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domenica 12 giugno 2016

Lavoratori palestinesi in Israele: tra Scilla e Cariddi - DOSSIER SULLA PALESTINA

Articolo scritto dopo un'intervista a lavoratori palestinesi al checkpoint di Betlemme

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I lavoratori palestinesi sono una delle categorie sociali più dimenticate ed abbandonate sia in ambito politico, che economico o sociale. Quasi tutti i lavoratori palestinesi sono vessati da vari lati: dall'Autorità Palestinese, dallo Stato Sionista e dai padroni sia israeliani che palestinesi. E' il caso di notare che i diritti dei lavoratori palestinesi, la loro stabilità ed il loro futuro vengono raramente citati nelle politiche delle due Entità in conflitto, dal momento che nessuna delle due ritiene importante riflettere sui problemi dei lavoratori palestinesi. Nè si tratta di un punto affrontato come si dovrebbe in sede di negoziati Palestino-israeliani. Secondo l'istituto di statistica palestinese, il numero di lavoratori palestinesi in Israele è stimato in 105mila, pari al 2,2% della forza lavoro in Israele e pari all'11,7% della forza-lavoro della Cisgiordania.
Chi sono i lavoratori palestinesi?

I lavoratori palestinesi sono coloro che lavorano nelle aree all'interno della Linea Verde, che hanno un documento di identità palestinese e che risiedono nelle zone sotto l'Autorità Palestinese in Cisgiordania; oppure sono coloro che vivono nella Striscia di Gaza, sono Arabi Israeliani o Arabi che vivono a Gerusalemme (con documento di identità israeliano) e sono considerati lavoratori israeliani.

I permessi di lavoro

Dopo lo scoppio della prima Intifada palestinese, specificatamente nel 1991, Israele assunse la decisione di limitare la libertà di movimento tra la Cisgiordania, la Striscia di Gaza e le aree all'interno della Linea Verde, per cui divenne obbligatorio per ogni palestinese che voleva recarsi legalmente in Israele, avere un permesso di lavoro.

I lavoratori palestinesi si ritrovarono divisi in due parti in termini di legalità e della possibilità di ottenere i loro diritti. Per primi, i lavoratori palestinesi legali con permessi, pari al 64% del numero di lavoratori palestinesi in Israele. La legislazione israeliana sul lavoro  si applica anche a  questa categoria di lavoratori dal 1970 e sulla base della Convenzione di Parigi del 29 aprile 1994, che si era fatta carico della questione dell'impiego di lavoratori palestinesi all'interno della Linea Verde. Poi, ci sono i lavoratori illegali (che lavorano clandestinamente in Israele) pari a quasi il 36% del totale dei lavoratori palestinesi all'interno di Israele. Il tribunale di Netanya ha riconosciuto i diritti di questa categoria di lavoratori, ma i loro diritti sono spesso misconosciuti ed ignorati.

Le regole e le prerogative per ottenere un permesso di lavoro diventano più complesse ogni anno che passa, costringendo i lavoratori palestinesi che non rispondono alle prerogative stabilite (cioè gli scapoli, i più giovani, quelli sposati ma senza figli...) ad entrare in Israele illegalmente -in base alle leggi dello Stato- e provocando un aumento della disoccupazione nei territori occupati. Il numero dei lavoratori illegali è cresciuto moltissimo e con esso lo sfruttamento di molti lavoratori da parte dei "caporali".

Stessa tirannia. Tiranni differenti.

In diversi cercano di accrescere i propri profitti sfruttando i lavoratori palestinesi, d'altra parte le oscillazioni ed i continui cambiamenti nella legislazione e nelle politiche dello Stato di Israele unitamente al perpetuarsi dell'occupazione dei territori invasi nel 1967 esercitano una forte pressione sulle condizioni di vita dei lavoratori palestinesi, minacciandone stabilità e progettualità di vita, impedendo a volte agli stessi lavoratori di recarsi al lavoro e di farsi un lavoro liberamente. Ai lavoratori è impedito a volte di recarsi al lavoro e di occuparsi dei propri affari liberamente quando l'esercito israeliano impone la chiusura dei territori occupati. Comunque, lo Stato ha ridotto il numero dei lavoratori palestinesi all'indomani della Guerra del Golfo per sostituirli con forza-lavoro immigrata. Attualmente i lavoratori palestinesi vengono di solito impiegati in lavori pesanti quali l'edilizia e riparazioni meccaniche.

