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campagna contro la contenzione meccanica

per giulio

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martedì 5 maggio 2015

DIBATTITO SUI FATTI DI MILANO (01/05/15) - MILANO BRUCIA ! + comunicato della rete NO Expo

Si sta sviluppando un dibattito sui fatti di Milano che, spero, vada ben oltre l'indignazione o una reazione confusa condizionata da una campagna mediatica forcaiola ---------------------------------------------------------- DOPO LA NOEXPO MAYDAY, VERSO #ALTEREXPO Nella giornata del primo maggio, nella Milano di Expo 2015, mentre la politica e le multinazionali celebravano l’apertura dell’esposizione, un corteo di oltre 50mila persone ha sfilato per le vie di Milano. La MayDay parade 2015, il tradizionale I maggio dei precari, è stata declinata quest’anno in una prospettiva di opposizione ad Expo: acceleratore di dinamiche di precarizzazione, rasponsabile di devastazione e saccheggio del territorio, matrice di debito pubblico. Un corteo composito quello che ha attraversato le vie di Milano: l’internazionale delle bande musicali, i comitati che si oppongono alla predazione del territorio, i lavoratori e le lavoratrici della Rimaflow, la rete di produttori di Genuino Clandestini, i movimenti di lotta per la casa, gli studenti e le studentesse, i precari e le precarie che non hanno rappresentanza, uno spezzone ampio del mondo del lavoro, gli antispecisti, la rete NoExpo Pride, i sindacati di base, le opposizioni all’ interno delle organizzazioni confederali e le sigle della sinistra radicale. Tutte queste componenti hanno portato a termine il corteo in forma organizzata, attraverso pratiche comunicative per segnalare le nocività di Expo. I sette anni che hanno caratterizzato la storia della Rete non possono essere ridotti alla strumentalizzazione mediatica e politica di alcuni momenti del corteo, che ne hanno sovradeterminato l’impostazione collettiva e che poco hanno a che vedere sia con un’espressione di rabbia spontanea, sia con lo stesso percorso No Expo. Come abbiamo sempre fatto, ripartiremo dai nostri contenuti: lo abbiamo dimostrato con la pedalata di ieri, 2 maggio, che ha portato gli attivisti a girare attorno al sito Expo, nella penuria dei suoi visitatori, e con il pranzo popolare davanti a Eataly, che ha riempito Piazza XXV Aprile con il cibo di piccoli produttori agricoli, il suono delle bande musicali e la clown army. Non siamo nè opinionisti nè giudici: di fronte alle dichiarazioni che evocano inasprimenti repressivi fino all’ introduzione di daspo per future manifestazioni, noi possiamo dire con fermezza che nessuno sarà lasciato solo. Abbiamo aperto una stagione di sei mesi contro ed oltre il grande evento, che passerà dal No Expo Pride del 20 giugno, rivendicando il diritto ad una città femminista, frocia e queer, e dall’ assemblea nazionale prevista per la giornata del 3 maggio che sarà riconvocata a breve. rete NO Expo -------------------------------------------------------- Dalla parte dei teppisti Di prima mattina ho fatto una ricognizione per Milano per decidere che fare. Piovigginava e l’asma mi rallentava il passo: dopo aver camminato un’oretta ho capito che era meglio tornarmene a Bologna. Si sapeva che a un certo punto sarebbe scoppiata la baraonda. La polizia non poteva farci niente per una ragione facile da capire: gli occhi di tutto il mondo erano puntati sull’inaugurazione dell’EXPO, un morto nelle strade di Milano non sarebbe stato buona pubblicità. A Genova quindici anni fa (come passa il tempo!) il potere intendeva dimostrare che i grandi del mondo sono inavvicinabili e se ci provi ti ammazzo. A Milano intendeva dimostrare di essere tollerante. Da una parte si fa festa con Armani e Boccelli perché ormai i giovani sono talmente frollati dalla disperazione che fanno la fila per poter servire gratis al tavolo di Monsanto e di McDonald. Dall’altra si permette di sfilare a qualche migliaio di sessantenni i quali, poveretti, credono che per telefonare ci vuole il gettone, e quindi sono ancora dietro a quelle vecchie storie dei diritti. Poi tremila teppisti hanno rovinato il banchetto, tutto qui. Ho letto l’articolo di Luca Fazio e vorrei esprimere un’opinione diversa dalla sua. Fazio scrive che i teppisti hanno rovinato una manifestazione democratica. Sarò brutale con spirito amichevole: a cosa serve manifestare per la democrazia? che utilità può avere sfilare per le vie della città dicendo: diritti, costituzione, democrazia? Io lo faccio talvolta (quando l’asma me lo permette) per una ragione soltanto: incontro i miei amici e le mie amiche. E’ quel che ci è rimasto della sfera pubblica che un tempo chiamavamo movimento. Ma non penso neanche lontanamente che si tratti di un’azione politicamente efficace. C’è ancora qualcuno che creda nella possibilità di fermare l’offensiva finanzista europea, o l’autoritarismo renziano con pacifiche passeggiate e referendum? A proposito: ci sarà un referendum contro la legge elettorale denominata Italicum. Probabile. Giusto per riepilogare voglio ricordarvi gli antefatti. Esisteva una legge elettorale denominata Porcellum (perché coloro che la avevano promulgata dichiararono fra le risate che si trattava di una porcata). La Consulta dichiarò quella legge incostituzionale, dunque sancì l’illegittimità del Parlamento eletto con quella legge. Fino al 2011 c’era almeno un Primo Ministro votato da una maggioranza. Si chiamava Berlusconi (remember?). Fu esautorato per volontà della Bundesbank, venne un primo ministro direttamente eletto dalla finanza internazionale di nome Monti. Il disastro fu tale che si tornò alle urne. Le urne risultarono enigmatiche, e dopo varie tergiversazioni emerse un tizio che nessuno ha votato ma nei sondaggi risultava vincente. Dal momento che questo tizio ha la fiducia dei mercati il Parlamento, eletto con una legge incostituzionale, ora si prostra ai suoi piedi. La cifra vincente del governo Renzi è il totale disprezzo delle regole costituzionali, perciò un parlamento incostituzionale vota una legge elettorale incostituzionale imponendola con il voto di fiducia. Tombola. A questo punto qualcuno raccoglierà le firme per un referendum. Referendum? Io ne ricordo un altro: il 90% del 70% degli elettori votarono contro la privatizzazione dell’acqua. Vi risulta che la privatizzazione dell’acqua sia stata fermata? A me risulta il contrario. E allora perché dovrei andare a votare al prossimo referendum? Qualcuno mi risponde: per difendere la democrazia. Democrazia? Ma di che stai parlando? L’80% dei greci appoggia il suo governo, ma la Banca Centrale europea ha detto con chiarezza che le regole non le stabilisce l’80% dei greci, ma il sistema bancario, quindi che i greci vadano a farsi fottere, e con loro la democrazia. Ma torniamo a Milano. Tremila teppisti spaccano tutto? Non esageriamo, ma certo hanno fatto abbastanza fumo. E i giornali parlano di loro più che di Renzi Armani e Boccelli. Come posso non essergliene grato? Sto forse proponendo una strategia politica? Credo io forse che spaccando le vetrine di tre banche (o magari di trecento o di tremila) il potere finanziario si spaventa? Non scherziamo. So benissimo che il potere finanziario non sta nelle vetrine delle banche, ma in un circuito algoritmico virtuale che nessuna azione teppistica può distruggere e nessuna democrazia influenzare. So benissimo che mentre tremila spaccavano vetrine diciassettemila e cinquecento correvano a lavorare gratis e questo è l’avvenimento più importante. So benissimo che nell’azione teppistica non vi è alcuna strategia politica. Ma c’è forse una cosa più seria. C’è la disperazione che cresce, limacciosa e potente, ai margini del mondo levigato. Cosa ne pensa Fazio (al quale rivolgo un saluto in amicizia) dei teppisti di Baltimore e di Ferguson? Pensa che dovrebbero avere fiducia nella democrazia? Io ricordo di avere visto (era la CBS?) un’intervista a una ragazza che stava in strada a New York una notte del novembre 2014. Il giornalista le chiedeva qualcosa sui bianchi e sui neri e lei rispose: “This is not about white and black. This about life and death.” Nel tempo che viene non capirete niente se penserete alla democrazia. Occorre pensare in termini di vita e di morte, e allora si comincia a capire. Ci stanno ammazzando, capito? Non tutti in una volta. Ci affogano a migliaia nel canale di Sicilia. Un numero crescente di ragazzi si impiccano in camera da letto (60% di aumento del tasso di suicidio nei decenni del neoliberismo, secondo i dati dell’OMS). Ci ammazzano di lavoro e ci ammazzano di disoccupazione. E mentre la guerra lambisce i confini d’Europa, focolai si accendono in ogni sua metropoli. Perché dovrei preoccuparmi dell’Italicum? E’ una forma di fascismo come un’altra. Abbiamo perso tutto, questo è il punto, e il primo maggio 2015 potrebbe essere il momento di svolta, quello in cui lasciamo perdere le battaglie del passato e cominciamo la battaglia del futuro. Non la battaglia della democrazia né quella per i diritti, meno che mai la battaglia per la difesa del posto di lavoro, che è stata l’inizio di tutte le sconfitte. La battaglia necessaria (e forse a un certo punto anche possibile) è quella che trasforma la potenza della tecnologia in processo di liberazione dalla schiavitù del lavoro e della disoccupazione. Quella battaglia si combatterà cominciando a comportarci come se il potere non esistesse, rifiutando di pagare un debito che non abbiamo contratto, rifiutando di partecipare alla competizione del lavoro e alla competizione della guerra. E’ impossibile? Lo so, oggi è impossibile, i giovani che hanno aperto gli occhi di fronte a uno schermo uscendo dal ventre della madre si impiccano a plotoni perché per loro il calore della solidarietà politica e della complicità amichevole sono oggetti sconosciuti. Ma se vogliamo parlare con loro è meglio che lasciamo perdere i gettoni, la democrazia e i diritti. E’ meglio che impariamo a parlare della vita e della morte. Franco “Bifo” Berardi ------------------------------------------ Primo maggio: quello che “si dice” Si dice che grazie alle “violenze” al primo maggio di Milano, le ragioni del No Expo siano state completamente oscurate. Infatti, prima di ieri, queste ragioni erano all’ordine del giorno, venivano