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lunedì 6 agosto 2012

Sindacati alle cozze e classe operaia in «u tre rote»

agosto 4, 2012 @ connessioniprecarie →

di DAVIDE COBBE e DEVI SACCHETTO

Quando Maurizio Landini, il segretario generale della Fiom, prende la parola
di fronte ai circa 2500-3000 operai dell’Ilva che affollano piazza della
Vittoria a Taranto, 2-300 persone riunite nello spezzone dei «Cittadini e
lavoratori liberi e pensanti» fanno il loro ingresso rumoroso. La loro moto-ape
a tre ruote – dotata di una forza paragonabile a quella dei grandi mostri
cingolati degli eserciti, ma attrezzata solo con casse e microfono – ospita a
bordo cinque operai assai arrabbiati, e si sistema a non più di venti metri dal
palco, continuando a gridare slogan contro il padronato, ma soprattutto contro
sindacalisti e autorità appollaiate in tribuna. Non sventolano bandiere, solo
uno striscione alle loro spalle: «Sì ai diritti, no ai ricatti: salute,
ambiente, reddito occupazione». Nessuno li contrasta, nessuno ne chiede l’
espulsione dalla piazza, e intanto gridano slogan: la gran parte degli operai è
attenta a che cosa hanno da dire, riconoscendoli come compagni di lavoro. Non c’
è rottura operaia, come titolano felici i quotidiani l’indomani. Uova e
transenne che volano rimangono nella testa solo di qualche giornalista
prezzolato. È una contestazione a viso aperto, di una parte di operai e
studenti che in questa piazza riscuote consenso. La tensione nella piazza
operaia inizia a salire solo quando poliziotti e carabinieri in assetto anti-
sommossa si muovono rinforzando la protezione al palco. Gli operai irruenti e
incazzati rimangono fermi lì nel bel mezzo della piazza, gridando i loro slogan
e pretendendo di poter parlare dal palco. Non una grande richiesta. Nessuna
concessione, però, ma solo mute risposte come quella data il giorno prima dai
dirigenti sindacali al gruppo di operai che, con un fax, chiedeva di poter
intervenire dal palco. Per una buona mezzora l’impasse è generale: Cgil-Cisl-
Uil prima dichiarano chiusa la manifestazione, quindi invitano tutti gli operai
a spostarsi nella piazza a lato, ma nessuno si muove. A quel punto gli irruenti
decidono di tenere il loro breve comizio da sopra «u tre rote». Essi
rivendicano sostanzialmente di non esser più costretti a scegliere tra il
diritto alla salute e il diritto al lavoro, come hanno fatto negli ultimi
cinquant’anni. Accusano i sindacati confederali di averli lasciati nella
solitudine e nell’isolamento e di aver contrastato le poche forme di auto-
organizzazione che sono cresciute nel corso di questi anni dentro all’Ilva.

Diversamente da come viene rappresentata, questa giornata tarantina è un
momento liberatorio. Un sindacato che nel suo complesso viene delegittimato e
costretto alla resa, ma che da domani inizierà di nuovo a lavorare, in larga
parte, per la continuazione della produzione, finendo così per sostenere,
direttamente o indirettamente, le ragioni del padronato, qui rappresentato da
uno degli ultimi padroni delle ferriere, Emilio Riva. Una produzione che si
vorrebbe eco-compatible, come scrive la Confcommercio sui manifesti appiccicati
alle vetrine dei negozi del centro cittadino e come dichiarano in un sol coro i
tre segretari confederali. Cataldo Ranieri, uno di questi irruenti operai,
afferma invece: «Noi non possiamo far vedere che abbiamo paura che chiudano lo
stabilimento, non abbiamo più paura perché abbiamo conosciuto la morte». La
contrapposizione tra lavoro e salute qui sembra posta più dalla sinistra
produttivista che dalla destra: «prima il lavoro e poi la salute». Qualche
giornalista di Rai 3, forse forte del cognome che porta, aveva già provato
qualche giorno fa a mettere all’angolo questi operai chiedendo loro se vogliono
che l’Ilva chiuda o che rimanga aperta, cioè – come essi stessi riassumono – se
vogliono morire di fame o di cancro. Allora come adesso, essi rispondono
candidamente di essere solo operai, di voler vivere e guadagnarsi il pane senza
mettere in pericolo la salute: «non sono un politico e non mi occupo di
politica», dice senza paura di contraddirsi uno di loro.

Piuttosto, si occupano della loro esistenza operaia: «E ora metteteci anche il
tumore nella busta paga» grida Cataldo Ranieri. Quarantadue anni, quattordici
di Ilva, otto di tessera Fiom, ora alla Fim da due settimane per ottenere l’
assistenza legale per le contestazioni disciplinari. Due figli e una moglie
precaria in un call center della città. È lui che i giornalisti identificano
come il leader, e che circondano appena scende dal pericoloso strumento
squadrista «u tre rote». Il rifiuto degli operai di occuparsi dell’interesse
generale, o peggio degli affari del padrone, svela l’ideologia di cui si
riveste ampia parte della sinistra in Italia. Mentre, dal palco, Susanna
Camusso chiude questa giornata, con gli ormai pochi operai rimasti in piazza,
ripetendo il ritornello tanto caro a questi sindacati, oltre che al padronato:
il risanamento si dovrà fare con gli impianti in marcia. Un sindacato che si
sente in dovere di suggerire al padronato come fare il suo mestiere ha già
perso la battaglia culturale, oltre che politica. Intanto, nella stessa
giornata, gli impianti, al solito, funzionano come sempre e la banchina del
porto i riempiva di laminati.

