Un anarchico col trattino in mezzo, forse
di Ascanio Celestini – domenica 13 maggio 2012 - 08:43
Questo è il mio settimo e ultimo intervento nel blog del Sole 24 Ore.
Ho scritto sempre alla fine della giornata. Dopo lo spettacolo. Dopo
essere tornato dal teatro. Dopo mezzanotte, alle volte. Quasi sempre
verso le due o le tre e anche le quattro.
Ho parlato della carbonara, di come cucinare è una forma di oralità
che non tende alla perfezione della produzione artistica, ma si
immagina come parte di un flusso.
Ho parlato del suicidio in carcere e di come un suicidio con una
bustina della farmacia tentato da un boss mafioso si prenda le prime
pagine dei giornali, mentre chi s’ammazza davvero nelle galere non
finisce nemmeno tra gli annunci mortuari.
Ho detto qualcosa su quello che qualcuno chiama teatro civile, una
definizione che è ormai entrata nel vocabolario retorico di questi
anni.
Ho ricordato l’articolo di Alessio Lega sul 25 aprile, il suo bisogno
di “canzoni necessarie” come parte di una “una storia ben lungi
dall’essere finita”. Una necessità di rimettere insieme i pezzi.
Un’arte quotidiana che ci ricolloca in maniera sensata.
Ma ho parlato anche del mio spettacolo Pro Patria, che in questi
giorni è in scena al Piccolo di Milano nel quale si parla di un
Risorgimento che è stata una storia di galera e lotta armata. Non era
una provocazione. E non era provocatorio nemmeno quando scrivevo “Non
penso che in questo paese qualcuno dedicherà un vicolo a Renato
Curcio” perché davvero credo che sia inutile e anche pericoloso
archiviare quel decennio sotto la voce anni di piombo perché poi il
piombo ritorna. Leggendo la rivendicazione della gambizzazione di
Roberto Adinolfi è difficile non pensare che una lettura approfondita
di quegli anni sarebbe stata indispensabile già da molto tempo. A
leggere in quel comunicato frasi come “Pur non amando la retorica
violentista con una certa gradevolezza abbiamo armato le nostre mani,
con piacere abbiamo riempito il caricatore” viene da pensare a Moretti
che quaranta anni prima diceva a Curcio (almeno così ci viene
raccontata da un’inchiesta parlamentare) “siamo così carichi di odio
che le nostre pistole sparano da sole”. Ci si chiede se la Federazione
Anarchica Informale non voglia essere, al pari delle BR, alla guida di
una massa che (dal suo punto di vista) potrebbe essere già pronta alla
rivolta e che presto diventerà un “popolo in armi contro ogni forma di
oppressione statale, politica, economica”. Ma cosa c’entra questo con
l’anarchia? Le Brigate Rosse erano un partito armato e come tale
puntavano ad essere avanguardia e guida di un movimento. Ma
l’anarchico è tale proprio perché non considera serio il concetto di
rappresentanza. L’individuo anarchico non accetta di rappresentare, né
di essere rappresentato. La formulazione e l’esecuzione di una
condanna è propria della logica più statalista che gli ultimi due
secoli passati siano riusciti ad immaginare. La logica dei gulag
sovietici come della sedia elettrica americana, della condanna a morte
di Roberto Peci come dell’uccisione di Walter Alasia e della strage di
via Fracchia. E sempre nell’ottica marxista di una storia che deve
procedere in maniera lineare verso una società senza classi (e dunque
spostando sulla terra quel paradiso che i cattolici immaginano in un
tempo ultraterreno), anche questi che rivendicano la gambizzazione di
Adinolfi dichiarano che il loro “sogno è quello di un umanità libera
da ogni forma di schiavitù, che cresca in armonia con la natura”. Chi
lo sa… forse anche io sono uno di quegli anarch-isti (così
definiscono gli anarchici che non sparano) “che solo nella teoria e
nel presenzialismo ad assemblee e manifestazioni trova la sua
realizzazione”. Sarò forse un anarchico col trattino in mezzo, ma nel
nichilismo futurista di chi sostiene che “impugnando una stupida
pistola abbiamo fatto solo un passo in più per uscire dall’alienazione
del «non è ancora il momento…»” ci vedo un’ansia di potere che non ha
nulla di differente rispetto a quello di una guardia che, stressata
dal nonnismo di caserma e dal sudore per una divisa blindata, scende
dal cellulare e spacca la testa al primo manifestante.