affrontate con correttezza dalla stampa ed esposte con chiarezza dalla televisione generalista, che invitava gli esponenti dell’opposizione sociale a dibattiti e ad approfondimenti, talmente ascoltati da essere quasi riusciti ad annullare l’evento. Si dice anche che grazie alle “violenze” al primo maggio di Milano, ora l’intero Movimento si trovi sotto attacco, esposto alle sevizie della polizia e della magistratura, pronta a usare come un ariete l’arma più micidiale del codice (fascista) di procedura penale: il reato di devastazione e saccheggio. Infatti, prima di ieri, questo stesso reato non era mai stato usato, né per colpire i partecipanti al vertice contro il G8 di Genova e neppure, più recentemente, per processare i partecipanti alla manifestazione del 15 ottobre utilizzando un imputazione che prevede pene fino a quindici anni. Alla stessa maniera, per colpire il movimento No Tav, la magistratura non si era certo sognata di trattare quattro ragazzi accusati di aver danneggiato un compressore alla stregua di pericolosi mafiosi, imponendo loro un isolamento degno di quanto previsto dal famigerato 41bis. Si dice persino che da questo momento in poi, considerate le “violenze” al primo maggio di Milano, nessuno vorrà più scendere in piazza. Infatti prima di ieri le piazze erano traboccanti di folle decise a riconquistare i propri diritti, né si stava cercando, visto il surplus di partecipazione, di giocare la delicatissima partita con la quale – magari passando per errori e sbandamenti – tentare di rompere la stagione del reflusso e riconquistare una necessaria ricomposizione di classe. E poi basta guardare quanto accaduto a Cuba con il Movimento 26 Luglio, in Russia con i Soviet o a Parigi con la Comune: quando si registrano episodi di violenza popolare le piazze si svuotano, è la storia che lo insegna. Insomma, si dicono tante cose. Una in più non farà la differenza, è tanto semplice battere i tasti di un computer, pare che anche molte scimmie siano in grado di farlo… intanto Expo non è ancora finito. Mentre fino a prova contraria solo la lotta paga. Cristiano Armati – redattore Red Star Press ---------------------------------------------------------------- Expo: Renzi si accorge che c’è vita oltre twitter È stata una settimana decisamente dura per l’uomo immagine del Pd, segretario di un partito senza spina dorsale e presidente del Consiglio. Il primo colpo, grosso, glielo ha dato la Corte Costituzionale. La sentenza che liquida il congelamento degli aumenti delle pensioni (voluto da Monti-Fornero) come incostituzionale, pone problemi serissimi al governo. Problemi tipici di chi è assoggettato a Bruxelles e Francoforte e a qualche fondo d’investimento (persino Brunetta ha avuto gioco facile alla Camera a svergognare il governo sui prodotti finanziari tossici). In poche parole, mentre il governo è in difficoltà per trovare 4-5 miliardi di tagli, per arrivare a quota 10 a fine anno, almeno altri 5-6 sono da recuperare dopo la sentenza della Corte. Certo basterebbe questa situazione per fare capire, anche ad un governo pallidamente socialdemocratico, che è il caso di allearsi con la Grecia e mettere seriamente in discussione le politiche di austerità. Ma Renzi esiste per garantire, in Italia, i sacerdoti della moneta, quelli che guadagnano con l’austerità. Ma, con le difficoltà oggettive nelle politiche di bilancio, non sarà affatto facile tagliare e, allo stesso tempo, trovare il consenso per nuovi tagli. Oltre al fatto che, come si capisce dalla sentenza della Corte, nessun potere reale dello Stato ci sta a farsi disarticolare dalla crisi, e dal conseguente smantellamento dei poteri istituzionali, come se fosse una provincia o una comunità montana qualsiasi. A Renzi, che dovrà penare non poco per farsi approvare la legge elettorale al Senato (e più penerà più dipenderà dagli alleati) non è quindi restato che inaugurare Expo facendo un po’ di marketing per il governo. Stiamo parlando dell’Esposizione universale che è il vero tempio del disastro economico e sociale della seconda Repubblica. Expo voluta da Prodi e dall’allora sindaco Moratti nel 2007 doveva essere la solita bolla immobiliare-finanziaria più o meno adattata a volano dell’economia lombarda.Come prevedibile, tangenti, addirittura stabilite da patti tra vecchi ras inquisiti per la tangentopoli del ’92 (un ex DC e un ex PCI ad esempio), project-financing, costi gonfiati, contenziosi giudiziari, appalti al massimo ribasso, crisi del credito, tagli, consigli di amministrazione surreali, affidamenti di opere in modo discrezionale hanno trasformato Expo nel consueto buco nero dell’economia italiana. Per non parlare dei salari, livello zero tanto per contribuire alle trimestrali di cassa delle imprese, negati ai volontari che si massacreranno per “un’esperienza”. Ma la cosa più grave di Expo, che ha fatto solo sorridere il solito nucleo di ditte e di cooperative che la fa da padrone dagli anni ‘90 (tutto lottizzato tra centrodestra, centrosinistra e Lega Nord) è che, di fatto, non lascerà traccia. O meglio, rischia solo di lasciare traccia nelle opere mai finite. Non è chiaro infatti non solo quale