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domenica 11 settembre 2016

STATO E NAZIONE NEL VICINO ORIENTE


STATO E NAZIONE NEL VICINO ORIENTE
di Pier Francesco Zarcone



L'IMPERIALISMO FRANCO-BRITANNICO E IL CAOS ODIERNO

Per capire in qualche modo l'attuale caos nel Vicino Oriente bisogna risalire ai primi degli anni '20 del secolo scorso, quando dopo la Grande Guerra alcuni politici occidentali (Lloyd George, Clemenceau, Churchill) ridisegnarono la mappa di quella parte di mondo. Giustamente si dice che crearono degli Stati artificiali; tuttavia questa caratteristica viene meglio espressa dal concetto di "comunità immaginate", cioè carenti di storia nella loro forma attuale (con una certa eccezione per la Siria): per esempio, la storia della Mesopotamia non è la stessa cosa della storia dell'Iraq.
In relazione a questo non è casuale che oggi nel Vicino Oriente non manchino quanti collocano la cosiddetta "rivolta araba" dello Sharif hashimita della Mecca, Husayn, dei suoi figli Faysal e Abd Allah e di T.E. Lawrence, tra le cause prime delle attuali disgrazie. Infatti la proposta ricevuta da Gran Bretagna e Francia per appoggiare una rivolta araba contro gli Ottomani e poi costituire uno Stato arabo indipendente fece intendere agli Alleati che esistesse un nazionalismo arabo da loro sfruttabile. È nota la successiva sequenza di illusioni e tradimenti imputabili a Londra e Parigi, ma quel convincimento rimase, al di là dei differenti modi di procedere di ciascuna delle due potenze: la Gran Bretagna in qualche modo cercò di "salvare capra e cavoli", cioè di realizzare i propri interessi imperialistici mediante la creazione di entità statuali arabe, sottoposte al suo controllo indiretto; mentre la Francia preferì il controllo diretto sulla Siria, frantumandola nella Siria attuale e nel Libano. L'obiettivo di entrambe le due potenze rimase quello di condurre all'indipendenza formale entità statuali adeguatamente plasmate e ammorbidite.
Per quanto riguarda l'intervento della Gran Bretagna, avendo come presupposto - errato - l'esistenza di un diffuso nazionalismo arabo, la sua azione imperialistica fu accompagnata dall'illusione che fosse sufficiente aver costituito tre nuovi Stati arabi dalla disgregazione ottomana: Higiaz, Transgiordania, Iraq (il primo sarebbe stato ben presto annesso ai domini di Abd al-Aziz ibn Saud, cioè all'odierna Arabia Saudita). La situazione nel Vicino Oriente e le sue dinamiche - in realtà ignorate dai britannici - erano assai più complesse, e le difficoltà cominciarono subito.
Nonostante le illusioni britanniche, il nazionalismo arabo era l'ideologia di una minoranza di intellettuali urbani non radicati nelle masse, con una non secondaria presenza di Arabi cristiani: non averlo capito fece ritenere (sbagliando) che la Nazione potesse prevalere - per sua forza unificante - sulle religioni, sulle etnie, sulle tribù. La storia avrebbe dimostrato il contrario. In realtà l'unica componente del Vicino Oriente in cui sulla religione possa prevalere il dato linguistico (insieme a quello etnico) è la popolazione curda.
Eppure avrebbe dovuto costituire un campanello d'allarme il dato quantitativo (molto scarso e a pagamento) della partecipazione araba alla ribellione antiottomana (significativa diserzione di truppe non ve ne fu, e solo alcuni ufficiali arabi prigionieri aderirono alla rivolta) e la sua effettiva incidenza militare che, pur includendovi la presa di Aqaba, si ridusse a qualche azione di guerriglia e di sabotaggio, tutto sommato ininfluente sullo sforzo bellico alleato nel fronte del Sinai. (Se si sfugge alle rodomontate di T.E. Lawrence, salta all'occhio che i ribelli arabi nemmeno riuscirono a prendere Medina - tenuta dalle truppe ottomane fin dopo la cessazione delle ostilità - e che il loro ingresso a Damasco prima delle truppe alleate fu dovuto solo alla sensibilità politica del generale Allenby, che scelse di inebriare gli irregolari hashimiti col solo fumo di un "arrosto" che non arrivarono a mangiare.) In definitiva, tenuto conto delle proporzioni, sarebbe meglio parlare di "rivolta hashimita", e basta.
In Transgiordania le cose non andarono male per i britannici: Abd Allah ibn Husayn ne diventò emiro sotto il protettorato di Londra e il suo staterello rimase il più stabile nella costruzione postbellica del Vicino Oriente. Lo stesso non può dirsi né per il Libano né per la Siria né per il nuovo Stato dell'Iraq. Quest'ultimo fu costituito mediante l'accorpamento delle tre provincie ottomane (vilayetler) di Baghdad, Basra (Bassora) e Mosul poste sotto la corona data a Faysal ibn Husayn. Sembrava la mossa giusta: il nuovo Re, principe arabo e alla testa della rivolta antiottomana, apparteneva alla stessa famiglia del Profeta ed era figlio dello Sharif custode dei Luoghi Santi. E invece no. Infatti Faysal era sunnita e per la maggioranza sciita della popolazione del suo regno la sua discendenza dal Profeta era un insufficiente formalismo, giacché per lo Sciismo essere "della famiglia del Profeta" (ahl al-bayt) significa "discendere da Fatima e Ali", cioè dalla figlia di Muhammad e dal primo Imam degli Sciiti. In conclusione, per la maggioranza dei nuovi sudditi Faysal mancava di legittimità (innanzitutto religiosa).
Proprio il problema della legittimità sarà (è) centrale in paesi come Iraq, Siria e Libano.
Quanto dianzi detto non vuol negare che a un certo punto anche nel Vicino Oriente si sia diffuso il virus nazionalistico; più semplicemente vuole introdurre due elementi specifici che non sono stati affatto privi di conseguenze: innanzitutto il "nazionalismo arabo" non ha mai raggiunto una definizione (o direzione) univoca, frammentandosi cioè tra sostenitori del panarabismo o del nazionalismo locale, per poi influire altrettanto confusamente su quelle confuse costruzioni a cui si dà il nome di "socialismo arabo". In ogni caso, tuttavia, funse da momentanea formula politica contro l'imperialismo occidentale.
Il secondo aspetto consiste nel non aver mai realmente attecchito tra le masse popolari sì da diminuirne l'influsso della religione. D'altro canto non ne aveva la forza intrinseca.

