con la presa di distanza dal regime staliniano o, almeno, dai suoi aspetti più feroci. In questo caso siamo in presenza di una variante della più tradizionale «teoria realistica» delle relazioni internazionali, per cui la politica interna è separata da quella internazionale. Non è però così. Sia la politica interna che quella internazionale di tutte le burocrazie sono soggette a tremende inversioni ma, pur nelle oscillazioni, c’è una sostanziale solidarietà negli orientamenti dentro e fuori i confini. Un diffuso mito giustificazionista è quello basato sul ruolo dell’Armata rossa nella liberazione dell’Europa dal nazismo. A questo proposito, dovrebbe bastare ricordare che, se è vero che fu l’Unione sovietica a sopportare l’urto maggiore delle armate naziste dopo il giugno 1941 e poi a liberare da esse gran parte dell’Europa, tuttavia fu il patto tra Hitler e Stalin (per interposti ministri) nel 1939 che segnò l’inizio alla Seconda guerra mondiale: ad esso seguì immediatamente l’invasione e la spartizione della Polonia di comune accordo tra la Germania nazista e l’Unione sovietica. Se si vuol ragionare in modo geopoliticamente o strategicamente onesto, allora non dovrebbe essere difficile comprendere che l’alleanza di fatto fra i due totalitarismi fu quanto permise a Hitler di conquistare quasi tutta l’Europa continentale, essendosi assicurato il confine orientale e venendo pure rifornito di materie prime essenziali per la guerra dall’Unione sovietica, fino all’ultimissimo momento prima di rivolgersi contro di essa. La solidarietà con le atroci sofferenze dei popoli sovietici sotto il tallone nazista non può far passare in secondo piano il fatto che l’Armata rossa fosse strumento al servizio del totalitarismo sovietico e che esso si sia imposto con la forza nell’Europa centrale e orientale. Le rivolte dei lavoratori e le conseguenti repressioni in Germania orientale, Ungheria, Cecoslovacchia, Polonia, sono lì a testimoniarlo. Questo è solo un esempio, ma storicamente e psicologicamente importante, per illustrare un concetto più generale: la politica estera sovietica e degli altri «socialismi» ha sempre avuto (ed ha) natura nazionalista e conservatrice. Essa ha sempre mirato a salvaguardare la riproduzione della casta dominante, utilizzando a questo scopo le lotte di liberazione e il sostegno a regimi nazionalisti (perfino anticomunisti in politica interna) come pedine per contrattare i termini della coesistenza col capitalismo come sistema mondiale e l’accordo con questo o quello Stato imperialista, si trattasse delle potenze liberali, della Germania nazista, degli Stati Uniti d’America. E gli «aiuti» internazionali sono sempre stati dei frutti avvelenati, come fu, ad esempio, nei casi dei repubblicani in Spagna e di Cuba. Se quel che precede non basta, faccio notare che la costruzione e il mantenimento di arsenali nucleari è la forma estrema di attentato all’esistenza dell’umanità: dunque, la sola minaccia del possibile uso dell’arma nucleare contro i popoli dei paesi capitalistici avanzati è sufficiente a far piazza pulita del sedicente internazionalismo proletario, essendo la forma assoluta dell’inversione tra i mezzi e il fine (presunto) del progresso dell’umanità. Karl Kautsky fu detto rinnegato per molto, ma molto meno. Sotto la formula dell’«unità della sinistra», della gauche plurielle e simili è ancor viva, in mutata forma e linguaggio, una diretta eredità della politica estera staliniana, forse per i più inconsapevole ma pure molto concreta, visto che continua a influire concretamente nella politica italiana (e non solo): quella dei fronti uniti o popolari contro la destra, più o meno fascista, connessa al mitico obiettivo della «unità della sinistra» per scopi elettorali e governativi. Questa linea era ed è percepita come la versione «buona» della politica (estera) sovietica, una svolta feconda dopo