sarà il destino delle aree inaugurate ma se esista un futuro, un traino economico, tecnologico e sociale rappresentato da Expo. L’Italia, del resto, già con i mondiali ’90 ha dimostrato, a differenza della Germania con i mondiali 2006, come si possa arrivare alla costruzione di grandi opere in modo così disastroso da lasciare terra bruciata a evento finito. Questo per capirsi sul fatto che al miraggio delle grandi opere ci possono giusto ormai credere quelli che votano “per Matteo” sul pulsante del telecomando di Sky al referendum del giorno. L’inaugurazione di Renzi a Expo è stata poi, dal punto di vista dell’immagine globale, una vera e propria Waterloo. Ora non ci vuole molto a intendersi sul fatto che per un’esposizione che si chiama “universale” si ha tanto più successo tanto più si sa parlare all’audience globale. Renzi, che oltre le polemiche da pollaio proprio non riesce ad uscire, ha invece usato il suo discorso come ennesima riedizione della polemica contro quelli che gufano contro il suo governo. Persino noi, che vediamo la finanza globale come la peste, sappiamo che più sai toccare i temi che piacciono all’audience globale più fai marketing territoriale. Bene, Renzi ha plasticamente dimostrato di non essere in grado di farlo non avendo il respiro retorico, e nemmeno i ghost-writer, per questo genere di occasioni. Ha usato la diretta mondiale per battibeccare con i compagni di cortile che, secondo lui, gli dicevano che non avrebbe mai finito Expo. Non ci vuole molto a capire che il prodotto Italia si vende in un altro modo. Siccome le tv italiane per Expo sono state, come prevedibile, militarizzate il problema non è uscito fuori. Ma si tratta di atteggiamenti che, alla lunga, pesano. Aspettare per credere: l’immagine globale pesa per gli investitori internazionali, perché catalizza investimenti, Renzi non può vivere a lungo sul simbolico del “giovane leader dinamico”. Deve dire qualcosa al mondo, magari di sensato ed incisivo. E qui ci si rende conto di chiedere troppo a qualcuno che campa di rendita, dal punto di vista comunicativo, solo sul riciclo delle parole d’ordine degli ultimi 20 anni di liberismo. Nel pomeriggio l’inaugurazione di Expo si è scatenato un riot di protesta, nel centro di Milano, come non se ne vedevano nella città lombarda dal settembre del ’94(all’epoca della rioccupazione del Leoncavallo). Un riot, a nostro avviso, non delle dimensioni dello storico 10 settembre ma sicuramente espressione di un corteo consistente ad alto impatto spettacolare (perché c’è un piano di audience che paga molto di più della fedeltà a “Matteo”: gli incidenti almeno 3 giorni di prime pagine offline e online, e quindi di pubblicità, li fanno mentre Expo con il resti di Napolitano fa mezza giornata). Ora lasciamo, come è naturale che sia, la valutazione più propriamente politica della giornata a chi l’ha organizzata, e vissuta. Inoltre, qualcuno farebbe meglio a rendersi conto, e a volte capire come funziona la vita non è male, che i riot accadono non per delirio ideologico ma perché c’è un qualcosa che è ritenuto veramente insopportabile. In questo caso tutta la vicenda Expo, col suo corollario di corruzione, di esproprio beni pubblici, di sgomberi e di sfruttamento, e il Jobs Act che non ha prodotto posti di lavoro ma solo liquefazione dei diritti e sgravi alle imprese. Del resto la tv, ormai a reti unificate, non si è nemmeno presa lo sforzo di informare, anche superficialmente, sulle ragioni della protesta. Come ormai accade da lustri, e a noi pare un problema di democrazia molto più grosso di una vetrina in frantumi, la rappresentazione delle idee, quelle non concordate tra ceto politico e redazioni di tg, semplicemente non c’è. Il punto è però che con gli scontri del sabato pomeriggio, il simbolico della giornata, quello da vendere a milioni di persone in prime time, si è rovesciato di significato. L’inaugurazione di Expo, con la trovatina di cambiare le strofe dell’Inno di Mameli, è finita in secondo piano rispetto ad una metropoli straniata dagli incendi e dalla circolazione delle tute nere. In effetti la vera notizia, vera irruzione di novità nella rappresentazione del panico metropolitano in una città che il panico lo percepisce ma lo nega, rispetto al rituale renziano ormai consolidato e metabolizzato dagli stessi media schierati. Qualcosa di diverso rispetto all’inaugurazione della torre della Bce, dove comunque la partecipazione alla protesta è apparsa meno legata all’immaginario del centro città sottratto al governo come nel pomeriggio milanese. Certo, si parla di spettacolo, ma così funziona l’emersione dei contenuti nel 21 secolo. Forse un po’ più di costruzionismo, nel capire come si sedimentano i contenuti, e meno moralismo aiuterebbero a capire come funzionano le nostre società. Così con i riot Renzi si accorge così che c’è vita oltre Twitter. Che fenomeni indistinti, per lui, e oscuri gli sfuggono. E si inquieta perché non li controlla come se fossero un D’Attorre o un Fassina. Inquietudine che filtra nel comunicato dedicato agli incidenti dove, scompostamente, ha dato dei “vigliacchi” ai manifestanti cercando di ribadire una