Sono anarchico? Con o senza trattino? Non lo so. Ma ritengo che un
anarchico debba pensare che ognuno è libero di liberarsi nella maniera
che ritiene più opportuna. Che ognuno è libero anche di non liberarsi
affatto. Che lo stato non va abbattuto, come pensavano i rivoluzionari
comunisti nel Novecento (secolo nel quale, forse, quella rivoluzione
aveva ancora un senso), ma che va semplicemente ignorato,
disconosciuto. Che l’anarchico non ha bisogno di regole imposte, non
perché sia contro gli altri, ma perché è contro le regole e
l’imposizione. Perché non ha bisogno di leggi da rispettare per essere
rispettoso dell’altro. Perché non ha bisogno né di un codice penale,
né del quinto comandamento per astenersi dall’uccidere. “Impugnare una
pistola, scegliere e seguire l’obiettivo, coordinare mente e mano sono
stati un passaggio obbligato, la logica conseguenza di un’idea di
giustizia” dicono. Ma è così? Un anarchico non pensa di essere un uomo
giusto che in nome di una giustizia qualsiasi diventa giudice. Un
anarchico non accetta che qualcuno vesta la toga e giudichi qualcun
altro in nome di una legge superiore, quando il rapporto di
egemonia-subalternità è comunque tutto a sfavore dell’imputato, in
quanto non viene giudicato per ciò che è, ma per ciò che ha fatto.
Chi impugna la pistola pensando che quel “piombo nelle gambe” sia “un
piccolo frammento di giustizia” esercita lo stesso potere che
apparentemente dice di odiare. Invece di opporsi alla violenza dello
stato, delle multinazionali, del sistema finanziario, del mercato… ne
contesta il monopolio alla ricerca di una liberalizzazione della
violenza.
Insomma, mi pareva utile approfondire questo argomento che ha
attraversato, almeno in parte, i diversi momenti di questo blog
nell’ultima settimana. Anche perché la relazione tra chi ha il potere
e chi non ce l’ha è uno dei temi che attraversano anche il mio lavoro
da quindici anni.
Ma non perché i detenuti o gli operai, i rinchiusi nel manicomio o i
contadini, i lavoratori precari o gli internati nei campi di sterminio
siano più interessanti di chi li sfrutta e li uccide. Bensì perché
l’essere umano somiglia più alle vittime che non ai carnefici. Nella
vittima c’è un’umanità che è fatta di debolezza e ironia. L’ironia di
chi vede l’incorreggibile incongruenza della vita e l’impossibilità di
ridurla ad un qualsiasi tipo di ordine. La debolezza di chi non usa la
forza perché la considera effimera e patetica.
È in questa debolezza che ho cercato di indagare sia per costruire
storie che per cercare un punto di vista. Accorgendomi che chi non ha
il potere non è per forza sprovvisto di tutto. Può non essere potente,
ma essere comunque molte altre cose. In un’intervista ad una contadina
ho registrato un racconto sulla guerra che iniziava con la frase “nel
nostro cortile c’era anche la villa del padrone”, come se la villa
fosse nel cortile della casa dei contadini. Mentre in realtà era il
contrario. Era la loro casa che stava nel cortile della villa
padronale, ma dal suo punto di vista la dimora del padrone era un
oggetto lontano e molto più piccolo della sua piccola casa. Annamaria,
così si chiama, gestiva un punto di vista, una visione sul mondo. Non
aveva bisogno né di conquistare, né di abbattere la casa del padrone.
