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venerdì 6 settembre 2013

Venti di guerra? Quando gli antimperialisti confondono le carte in tavola, trascurando i proletari - di Dino erba

Venti di guerra?
Quando gli antimperialisti confondono le carte in tavola, trascurando i proletari

N
on appena soffian venti di guerra, gli antimperialisti si destano, animando campagne tanto roboanti quanto fuorvianti. Nella società capitalistica, la guerra è un’eventualità permanente che non si ferma certo con le chiacchiere. Lo sappiamo. Da un quarto di secolo, viviamo in un clima di «guerra infinita», che non è stato scosso dalle pur vivaci manifestazioni pacifiste, anzi, molti pacifisti si son poi messi la divisa, passando armi e bagagli al fronte interventista (Do you remember Bertinotti & Co.?).
Questi frutti marci non turbano gli antimperialisti che proseguono imperterriti per la loro strada, ripetendo le solite litanie. E lungo la loro strada perdono ogni riferimento a una visione proletaria della guerra e dei conflitti sociali che, pur soffocati, l’accompagnano. Riducendo l’internazionalismo ai rapporti tra nazionalismi, inter-nazionalisti, appunto.
Uno dei cavalli di battaglia degli antimperialisti è la denuncia delle balle di Washington ... come se esistessero guerre giuste ... E se Obama avesse ragione? Sarebbe un buon motivo per bombardare Damasco? Lasciamo perdere. Gli argomenti degli interventisti sono così pretestuosi che se ne è accorto anche Sergio Romano sul «Corriere della Sera» (Armi democratiche, 1 settembre 2013).
Percorrendo il vicolo cieco pacifista, alcuni antimperialisti giustificano regimi sanguinari come quello di Assad e, implicitamente, denigrano i «ribelli». Denigrazione che fa di ogni erba un fascio, mettendo nello stesso calderone i movimenti popolari contro Assad, cui il crash economico ha dato slancio, e le bande prezzolate che cavalcano il malcontento al soldo di racket locali e stranieri, con grandi e piccoli interessi in gioco. A uno sguardo superficiale, i movimenti popolari arabi e musulmani hanno una parvenza plebea che sommerge la componente operaia e proletaria. Che però c’è. E se qualcuno si ostina a non vederla, è un problema suo, ma non è una buona ragione per ignorarla, portando acqua al nazionalismo.
Venti di rivolta
Tra fanatismi religiosi e affarismi di bassa lega, lo scenario sociale che si delinea � assai intricato, come ha ben dimostrato Michele Basso nel suo Interrogativi sulle guerre in corso, dell’11 agosto, e in parte anch’io nel mio Egitto è il mondo del 15 agosto. La situazione è contraddistinta dalla disgregazione nazionale e sociale, che si sta diffondendo a macchia d’olio dall’Afghanistan al Pakistan dal Medio Oriente al Magreb.
E soprattutto è una situazione che apre nuovi scenari politici, che non possono essere liquidati con frasette di rito, utili solo a nascondere l’insipienza di chi le diffonde. Peggio. In realtà gli antimperialisti che sventolano lo spauracchio delle Potenze imperialiste (Usa in primis) sottovalutano (se non ignorano) la questione principale: la crisi dell’imperialismo. E, di conseguenza, non fanno altro che difendere un impossibile status quo, ormai a pezzi sotto i colpi della persistente crisi economica. Non per nulla, dopo la doccia fredda di Cameron, Obama ha preferito rimandare la decisione dell’intervento al Congresso, per avere la benedizione democratica. Lasciando Hollande in braghe di tela. Nelle guerre si sa come si entra ma non si sa come si esce. E se soffiano venti di guerra, soffiano anche i venti della rivolta proletaria.
Volenti o nolenti, gli antimperialisti privilegiano una visione in cui i proletari sono subalterni alle classi dominanti. E visto che al peggio non c’è fine, essi finiscono per legare il proletariato dei Paesi occidentali al carro delle varie borghesie. Un bel favore! Con l’aria che tira, i padroni preferiscono veder marce pacifiste piuttosto che proteste operaie, come è evidente in Germania e in Italia, con la Bonino che paventa la Terza guerra mondiale, come se già  non ci fossimo dentro! Non solo. I padroni prendono due piccioni con una fava: la pace sociale, oggi, premessa per un eventuale intervento, domani. Non ci sono santi, solo le lotte proletarie possono impedire e ostacolare le guerre, tenendo sulla corda i padroni e i loro governi. Il resto sono chiacchiere inutili e dannose. Lasciamole a Bergoglio.
Gratta gratta, ci accorgiamo infine che certi antimperialisti, con l’implicita difesa dei regimi «statalisti» (ormai presunti tali), come quello di Assad o di Mubarak, lasciano serpeggiare, e non tanto sotto traccia, il rimpianto per il capitalismo di Stato, alla cui ombra sono cresciuti molti figli della piccola borghesia antimperialista italiana.
Al banco di prova della solidarietà
Alla visione politica conservatrice (se non reazionaria) prevalente nei movimenti antimperialisti di matrice pacifista, non basta contrapporre l’equidistanza proletaria (come per esempio fanno il Centro di iniziativa comunista internazionalista e altre formazione di tradizione comunista rivoluzionaria). È una posizione apprezzabile che però scantona il problema reale: la natura sociale dei tumulti e delle sommosse in corso nei Paesi arabi e musulmani. Ci troviamo di fronte a una situazione nuova, in rapida evoluzione, che non si può affrontare con le armi spuntate del Ventesimo secolo.
Tenendo vivo il problema, ci sono cose che già ci toccano molto da vicino. Un cruciale fronte di lotta proletaria e internazionalista è aperto dai flussi migratori, destinati a crescere sull’ondata dei conflitti e della disgregazione sociale dei Paesi della sponda Sud del Mediterraneo. I profughi siriani sono già oltre due milioni (su una popolazione di 23 milioni).
Quelli che cercano scampo in Italia, sono destinati a cadere nel pozzo senza fondo del lavoro nero, grazie al quale si ingrassano padroni e padroncini, con tutto il codazzo di faccendieri, dai caporali ai funzionari statali conniventi, con il beneplacito di politicanti e pennivendoli. Contro questo vero e proprio regime schiavistico, le lotte dei facchini della logistica stanno dando una prima e importante risposta. Ma le radici del ricatto e del lavoro nero risiedono nelle leggi razziste sull’emigrazione (la Turco-Napolitano e la Bossi-Fini), fondate sulla normativa capestro dei permessi di soggiorno, sui controlli polizieschi e sulla detenzione nei Centri di identificazione ed espulsione (Cie). Ma anche sui Centri di Accoglienza Richiedenti Asilo (Cara), veri e propri lager, in fase d’espansione.
Oggi, queste leggi e queste galere non sono più in grado di controllare nuovi e maggiori flussi migratori. In agguato ci sono progetti coercitivi che attendono solo l’occasione per entrare in funzione, magari con il pretesto dell’emergenza umanitaria e il placet di Cécile Kyenge. Affrontare questa imminente eventualità, è l’attuale banco di prova per l’internazionalismo e la solidarietà proletaria. Ed è un primo, concreto passo contro i venti di guerra. Il resto sono chiacchiere, inutili e dannose.
Dino Erba, Milano, 3 settembre 2013.

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