cosa. L’unica che gli interessa: che la vera immagine della giornata era il coro di bambini che cantavano l’inno di Mameli. Tentativo di ristabilire una gerarchia della percezione delle immagini che, una volta tanto, non andrà a segno. La rottura dei media ritual, come sappiamo, favorisce sempre il protagonismo simbolico di chi la esercita. E ad Expo il media ritual è stato interrotto. Altre volte non è così, per miriadi di motivi, stavolta lo è stato. Questo ovviamente sul piano comunicativo. Poi la politica, come sappiamo, è qualcosa di più articolato fino all’estremamente complesso. E non ce lo viene certamente a raccontare un Pisapia. Del resto Pisapia, nel corso degli anni, ha soccorso Deutsche Bank, ritirando la costituzione di parte civile del comune di Milano sullo scandalo derivati finanziari (fatto gravissimo), ha supportato sgomberi di case e centri sociali. Questo senza soffermarsi al ruolo del comune in Expo. Diciamola in due parole: se la sua elezione doveva rappresentare un compromesso accettabile tra sinistre ha completamente fallito. La sinistra istituzionale in Italia, sapendo che più sinistre sono qualcosa di naturale e persino inevitabile, ha bisogno di economisti critici e innovativi sui territori non dei Pisapia, avvocatesco ceto politico colluso che finisce per accodarsi, in ultima istanza, alle esigenze PD. In modo politicamente corretto s’intende. Comunque visto che c’è vita oltre Twitter è meglio che questa si organizzi. Il presidente del consiglio, oltre a voler durare, non ha idee precise sul da farsi. Con una situazione economica, nel migliore dei casi, paralizzata questo rappresenta una cattiva notizia come uno stimolo a far, presto, qualcosa di sensato contro l’ultimo, si spera in senso definitivo, degli improbabili al governo del paese. Redazione Senza Soste -------------------------------------------------------- Non a tutti piace Expo Il primo maggio milanese ci consegna una giornata dalle molteplici sfaccettature. Il primo dato fondamentale da cogliere è che quelle decine di migliaia di persone scese in piazza rappresentano uno spettro della società non recuperabile oggi dalla rappresentanza politico-partitica. Nell’insieme, queste presenze hanno saputo esprimere con forza il rifiuto di una città modellata intorno a Expo, ribaltando in maniera forte quella “valorizzazione del territorio” di cui si riempiono la bocca i padroni del cibo. Arrivando a incrinare quell’expoizzazione della città che pretendeva di delimitare lo spazio di agibilità politica di chi si oppone al modello di sviluppo incarnato nel mega-evento di cemento e lavoro gratuito. C’era solo una risposta da dare alla sfacciataggine della questura che ha deciso a qualche giorno dalla contro-manifestazione di porre una zona rossa e vietare un percorso autorizzato da mesi. La città non è di Expo: dalle periferie al centro è stato importante provare a violare la zona rossa per significarlo. E’ stato un corteo composito, con pratiche eterogenee in cui tutte le realtà che hanno partecipato al percorso di opposizione al mega-evento hanno avuto spazio per esprimersi. Pratiche di conflitto radicali hanno coabitato con momenti di incontro tra giovani precari, occupanti di case di diverse città, sanzionamenti e musica si sono alternati tutelando le diverse sensibilità e componenti. Un primo maggio importante nella misura in cui ha saputo porre con chiarezza un’incompatibilità tra il modello-Expo e la parte del paese che non accetta l’impoverimento generale come orizzonte inevitabile di una “ripresa” che è solo artificio retorico per forzarci a stringere ancora la cinghia. Lo scarto politico, per la composizione giovanile che ha animato, numerosissima, il corteo è stato nell’individuare Expo come punto di arrivo e di rilancio di quei meccanismi di precarietà che subiamo da decenni smontando la retorica di chi voleva camuffarlo da “nuovo inizio”. È uno scarto che ci parla di uno spazio di opposizione possibile e concreta al bulldozer renziano e al partito della nazione, di un’irriducibilità delle tensioni sociali che attraversano i territori. Il premier voleva una vetrina per mostrare il meglio dell’Italia. L’ha avuta in questo primo maggio di lotta: l’eccellenza italiana è riprendersi le strade, tutti insieme. Con tutti i suoi limiti il corteo di ieri è la prima grande e decisa protesta contro Renzi e il suo modello di sviluppo, e cosi verrà ricordata. Ma è stata anche una giornata di protesta contro l’Europa della crisi, in continuità con quel 18M a Francoforte che ci aveva mostrato una ricomposizione possibile sul piano del conflitto fuori e contro la governance dell’unione. A Expo c’erano capi di stato da tutta Europa e da tutta Europa è giunta gente a contestarli. Sicuramente si tratta di una dinamica ancora balbuziente e le reciproche incomprensioni sono moltiplicate da culture politiche diverse e livelli di radicalità discordi tra i nostri territori. È un vero lavoro di traduzione, nel senso più ampio del termine, sul quale dobbiamo ancora lavorare molto. Ma è comunque una ricchezza vedere che quell’orizzonte minimo delle lotte che è l’Europa si concretizzi finalmente