Su questi operai irruenti la sinistra di questo paese, centrali sindacali
comprese, ha già emesso la sentenza: Cobas, estremisti, centri sociali, no-
global. Un intellettuale di sinistra sulle pagine locali di un quotidiano
nazionale li bolla addirittura come squadristi e utili idioti che non sanno far
altro che sfasciare, perché privi di un vocabolario della politica, pieni di
incultura. Ohibò! Squadristi organizzati in «u tre rote» affittato per 100 euro
da «Antonio u’ siciliano – Traslochi», che lo guida e che nel frattempo si fa
un po’ di pubblicità: fa più sorridere che paura. Forse sarebbe il caso di
morire di tumore in silenzio per 1.200 euro al mese, lasciando al sindacato la
contrattazione. E questi non sono neppure lavoratori migranti sindacalmente
‘ingenui’ che cercano di auto-organizzarsi, come l’anno scorso a Nardò, cento
chilometri più a sud. Nelle poche grandi fabbriche del sud, i migranti non sono
mai entrati perché il padronato sceglie sempre la sua forza lavoro.

Nell’incapacità di comprendere le trasformazioni che stanno avvenendo non solo
a Taranto, ma in tutto il paese, sembra che sia necessario ricorrere a formule
facili. Propaganda. Ma questi operai con «u tre rote» entrano nelle
contraddizioni profonde delle varie sinistre di questo paese. Chissà cosa avrà
pensato Maurizio Landini, che accusa questi lavoratori di voler vivere solo di
sussidi statali invece di difendere il proprio posto di lavoro, delle
dichiarazioni dei centri sociali del nord-est che plaudono alle iniziative
degli operai e cittadini. In molti, sembra di capire, rimangono smemorati. Da
queste parti il lavoro rimane ‘a fatia – la fatica –, come davanti a un
giornalista si lascia scappare uno di questi irruenti, salvo subito
correggersi. No, non è il bene comune, anche se con una disoccupazione che
tocca il 30% ognuno cerca di farsi sfruttare, magari senza dover crepare
faticando. Fa specie leggere come i leader sindacali ritengano che gli irruenti
operai e cittadini avrebbero dovuto organizzarsi una loro manifestazione, quasi
che gli operai siano un corpo staccato. Stefano Sibilla, un altro di questi
operai, ha le idee piuttosto chiare: «Qua non c’è un’idea di lavoratori divisi.
L’idea di lavoratori divisi è solo grazie ai sindacati. Quando un segretario
[quello della Fim locale] esordisce a un’assemblea [il giorno prima dello
sciopero] di quattromila persone, dicendo che occorre portare solidarietà agli
otto arrestati [dirigenti dell’Ilva], che sono quelli che ci hanno sottomesso,
che ci hanno minacciato, che ci hanno avvelenato, è un sindacato che o non
capisce che il cuore dei suoi lavoratori sta per esplodere o è troppo attaccato
al padrone per tradirlo. Non serve che io mi arrabbi: i sindacati di Taranto
non funzionano». Che un pezzo di sindacato, così come capi e capetti, sia
strettamente connesso al padronato non è certo una novità. Qui forse però
bisognerebbe capire le varie responsabilità in tutta questa storia di silenzi e
insabbiamenti, su cui i giornalisti come troppo spesso accade in questo paese o
sono distratti o sono collusi.

Le etichettature con cui si prova a isolare questa esperienza danno la misura
non solo del malessere, ma anche della veloce crescita di consapevolezza e di
protagonismo sia operaio sia di una parte importante della popolazione che si
nota in questa città. Una classe operaia che fino a pochi giorni fa, trascinata
da qualche sindacato complice e da qualcun altro forse troppo silenzioso,
sosteneva le ragioni del padrone, e che è sempre stata considerata un po’
«teppa», magari perché assunta tramite le raccomandazioni sindacali, in
particolare della Uil, oppure attraverso la parrocchia. Una classe operaia metà
contadina e metà sottoproletariato che va allo stadio, invece di frequentare i
salotti culturali e di mantenere l’ordine durante le manifestazioni. Una classe
operaia meridionale che ha cercato un lavoro in loco per non ripercorrere la
dura strada dell’emigrazione. Certo è una classe operaia che non sembra ancora
entrata nella post-modernità e non ha certo le stigmate della lotta di classe
della gloriosa Mirafiori. Forse c’è giunta con quarant’anni di ritardo, ma sta
ponendo ancora una volta la questione dell’irrisarcibilità della condizione
operaia provando a unire quanto è solitamente disunito, vale a dire le
questioni della produzione di beni e della riproduzione umana.

Il sistema di lavoro all’Ilva consuma a brano a brano la vita umana dei
lavoratori come degli abitanti. È su questa irrisarcibilità che sembrano
cercare di fare fronte comune questo pugno di studenti, operai e disoccupati
per costruire un proprio percorso politico autonomo. Capiscono cosa fanno,
capiscono cosa sono. Non sono «dipendenti asserviti al padrone», come sono
stati definiti con le migliori intenzioni. La frettolosa proposta di un reddito
di cittadinanza velocemente riemersa non risponde nemmeno lontanamente a quanto
sta succedendo, perché questi operai stanno già lottando contro il salario,
quale misura del loro lavoro e della loro vita. Non sono una «moltitudine
oscura e desiderosa di servitù volontaria» a spasso tra i secoli. Negli ultimi
giorni hanno fatto un gran salto rispetto solo a qualche giorno fa. Un salto di
classe.

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