quella settaria dei primissimi anni Trenta, che equiparava socialdemocrazia e fascismo (e che agevolò l’ascesa del nazismo). Allora si trattava di cercare l’alleanza con le potenze liberali per bilanciare il riarmo e l’espansione della Germania nazista, fino all’improvviso ribaltone del 1939. Ebbene, il nocciolo del frontismo non è l’espansione della lotta di classe intorno a specifici obiettivi unificanti ma, al contrario, la subordinazione dei movimenti di lotta e della volontà di cambiamento all’alleanza con i partiti e la borghesia «progressisti», secondo la logica dei due tempi e, quindi, della rinuncia di fatto a costruire una prospettiva anticapitalistica. Perché l’operazione vada a buon fine occorre che la purezza del fine sia garantita da un riferimento esterno (l’Urss, o altro caso esemplare), dai miti e dai riti della tradizione, dal carisma del capo. Una manifestazione di questa vecchia logica frontista nella sinistra italiana è stata la trasformazione del berlusconismo in male assoluto, passando sopra il fatto che, in tutti gli campi, il grosso dell’innovazione cosiddetta neoliberista in Italia fu compiuta dal centrosinistra, con cui la sinistra post-Pci ha collaborato per anni, al livello del governo nazionale e dei governi regionali, e con cui una parte ancora collabora mentre l’altra vorrebbe poter collaborare, se soltanto l’interlocutore gli riconoscesse una qualche residua utilità e gli concedesse la possibilità di far ricorso al solito linguaggio tortuoso e sconclusionato pieno di aspettative, «percorsi condivisi», «senso di responsabilità», ponti con la piazza, fumose promesse. Concludo il punto dicendo che il riesame critico di quel che furono le Internazionali (la Terza in particolare) e delle particolari posizioni della politica estera sovietica e cinese può insegnare molto su quel che non deve essere l’internazionalismo, sia nella forma organizzativa che nei contenuti. È superata e improponibile l’idea di Internazionale come super-partito che detta la linea a sezioni nazionali; al contrario, occorre pensare a una Internazionale dei movimenti basata su un pochi, essenziali principi anticapitalistici e antiburocratici, non centralistica (questo è il senso che come Utopia rossa attribuiamo a una possibile Quinta internazionale). Qualcosa che, nella forma, non è lontano dall’esperienza del Forum mondiale altermondialista di cui discute Bernocchi nel libro; un caso la cui analisi andrebbe approfondita ma che, comunque, è significativo di una tendenza al superamento delle forme tradizionali dell’elaborazione e della prassi anticapitalistica. Il bolscevismo, la forma partito e lo statalismo Da quanto precede si può intendere la ragione dell’accordo di fondo con la critica che Bernocchi rivolge alla filosofia della storia centrata sul mito del Proletariato quale soggetto omogeneo, teologicamente destinato alla missione di redimere l’umanità eppure e nello stesso tempo destinatario della missione evangelizzatrice e di guida spirituale del Partito. Infatti, se la riduzione a unità della complessità, segmentazione e contraddittorietà della classe dei salariati costituisce una figura mitologica, essa si risolve nel concreto nella pretesa del Partito di essere riconosciuto dai credenti come l’imprescindibile mediatore della Rivelazione, l’unico legittimo titolare della Fede e della sua mondana amministrazione. Sicché la moderna incarnazione dello Spirito esercita le sue funzioni ecclesiastico-statali in nome e per conto del Proletariato, novello gregge, e se necessario, come sempre è, sopra di esso. Il referente della parabola è evidentemente il bolscevismo. Penso che tra il bolscevismo al potere nei primi anni sovietici e il regime staliniano esista una differenza di qualità; tuttavia, non si può affatto ricondurre la spiegazione dello stalinismo, come nella dogmatica trotskista, alle condizioni