Semplicemente ne ignorava l’importanza e non ne legittimava
l’egemonia. Lo statuto del circolo “Gianni Bosio” che da anni si
occupa di ricerca antropologica, ma anche di produzione culturale in
relazione diretta con l’aambiente che evocava Lega nell’articolo
citato nel mio terzo intervento, tra le prime righe della premessa si
pone come obiettivo (in continuità con un lavoro iniziato più di
quaranta anni fa) “la conoscenza critica e la presenza alternativa
della cultura, della memoria e dell’espressività orale e musicale
delle classi non egemoni”. NON EGEMONIA dovrebbe essere un obiettivo
non solo dell’anarchico, ma di qualsiasi persona intelligente e adulta
perché non è accettabile che sia tanto facile diventare così coglioni
da non riuscire più a capire che non ci sono poteri buoni.
„La parola comunismo fin dai più antichi tempi significanon un metodo di lotta, e ancor meno uno speciale mododi ragionare, ma un sistema di completa e radicaleriorganizzazione sociale sulla base della comunione deibeni, del godimento in comune dei frutti del comunelavoro da parte dei componenti di una società umana,senza che alcuno possa appropriarsi del capitale socialeper suo esclusivo interesse con esclusione o danno dialtri.“ Luigi Fabbri
2 commenti:
Il 23 marzo del 1921 l'attentato perpetrato da anarchici al Teatro Diana di Milano spianò la strada a Mussolini e aprì le porte al ventennio fascista. Il 12 dicembre del 1969 un attentato anarchico in Piazza Fontana diede inizio alla strategia della tensione eseguita dallo stato italiano per favorire gli interessi dell'impero nella penisola. Ora gli anarchici riaprono la stagione delle pistole e del terrorismo. E quando avviene tutto ciò? Avviene nel momento, tanto per cambiare, in cui il capitale è alla frutta, i partiti borghesi vacillano e il popolo sta iniziando a dire basta ai soprusi dello stato, attraverso sempre più numerosi atti di giustizia individuale. I sospetti sono tanti, rafforzati dall'atteggiamento tipico dei giornalisti di regime che sostengono acriticamente la versione del Governo dei non-eletti. Da anni i servizi segreti tessono attraverso i media la trama degli Anarco-Insurrezionalisti, per poter, un giorno, farne uso. E quel giorno è arrivato. FAI, Federazione Anarchica Informale, è un acronimo di cui chiunque può fare uso. Un comodissimo calderone dove tutto può succedere e nulla si può dimostrare, né smentire. Uno spauracchio ineccepibile. Non c'è nessuna organizzazione da colpire. Tutto e niente, solo una serie di comunicati e di azioni senza legame. Nella rivendicazione dell'attentato salta agli occhi la contraddizione di chi dice di non cercare facile consenso attacando Equitalia e poi manda un comunicato al Corriere della Pera per dare risonanza alle proprie azioni, con annesso simbolo emulabile...Sparare alle gambe di un tipo, mandare un comunicato via posta a un quotidiano nazionale e utilizzare un simbolo specifico, ricordano molto la metodologia delle BR, non a caso, ma poco hanno a che fare con i metodi di lotta libertari. Un attentato anarchico fu quello di Gaetano Bresci, nessuna rivendicazione, nessuna sceneggiata, ammazzò il re, non c'era altro da dire. E l'aspra critica all'anarch-ismo ideologico e cinico? Come se in Italia non ci fossero terreni di lotta altri, anche di scontro fisico, dove poter mettere in atto le proprie Azioni Dirette, che le pistolettate ai polpacci degli amministratori delegati. Compagni che lottano per la difesa della propria terra e del proprio habitat, insegnanti che perpetrano il proprio sapere libertario, propagatori di vita anti-autoritaria e innumerevoli azioni dirette quotidiane e pazienti nelle piccole realtà... sul territorio. Sarebbero questi coloro che "rafforzano la democrazia"?
...ma per poter polemizzare approfonditamente sui contenuti del comunicato attribuito alla FAI dovremmo almeno avere la certezza che sia stato scritto da anarchici veri e non redatto nelle oscure stanze del potere.
sono d'accordo compagna/o
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