Come detto prima, il governo israeliano ha riconosciuto i diritti dei lavoratori palestinesi ed ha dichiarato di voler dare loro gli stessi diritti dei lavoratori israeliani, dal momento che ogni discriminazione basata sul colore della pelle, della razza o della religione si pone contro le leggi dello Stato. Sono tanti ed in vari campi gli impegni assunti per proteggere i lavoratori palestinesi dallo sfruttamento, ma quanto sono credibili? I lavoratori palestinesi sono davvero equiparati ai lavoratori israeliani? Le leggi esistenti sono davvero applicabili sul campo?
Dando un'occhiata più ravvicinata alla legislazione israeliana sul lavoro, si possono facilmente trovare certe differenze di status tra i lavoratori palestinesi e quelli israeliani, dato che tale legislazione dà ai padroni israeliani il diritto di revocare i permessi di lavoro quando vogliono. Il che significa impedire al lavoratore palestinese di rivendicare futuri diritti. Una volta che gli viene negato l'ingresso in Israele, succede che egli non può fare vertenza contro i padroni israeliani e nemmeno rivolgersi alle autorità della previdenza sociale che costringono il lavoratore palestinese a rivolgersi ad un avvocato israeliano che lo rappresenti. Molti lavoratori sono vittime di imbrogli e di frode da parte degli avvocati. Un lavoratore palestinese (O.A.) ci ha raccontato che c'era una vertenza tra lui ed il suo datore di lavoro,  si è ritrovato da un giorno all'altro senza permesso di lavoro, si è poi rivolto ad un avvocato israeliano e dopo lunghi mesi e tante firme su documenti legali scritti in ebraico, lingua a lui sconosciuta, si è accorto che l'avvocato aveva fatto un accordo col datore di lavoro e si era preso l'onorario che gli doveva. La legge israeliana dà anche al datore di lavoro israeliano il diritto di assumere lavoratori sulla base di un pre-accordo che spesso ha la forma tipo "rinuncia ai tuoi diritti e ti dò il lavoro"; questo pre-accordo serve a impedire che il lavoratore possa aprire una vertenza nel caso il datore di lavoro infrangesse la legge sul lavoro. La legge israeliana sul salario minimo recita così “ Ogni assunto a tempo pieno di età pari o superiore a 18 anni ha diritto a ricevere un salario non inferiore al minimo mensile, giornaliero od orario".  Questa legge si attiva solo se il lavoratore ha effettuato il cosiddetto numero minimo di ore settimanali lavorative, pari a 186 ore, e qui si riscontra un'altra differenza nella legislazione nel ricorso al voucher per i lavoratori palestinesi. Che è diverso da quello per i lavoratori israeliani, dal momento che conteggia i giorni e le ore lavorati in una settimana per gli israeliani e solo i giorni lavorati in una settimana per i palestinesi e qui entra in gioco il ruolo dei mediatori palestinesi ed israeliani nello sfruttare e derubare i lavoratori palestinesi alla luce del sole. 

La legge israeliana sugli infortuni da lavoro distingue chiaramente tra lavoratori palestinesi e lavoratori israeliani.  Dal momento che i rischi che corrono i Palestinesi per andare e tornare dal lavoro vanno al di là del sopportabile visto che ci si può imbattere in azioni illegali commesse dall'esercito che vengono di solito condonate, la legge è giunta a definire quale deve essere il percorso che il lavoratore palestinese deve rispettare. Percorso che non si può cambiare nemmeno per un'emergenza, o se il lavoratore ha bisogno di fermarsi lungo la strada per una necessità specifica come dover andare in banca o procurarsi da mangiare, oppure per un incidente, che non verrà considerato come incidente sul lavoro.

La legislazione israeliana sul lavoro crea le condizioni ottimali per gli imprenditori per violare i diritti dei lavoratori,  inoltre essi non rispettano la stessa legislazione nel caso dei lavoratori palestinesi, dato che basta non rinnovare loro il permesso di lavoro per fare scempio dei loro diritti. Ad ogni modo, per i lavoratori palestinesi la mancanza di coscienza dei propri diritti e la scarsa conoscenza dell'ebraico sono considerati due dei più importanti fattori su cui lavorare per aumentare la coscienza dei loro diritti dato che a volte firmano contratti di lavoro con cui sono costretti ad accettare un salario su base gornaliera. In questo modo gli imprenditori sono liberi di portare l'orario di lavoro da 8 a 10 ore quotidiane senza pagare le due ore in più. Il voucher è la prima linea di difesa del lavoratore, ma anche il primo obiettivo sotto attacco da parte degli imprenditori israeliani, che falsificano i dati riducendo il numero di giorni settimanali lavorati per ottenere vantaggi fiscali ed assicurativi a spese del lavoratore, come pure approfittando del tipo di voucher per i lavoratori palestinesi per ridurre il  numero di ore settimanali lavorate sotto il minimo di 186 e quindi non dover corrispondere il salario minimo. Ma c'è di più: l'imprenditore palestinese (ad esempio: l'appaltatore di lavori edili) diviene complice di questi abusi dal momento che i profitti intascati dall'imprenditore israeliano vengono spesso spartiti con la controparte palestinese, con un pre-accordo che prevede il loro silenzio in caso di violazioni della legge sul lavoro e con la copertura delle leggi tribali che sono ancora in vigore in alcune zone della Cirgiordania ed oltre. Il lavoratore viene obbligato a tacere e ad essere acquiescente, a meno che non faccia parte di una potente Hamula (clan palestinese, ndt)

Per quanto riguarda i lavoratori palestinesi in nero, nonostante il riconoscimento dei loro diritti, l'assenza di un contratto di lavoro e di vouchers li mette nelle condizioni di non poter rivendicare i loro diritti e di conseguenza non possono nemmeno accedere al salario minimo, all'assistenza sanitaria, all'assicurazione sociale o alla cassa infortuni sul lavoro, con salari molto bassi e pessime condizioni di lavoro.