sociali e all’isolamento internazionale della rivoluzione russa. Conosco bene l’argomento, avendolo condiviso per alcuni anni, e al quale riconosco parte della verità. Parte, ma non tutta la verità né la parte decisiva per l’orientamento politico e ideale. Non a caso, il riferimento alle condizioni obiettive può essere ripreso da alcuni nostalgici della vecchia Urss e di Togliatti, perché esso può alimentare un certo senso di inevitabilità dello stalinismo che arriva a confondersi con il giustificazionismo. Quel che difetta a questa prospettiva (e che indebolì la posizione di Trotsky, che pure nei confronti di Stalin ebbe ragione su tutto) è proprio il coraggio di riconoscere, in tutto il suo rilievo, una logica latente nel bolscevismo quale forma estrema di esaltazione della funzione dirigente del partito. Storiograficamente si tratta di individuare quelle scelte soggettive fatte dal bolscevismo al potere che in nome della salvezza della rivoluzione iniziarono a storpiarla dall’interno, contribuendo a consolidare il burocratismo come prassi e un gruppo sociale dominante, la burocrazia che gestiva il partito e il nuovo Stato; e non mi riferisco solo a quelle decisioni prese durante la guerra civile, ma anche alla subordinazione dei comitati di fabbrica al nuovo Consiglio supremo dell’economia nazionale (il Vesencha), alla logica centralizzatrice, dall’alto sopra il basso, affermatasi tra il dicembre 1917 e i primi mesi del 1918 (su questo si veda Le teorie dell'autogestione di Roberto Massari, Jaca Book, Milano, 1974). Idealmente e politicamente si tratta di assimilare fino in fondo la lezione per cui non tutti i mezzi sono coerenti col fine, che nulla può giustificare la sostituzione del partito e dello Stato all’esperienza e alla gestione dal basso. In definitiva, allo scadere del secolo la lezione che viene dalla storia dei partiti socialdemocratici e comunisti (e dei sindacati collegati), nonché dei regimi detti socialisti, è che i partiti sono l’ambiente in cui si sviluppa il burocratismo e si forma e si esercita il potere della burocrazia come ceto sociale di professionisti della politica. Il potere della burocrazia «socialista» e sindacale nasce fuori dello Stato, in forza della sua posizione organizzatrice e ideologica nei confronti delle classi dominate; ma proprio perché apparato distinto da queste classi e con interessi propri, esso tende irresistibilmente ad accrescere il proprio potere e a consolidare ed estendere i propri privilegi facendosi Stato: totalitario, sulla base di una rottura con il capitalismo, oppure integrandosi nel sistema politico dello Stato capitalistico, sempre in nome e per conto dell’interesse dei cittadini-lavoratori, sempre sopra le loro spalle e, purtroppo, anche sulla loro pelle. L’inevitabile conclusione è che la forma-partito sarà pure una delle condizioni della democrazia, che comporta la piena libertà d’organizzazione, ma è pure forma che opera per sostituire il proprio potere e la propria rappresentanza (istituzionale e sindacale) all’organizzazione dal basso; nei sistemi politici capitalistici la forma-partito opera perché la dinamica dei movimenti rimanga entro parametri che garantiscano la riproduzione, l’espansione e il successo istituzionale del ceto dei professionisti o degli aspiranti tali quindi, in definitiva, per la riproduzione dello Stato capitalistico. Quale che fosse l’ideologia o la particolare conformazione organizzativa («leggera» o «pesante», «centralismo democratico» o meno) la forma-partito è stata causa del rovesciamento del rapporto tra mezzi e fine e della cristallizzazione organizzata di questa inversione. Occorre liberarsi del tutto dal feticismo del partito, l’equivalente socialista del capitalistico feticismo della merce. Il feticismo del partito è pure e logicamente associato al feticismo dello Stato, che è la sua meta: che sia lo Stato