nella contaminazione del conflitto e non negli scambi tra ceto politico. Queste le considerazioni positive che ci sentiamo di fare rispetto a questa giornata di lotta. Permangono comunque molte criticità su cui dovremo lavorare insieme… tra chi ha voglia di mettersi sinceramente in gioco. La questione, come al solito, non è nelle identità ma nel metodo. Ragionare su quali pratiche ci rendono più forti e evidenziano le linee di frattura sempre più larghe in una società caratterizzata da una rabbia latente quanto diffusa. Spaccare utilitarie o vetrine a caso è un gesto idiota che ha senso soltanto per chi assume come referente del suo agire “politico” il proprio micro-milieu ombelicale. Per quanto ci riguarda il nostro soggetto sociale di riferimento resta sempre quello degli impoveriti, dei senza casa, dei giovani, dei migranti e di tutta quell’eccedenza umana da cui dipende ogni orizzonte di cambiamento radicale dell’esistente. Ai commentatori indignati che oggi spopolano sui social e più in generale in rete vorremmo però sottoporre alcune piccole osservazioni: 1) quello spezzone di corteo che oggi viene sintetizzato e banalizzato nella formula del “blocco nero” – e che raccoglieva invece composizioni politiche e sociali anche molto differenti e stratificate -, piaccia o meno, era il più numeroso dell’intero corteo. A chi oggi pretenderebbe di negare questa evidenza, chiediamo di tornare con lo sguardo all’imbocco di via De Amicis dove si poteva osservare l’ingrossarsi delle file e lo sciamare di moltissimi giovani da altri punti del corteo in quello spezzone lì. 2) si trovavano lì riunite soggettività collettive e individuali che intendevano praticare una qualche forma di conflitto: esercizio della forza, pratica dell’obiettivo, rottura della compatibilità di sfilate sempre uguali a sé stesse e totalmente ininfluenti. 3) il resto del corteo non è stato intaccato o messo a rischio fisico dagli scontri e dalle azioni che vi si sono prodotte. Si dirà che questo è stato merito della oculata gestione delle forze dell’ordine che hanno lasciato sfogare quella piazza evitando un allargamento dei disordini e la loro ingestibilità. Vero, ma la verità sta nella relazione tra quello che la questura ha optato di fronte a una presenza massiccia e di difficile gestione. Una forza effettiva era in campo e poco disponibile a forme di dialogo. In un articolo, peraltro orrendo, Luca Fazio coglie almeno un dato politico: con quel modo di stare in piazza bisogna fare i conti e nessuna struttura organizzata, in queste occasioni, è in grado di esercitare una forza di controllo e direzione compiuta. E’ un bel nodo da sciogliere e su cui lavorare. A partire da una premessa: quella rabbia, quella composizione, quei soggetti sono affare nostro e vogliamo averci a che fare, con tutte le difficoltà del caso. Chi se ne tira fuori – per calcolo, paura o presunta superiorità politico-morale – sta tracciando un solco tra gli alfabetizzati della politica e gli impoveriti ed arrabbiati che in alcune occasioni si presentano sulla scena. Istituisce una gerarchia di apartheid politico tra rappresentabili e non. E’ un gioco a cui non ci prestiamo. Preoccuparsi del solco che si rischia di scavare tra militanti e resto della popolazione è cosa lodevole e necessaria (nodo del consenso). Non porsi il problema di come inglobare e dare senso a una rabbia latente e necessaria (nodo del conflitto) è una scelta ponzio-pilatesca e dallo sguardo corto, tanto più per chi si rappresenta come opzione conflittuale e antagonistica mentre nei fatti pensa ogni volta solo ed esclusivamente a portare a casa la pelle e garantirsi la riproduzione del proprio piccolo aggregato, tenendosi aperti canali di mediazione e dialogo che non portano più da nessuna parte. C’è tanto da dire, ragionare e commentare sui fatti di ieri. C’è però innanzi tutto da prendere una posizione chiara sul dove e con chi stare. Sul fatto che è mille volte preferibile trovarsi il giorno dopo a fare i conti con conseguenze ed esiti imprevisti piuttosto che darsi le pacche sulle spalle tra le infinite gradazioni di un ceto politico costantemente impaurito dall’emergere di una qualunque forma di eccedenza non prevista. Atene, Baltimora, Istanbul sono dietro l’angolo. Prendiamone atto e attrezziamoci di conseguenza. C’è invece chi ancora pensa di trovarsi nella stagione dei social forum o peggio, nei trenta gloriosi. Non è (più) così. Redazione Infoaut.org --------------------------------------------------------------------- Contro l’Expo e gli sciacalli del giorno dopo Trentamila persone per una manifestazione addirittura internazionale, lanciata da mesi e contro la *grande opera* per eccellenza, segnano la cornice entro cui ogni ragionamento andrebbe riportato: oggi, se non in rare occasioni, non abbiamo la forza di costruire consenso, veicolare processi di opposizione reale, sedimentare forme di resistenza. Oggi a muoversi sono sempre e solo militanti politici, numericamente sempre meno e sempre più isolati dal corpo sociale che in qualche modo si vuole rappresentare (quello del lavoro: salariato, disoccupato, precario, non pagato, eccetera). I