Recentemente ha fatto il giro dei social una foto di lavoratori palestinesi all'affollato checkpoint di Betlemme. Molti attivisti hanno paragonato le condizioni dei Palestinesi ai checkpoint con la situazione nei ghetti ebrei nella Germania nazista. Dopo aver osservato da vicino la situazione che si crea al checkpoint di Betlemme ed il trattamento riservato ai Palestinesi da parte dei soldati israeliani con violenze fisiche, insulti quotidiani, commenti razzisti e discriminazioni, possiamo dire che il paragone ci sta. I lavoratori devono uscire di casa molto presto al mattino per arrivare al checkpoint prima delle ore di punta.  Un lavoratore palestinese (M.M) ci dice che finisce di lavorare a Kfar Saba alle 4 del pomeriggio ed arriva a casa sua a Hebron alle 7 di sera ed il giorno dopo deve uscire di casa alle 4 del mattino per evitare le code al checkpoint, per cui gli restano solo 2 ore di tempo libero per sè. Secondo alcuni è proprio il modo di agire intenzionalmente lesivo da parte dei soldati nello svolgere le loro mansioni che provoca gli affollamenti al checkpoint. Alcuni di loro bloccano deliberatamente il flusso con comportamenti provocatori quali fermarsi a chiacchierare con un commilitone o fingere di dover svolgere un'altra mansione. Alcuni soldati hanno ammesso di aver ricevuto ordini per burocratizzare le procedure e fare innervosire le persone. Per altri i checkpoint sono fatti in modo da non poter gestire il flusso di migliaia di Palestinesi che vi transitano quotidianamente, sia nel come sono stati progettati sia nella distribuzione dei soldati secondo criteri irregolari: infatti è raro trovare tutti i soldati presenti nelle cabine di controllo, salvo uno o due in servizio, senza dimenticare che i soldati a volte scelgono a caso dei Palestinesi in coda per procedere ad un'ispezione, ed i "sospetti" malcapitati vengono trattenuti per 30-40 minuti per essere sottoposti a perquisizione dovendosi spogliare di tutti i vestiti per ottenere di passare.

Per quanto riguarda i soldati, sono evidenti casi di quotidiane violazioni. Alcuni loro commenti sono razzisti e calunniosi. Altri urlano sul volto dei Palestinesi e sono lì lì per passare ad un'aggressione fisica. Inoltre molti lavoratori si vedono confiscati i loro permessi di lavoro appena li esibiscono per poter passare. Un lavoratore palestinese “M.H” che lavora nell'insediamento coloniale di Jabal Abu Ghniem (Har Huma) ci dice di essere stato testimone di sfottò da parte dei soldati ai checkpoint. Alcuni lo hanno apostrofato come Osama. Altri lo hanno accusato di essere un miliziano dell'ISIS. Un giorno, mentre stava facendo il suo lavoro è stato aggredito con forza da una guardia di confine israeliana che lo ha ammanettato e messo a terra puntandogli la pistola. Dopo un'ora gli hanno detto che si trattava di un'esercitazione e che erano spiacenti per l'inconveniente. Ma le cose vanno peggio per i lavoratori palestinesi clandestini: ci sono stati casi di ossa rotte, di torture e di ferite da arma da fuoco ogni volta che un lavoratore palestinese illegale si sia imbattuto in una guardia di confine.

Lavoratori palestinesi negli insediamenti coloniali e nelle zone industriali

I lavoratori palestinesi negli insediamenti coloniali soffrono della mancanza di riconoscimento dei loro diritti e dunque della  incapacità a rivendicare i loro diritti da parte di tutti coloro che potrebbero fare qualcosa. L'Autorità Palestinese considera illegali gli insediamenti coloniali e dunque ha smesso di occuparsi di legittimare i Palestinesi che vi lavorano. Sarcasticamente, viene loro applicata la legislazione giordana sul lavoro nonostante la sentenza del 2007 della Alta Corte di Giustizia di applicare la legislazione israeliana anche negli insediamenti, salvo che il salario minimo, il numero massimo di ore al giorno, l'assistenza sanitaria, l'assicurazione sociale, ecc...... non sono applicabili in questo caso. Ci si può immaginare la quantità di abusi commessi sui lavoratori palestinesi in queste condizioni.
Ilan Shalif
(traduzione a cura di ALternativa Libertaria/fdca - Ufficio Relazioni Internazionali)

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