della Costituzione liberaldemocratica o lo Stato detto socialista o popolare, invariabilmente guidato a vita da un capo più o meno grigio o carismatico. Non è più questione di riformare la forma-partito, di inventarsi nuovi aggettivi o articolazioni organizzative con la «società civile» o i «movimenti». Questi tentativi d’ingegneria politica a tavolino si rivelano sempre effimeri, deludenti, mistificazioni e operazioni di basso cabotaggio la cui finalità è irrimediabilmente sempre la stessa: arrivare alle prossime elezioni sperando di spuntare il maggior numero di eletti, già politici di professione più o meno mescolati a sangue fresco che rinnovi l’immagine del ceto nella società dello spettacolo. Nella diffusione e/o ripubblicazione di questo articolo si prega di citare la fonte: www.utopiarossa.blogspot.com

PRIMAVERE ROSA - rivoluzioni e donne in Medio Oriente

conversazione con Anna Vanzan iranista e islamologa docente di cultura araba all’Università di Milano “Primavere rosa” si propone di esplorare, al di là degli stereotipi “orientalisti”, alcune caratteristiche della partecipazione femminile a questo momento storico cruciale per le società musulmane, soprattutto per quelle affacciate sul Mediterraneo, nonché i possibili sviluppi che coinvolgeranno le donne dell’Islam nel prossimo futuro SABATO 10 Maggio 2014 alle ore 17:30 All’Ateneo degli Imperfetti Ateneo degli Imperfetti Via Bottenigo, 209 30175 Marghera (VE) tel. 327.5341096 www.ateneoimperfetti.it

25 aprile a Niscemi. Una boccata di acqua fresca

Il 30 aprile a Niscemi dai rubinetti tornerà a uscire l'acqua. Non potranno però berla, perché quest'acqua non è potabile. La carenza d'acqua a Niscemi non è un fatto accezionale, ma un'emergenza quotidiana. Nella base militare statunitense nel cuore della sughereta del paese, nel luogo dove con la forza e la complicità delle autorità locali e nazionali, è stata imposta l'installazione delle parabole del sistema satellitare di controllo MUOS, l'acqua c'é sempre. Ed è acqua buona, che si può bere. Un indicatore chiaro dell'occupazione militare del territorio è l'accaparramento di beni primari come l'acqua potabile da parte della Marina Statunitense. Per questa ragione, in occasione della due giorni contro il Muos del 25 e 26 aprile, centinaia di attivisti contro la base hanno buttato giù le recinzioni e hanno liberato un pozzo, rinchiuso nel perimetro della base. Un'azione diretta, che, pur simbolicamente, che segnalato che il movimento contro il Muos, nonostante l'installazione delle antenne, non si arrende. Anzi! Nell'assemblea svoltasi il giorno successivo i No Muos ed attivisti di altre lotte territoriali si sono lasciati con l'impegno ad un maggiore coordinamento pratico tra le resistenze, all'insegna del muotuo soccorso e dell'autogestione delle lotte. In agosto ci sarà un campeggio di lotta a Niscemi dal 6 al 14. Sabato 9, anniversario della distruzione di Hiroshima, ad un anno esatto dalla manifestazione culminata con l'invasione della base, si svolgerà intorno alle recinzioni una nuova manifestazione nazionale No Muos. Ascolta la diretta realizzata dall'info di blackout con Pippo Gurrieri, attivista No Muos. E' stata anche l'occasione per fare il punto sulle difficoltà di una lotta che, al di là dell'emergenza per l'ambiente e la salute, rappresenta uno dei gangli più vitali dell'opposizione al militarismo e alla guerra. Un'opposizione che negli ultimi anni ha visti defilarsi la componente pacifista e non violenta, chiusa in giochi di autorappresentazione, come quello svoltosi sotto la benedizione di Alex Zanotelli, a Verona proprio il 25 aprile: http://anarresinfo.noblogs.org/2014/04/30/25-aprile-a-niscemi-una-boccata-dacqua-fresca/ _______________________________________________

IX Congresso Nazionale della FdCA

IX Congresso Nazionale della FdCA
1-2 novembre 2014 - Cingia de' Botti (CR)