motivi di questo progressivo scollamento sono da ricercarsi dentro di noi, non all’esterno. Non c’è un complotto contro processi di partecipazione, se non la tipica dinamica volta a disincentivarli sempre però presente, in ogni fase della storia, quando questi assumono forma antagonistica. Questo il primo dato da cui partire, che però spiega i motivi per cui, a seconda del contesto, si dovrebbe avere l’intelligenza e la capacità di scegliere lo strumento più adatto per esprimere un messaggio politico. Per quanto ci riguarda, siamo saliti a Milano con la consapevolezza di partecipare in forma minore, senza velleità protagonistiche, consapevoli che da tempo la città stava investendo tutta l’energia politica di cui è attualmente capace per l’occasione, fidandoci dunque dei compagni che in qualche modo ci si stavano sbattendo. Abbiamo partecipato nello spezzone che consideravamo centrale nel discorso “no-Expo”, quello del lavoro. E’ la questione lavorativa il cuore del significato dell’Expo; sono le forme che il lavoro assume nei progetti pilota quali Expo che minano alla radice le nostre condizioni di vita; sono tali sperimentazioni sociali che poi il capitale generalizza trovando sbocco alla sua necessità di profitto. E’ dunque nella questione lavorativa che si trovano le ragioni della nostra opposizione alla grande opera Expo. Tutelando noi e la metà del corteo dietro agli scontri, abbiamo – insieme agli altri compagni presenti: dai sindacati conflittuali ai collettivi che fondano il proprio agire nella contraddizione capitale-lavoro – garantito che metà corteo giungesse infine alla sua naturale conclusione, evitando la dispersione del corteo stesso. Non eravamo materialmente presenti nel fuoco degli scontri, evitiamo dunque di parlare di dinamiche che ci vengono raccontate ma che sono frutto di legittime decisioni altrui. Soprattutto, non ci accodiamo al pensiero mainstream che da subito ha iniziato la consueta opera denigratoria. Non c’è un corteo buono e uno cattivo; non ci sono infiltrati; non c’è una parte sana e una malata. Questa cosa va detta con fermezza, in ogni dove. C’è solo tanta rabbia, che va articolata ed espressa nel migliore dei modi (e dubitiamo che questo “migliore dei modi” sia quello visto ieri), ma che in ogni caso non condanniamo perché non è certo il comportamento dei subalterni che oggi può essere messo sul banco degli imputati. Ci sono delle scelte politiche precise e una “narrazione conflittuale” che da tempo ha preso il sopravvento sulla strategia politica. Non è lo scontro e la devastazione il problema oggi. E’ come creare consenso attorno a pratiche conflittuali. E’ questo ciò che manca, ed è da qui che si deve ripartire, e da subito. Non reiterando discorsi e immaginari che vengono poi raccolti da altri, che con più sapienza e coerenza li portano alle estreme conseguenze. E’ tornando a fare politica, cioè costruendo un discorso conflittuale che vada di pari passo al sentire comune della classe. Senza accelerazioni inutili o altrettanto inutili attendismi. Quelli che oggi inorridiscono e che magari favoleggiano degli anni Settanta dovrebbero tenere in mente che esteticamente non c’è molta differenza tra la Milano di ieri e una qualsiasi manifestazione del ’77: è il contesto che è radicalmente diverso, la cornice politica radicalmente mutata, i numeri, il consenso diffuso, una dialettica politica differente, differenti organizzazioni capace di reggere pratiche di piazza oggi completamente “anarchiche”. Un modello che oggi non può essere riproposto in sedicesimi sperando di azzeccare la combinazione giusta per caso, scontro dopo scontro, quasi che attraverso una sommatoria di pratiche esteticamente simili si possano riattivare magicamente cicli di lotte ormai trapassati. Tra una sfilata pacifica e una Mercedes in fiamme, ci sembra mancare la politica, quella mediazione capace di spostare in avanti il nostro rapporto di forze con i nemici di classe. Che utilizza il conflitto comemezzo e non come fine, trasformandolo in obiettivo politico strategico e sacrificando ad esso ogni discorso di opportunità politica. Ma questo è un discorso che va affrontato tutti insieme. Da oggi va ricostruita un’opposizione all’Expo, vanno continuati i percorsi e vanno liberati i compagni. Soprattutto quelli arrestati ieri negli scontri. E dopo anni di corruzione, scandali, miliardi sottratti alla cittadinanza, nepotismi vari, disastri economici, sociali e culturali, non ci venissero a parlare di danni d’immagine alla città. Non sarà la collera male organizzata dei subalterni a rendere le nostre ragioni meno decisive. Collettivo Politico Militant – Roma --------------------------------------------------------------- Milano. Quello che va detto E’ tempo di valutazioni su quanto accaduto a Milano con la manifestazione nazionale No Expo, ma il primo errore da evitare è quello di una valutazione circoscritta ai “fatti” avvenuti durante una manifestazione. Questa è l’operazione sistematica che il sistema dei media adotta e dunque non può essere il nostro. Una manifestazione nazionale, tra l’altro, non è che un momento di passaggio e di sintesi di un