L'IMPOSSIBILE NASCITA DI NAZIONI SENZA BASI

A parte la particolare situazione storica e culturale dell'Egitto, è assai arduo individuare gli elementi "classici" della Nazione in entità come Siria, Libano e Iraq, i cui territori per una moltitudine di secoli e secoli sono stati inquadrati - e al loro interno suddivisi - come circoscrizioni amministrative di più vasti imperi multietnici e multireligiosi (da ultimi, l'Impero mamelucco e quello ottomano).
Tanto per non andare molto indietro nel tempo, ci limitiamo a questi ultimi due Imperi, per rilevare che si limitarono a imporre l'obbedienza al Sultano di turno, il cui potere semplicemente si sovrapponeva alle preesistenti - e ben più "naturali" - lealtà identitarie locali (religiose, etniche, tribali e famigliari), lealtà rimaste quindi con tutta la loro forza accumulata nel tempo.
Per nessuno dei tre casi in questione può parlarsi di "Stato nazionale", per cui era consequenziale che, trattandosi di entità elevate a Stato ma senza basi effettive, all'atto pratico per governarle non bastassero poteri centrali semplicemente definibili "forti": ci volevano governi dispotici, perché la democrazia avrebbe mandato a rotoli tutta la costruzione, dimostrando - come nella favola di Andersen - che "il re era nudo", non foss'altro per il semplice motivo della mancanza del "cittadino" ostile alla sudditanza.
In Siria, Iraq e Libano il cosiddetto cittadino da un lato è suddito dello Stato, e dall'altro è parte (suddito) di reti locali di lealtà che non si riferiscono né allo Stato né al partito dominante né ai vari partiti esistenti (come in Libano). Ne consegue che la sudditanza allo Stato non realizza una forza identitaria comparabile con quella delle altre appartenenze.
In più, i nuovi Stati - volendo (ma anche dovendo) agire da Stati moderni - sono apparsi come portatori di modernizzazioni forzate, il più delle volte dalla portata ridotta, che tuttavia nei rispettivi contesti multietnici, multireligiosi e (come in Iraq) multilinguistici, hanno pericolosamente insidiato le tradizionali influenze, autorità e strutture, portando da un lato a sviluppare dei "nazionalismi locali" e/o di gruppo, e dall'altro a mettere a disposizione dello Stato reti di influenza tradizionali, col risultato di controbilanciare gli iniziali sforzi del potere centrale per il loro contenimento, creando situazioni ancora irrisolte.
In merito ai partiti politici del Vicino Oriente, è ormai fenomeno diffuso la perdita delle caratterizzazioni ideologiche originarie (quando ci sono state), che hanno rapidamente perso d'importanza dopo la presa del potere, tutto diventando funzionale agli interessi dei gruppi dominanti all'interno di ciascun partito e delle sue clientele. Ovviamente il solo "progetto politico" rimasto è quello del mantenimento del potere. A maggior ragione nei partiti "personali". Si aggiunga che questi partiti non hanno mai costituito centri di dibattito politico, bensì di mera obbedienza alle decisioni prese dai vertici. Lo stesso discorso vale, mutatis mutandis, per i partiti etnici e religiosi, soprattutto se conquistano il potere. La situazione peggiore, al riguardo, si ha in Libano, dove la Francia ha lasciato un avvelenato assetto istituzionale basato su una lottizzazione religiosa, oltretutto per lungo tempo ancorata ai dati di un censimento fatto all'epoca del Mandato.
In Siria e Iraq il potere statale ha avuto modo di affermarsi con maggior forza, ma a fronte di questo la società civile si è dovuta lasciar annichilire dallo Stato senza poter fornirgli effettivi apporti politici, almeno fino a che lo Stato non è incorso in sconfitta bellica o grave crisi interna.
Nei tre paesi sopra menzionati un ulteriore ostacolo a che lo Stato diventasse forza unificante è costituito dalla presenza di forti diversità religiose ed etniche da secoli divise da odi e spargimenti di sangue. In genere i media accennano alle conflittualità tra Cristiani e Musulmani, o fra Sunniti e Sciiti, rimanendo però ignote quelle tra le diverse Chiese cristiane, la cui virulenza non è sempre di minor grado.
Finché quei territori erano strutturati in ripartizioni amministrative di entità superiori, la situazione nel complesso teneva: a volte bene, a volte male. Tutto è cambiato con le formazioni statali volute da Gran Bretagna e Francia; Stati assimilabili a contenitori non già di mosaici (che implicano un'armonia di insieme), bensì di insiemi non amalgamati di tessere; e mancando le condizioni per assetti democratici era ovvio che le rispettive popolazioni (eterogenee) finissero governate da minoranze, non tanto politiche quanto religiose e/o etniche, per giunta insensibili ai "diritti umani". Si tratta di situazioni che o non durano o durano ma a prezzo di sanguinose crisi seriali (come in Libano).
Ad aggravare le cose intervennero in certi casi operazioni di ingegneria istituzionale della potenza mandataria e necessità di contrappesi religiosi da parte del governo insediato dagli imperialisti. Il primo caso riguarda il Libano, dove le autorità mandatarie francesi estesero le zone attribuite ai Cattolici maroniti (loro tradizionali alleati) a scapito dei Musulmani; il secondo attiene all'Iraq, dove il primo sovrano, Faysal, ottenne a nord le zone dell'attuale Kurdistan iracheno, in prevalenza abitato da Sunniti (i Curdi sciiti non sono molti), per rafforzare questa componente a fronte della maggioranza sciita, che anche con questa mossa superò il 60%. L'iniziativa di Faysal creò il problema dell'inserimento nella compagine irachena di una consistente popolazione non araba, bensì indoeuropea (più affine agli Iraniani), ponendo basi per l'irrisolto problema curdo in Iraq. Infatti, fin dall'avvento della monarchia hashimita l'élite al potere - sunnita - pur discriminando e opprimendo la maggioranza sciita, cercò comunque di sviluppare qualcosa che desse agli abitanti un minimo di identificazione unitaria, ma il guaio fu che lo fece privilegiando l'arabicità, cioè a dire discriminando - e pesantemente - i Curdi e i Turcomanni del nord, non facendoli mai sentire realmente parte dell'Iraq, pur esigendosi da Baghdad il sentimento dell'inclusione.
Come già accennato, in tutto il Vicino Oriente esiste un problema di legittimità per chi governa, a motivo della tendenza degli esclusi dal potere - si tratti di maggioranze o di minoranze - che si sentono (e sono) oppresse e discriminate. In tali contesti, a seminare il caos ci vuole poco, e caos vuol dire massacri e creazione di nuovi rancori che si sedimentano con i vecchi.