percorso iniziato da tempo e che dovrebbe – anche in questo caso – indicare i passi del percorso successivo. Il secondo errore è quello di concentrare l’attenzione e dividersi nelle valutazioni sugli e degli scontri avvenuti. Non è la prima e non sarà l’ultima volta che una manifestazione convive con una dualità al proprio interno. Se non possiamo che riaffermare una distanza stellare da azioni che colpiscono allo stesso modo la vetrina di una banca e quella di un normale esercizio commerciale, di un costosissimo Suv e una utilitaria, dobbiamo anche sottolineare come non siano gli incidenti in piazza – più o meno gravi – a “nascondere” le ragioni dei manifestanti quanto, piuttosto, il sistema dei media e dei loro azionisti di riferimento. Spesso, troppo spesso, proprio l’assenza di incidenti fa sì che manifestazioni pacifiche di migliaia di persone vengano vergognosamente silenziate. Ignorate come se non fossero mai avvenute. Come ebbe a dire un veterano del sindacalismo proprio all’indomani di una manifestazione sindacale a Milano, anche quella ignorata dai media: “la prossima volta rompo una vetrina, così dovranno accorgersi del perché migliaia di lavoratori che sono scesi in piazza”. Non solo. Da mesi ormai, da quando al potere si è insediato Renzi- quello che Marchionne e soci “hanno messo lì” – nel paese e nelle sue relazioni si è imposta una governance autoritaria che nega ogni possibilità di dialogo o modifica delle decisioni imposte dal governo: dalle leggi contro-costituzionali al jobs act, dalla scuola alla legge elettorale. E allora? Se le manifestazioni pacifiche o le opposizioni parlamentari non hanno la possibilità di incidere sulle scelte, che cosa si pretende? Milano ha visto scendere in piazza quasi quarantamila persone, in larghissima parte giovani e lavoratori dei settori a rischio, contro l’Expo, ossia contro una costosissima (per noi) vetrina per le multinazionali che ha devastato un intero territorio e le casse pubbliche. Ma soprattutto contro l'”esperimento” politico del lavoro gratuito e del divieto di sciopero per la durata dell'”evento”. Contro tale progetto sono otto anni che comitati, reti sociali, collettivi si stanno battendo punto su punto. Dunque la mobilitazione No Expo non è nata il 1 maggio a Milano, ma è il risultato di un lungo lavoro. Il governo e i poteri forti hanno spinto il piede sull’acceleratore volendone fare un simbolo, un “pennacchio”, dell’attuale esecutivo. Hanno creato loro stessi l’evento catalizzatore. Il sistema dei mass media ha fatto il resto alimentando per settimane la tensione. Un processo questo che, da un lato vorrebbe allontanare la gente dalle manifestazioni e dall’altro produce l’effetto opposto. Un paradosso? No, proprio perché una manifestazione che possa prevedere scontri di piazza produce l’idea che possa essere una manifestazione più efficace di altre. Infine, su quanto accaduto in piazza. La partecipazione è stata ampia e con migliaia di persone. Si era capito che l’aria si sarebbe saturata di lacrimogeni e quant’altro, ma nessuno se ne è andato via per questo. Solo alcuni – vedi i soggetti della Coalizione sociale di Landini – se ne sono tenuti alla larga. La polizia ha adottato una strategia completamente diversa da Genova. Le immagini della macelleria messicana del 2001, anche alla luce della sentenza della Corte Europea, non erano ripetibili. Dunque ha giocato d’anticipo con alcuni blitz, ha chiuso il centro di Milano, ha tenuto a distanza il corteo ed ha ridotto al minimo i danni. Cariche pesanti, lunghe e indiscriminate, avrebbero esteso a macchia d’olio quello che invece è rimasto circoscritto a due punti del percorso. Volendo avrebbe potuto effettuare centinaia di fermi o arresti nel momento in cui la manifestazione si è sciolta perché l’area era completamente circondata. Con molta probabilità agirà nei giorni successivi utilizzando le tecnologie di identificazione e la deterrenza dei capi di accusa (devastazione e saccheggio) come strumento di repressione e ritorsione. Volendo tirare alcune prime conclusioni, con ancora la stanchezza della manifestazione e del viaggio addosso, ci sembra che la manifestazione di Milano confermi come oggi il conflitto sociale non possa agire dentro contesti che si stano rivelando inefficaci a tutti i livelli – da quello sindacale a quello parlamentare, da quello sociale a quello politico – e che nessuno possa più permettersi di usare i cosiddetti black block come capro espiatorio delle proprie difficoltà. Dall’altra parte occorre intervenire su alcuni pezzi delle nuove generazioni del conflitto per liberarle “dall’edonismo sfasciatutto” che prescinde dal contesto, dalla reazione dei soggetti sociali, dalla possibilità di creare relazioni, amplificare coalizioni e conflitti. Uno spot che dura il tempo di un telegiornale rimane pur sempre uno spot, che si tratti di un innocuo flash mob o di un assalto alla vetrina di una banca. Il fatto che i mass media parlino di loro, solo di loro e solo in questo modo, non è la soluzione, è parte del problema. Prima lo si capisce meglio è. Redazione Contropiano

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