LE DIFFICOLTÀ PRATICHE A SOLUZIONI "MORBIDE"

Purtroppo le soluzioni - ammettendo che ce ne siano - dipendono dagli interessi imperialistici sull'area. Gli Stati Uniti da tempo progettano - soprattutto per Iraq e Siria - la fine degli attuali Stati "unitari". Sdegno e opposizione da parte del variegato e residuale fronte antimperialistico, ma anche di grandi potenze interessate all'area come Russia e Cina, alle quali sembra essersi aggregata (per il momento) anche la Turchia. I motivi di tali opposizioni sono facilmente intuibili. Ad ogni modo - in ragione dell'esistenza di convivenze che solo eufemisticamente possono essere definite "difficilissime" in Siria, Iraq e Libano - anche i progetti di spartizione non sono affatto carenti di logica, anzi sembrerebbero la soluzione più facile, pur mettendo nel conto il "danno collaterale" inerente gli inevitabili scambi di popolazione.
Sembra che nell'autunno di quest'anno nel Kurdistan iracheno si terrà un referendum consultivo sull'indipendenza: fuor di dubbio che un esito indipendentista non sarebbe preso affatto bene a Baghdad, a motivo del petrolio nel Nord del paese, ai cui proventi né i Curdi né il governo dell'Iraq possono rinunciare per ragioni di sopravvivenza economica.
Ma c'è di più. La nuova Costituzione irachena prevede la possibilità che oltre al Kurdistan si formino ulteriori federazioni all'interno della Repubblica. A seconda dell'evoluzione degli avvenimenti politici e militari in corso non si può aprioristicamente escludere che di tale possibilità si avvalgano gli Sciiti del Centro-sud: se così fosse, automaticamente si aprirebbe la lotta con i Sunniti arabi per il controllo di Baghdad; e se questo dovesse avvenire dopo l'auspicata sconfitta dell'Isis, è praticamente certo che si avrebbe una reviviscenza del radicalismo islamista sunnita.
D'altro canto, oltre agli interessi dei soggetti interni (difficili da conciliare, poiché perduranti da molti secoli) ci sono in gioco troppe interferenze e troppi interessi di grandi potenze e di potenze regionali perché si possa arrivare alla diffusione di una convinta identità irachena che travalichi i particolarismi religiosi, etnici e linguistici. E inoltre la situazione irachena appare così incancrenita da rendere utopico solo pensare a sistemazioni indolori alla maniera ex cecoslovacca.
Il Libano è una realtà politico-istituzionale che stancamente sopravvive a se stessa, tipica creazione di un imperialismo presbite e miope, quello francese, che, pensando scioccamente di durare per chissà quanto tempo, ha usato il divide et impera senza criteri utili nemmeno per se stesso, e pensando che il mito della grandeur gallica potesse davvero assicurare alla Francia margini di influenza in un Levante che da tempo si capiva sarebbe diventato scenario di conflitti tra potenze diverse, perché ben più grandi di quella francese. Probabilmente continuerà a sopravvivere, malamente.
Circa la Siria anche fare ipotesi è del tutto prematuro.


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