articolo 13 del "Non Mollare" di Critica liberale
Articolo ripreso dal sito nazionale di Alternativa Libertaria
E’ difficile esporre una riflessione che armonizzi
razionalità e sentimento circa la scelta di lasciare in maniera
repentina la nostra vita.
Eppure, rispetto al suicidio, possiamo confrontarci con il bagaglio
culturale libertario che discute e difende la sovranità di noi stessi
sul nostro corpo, in modo da aprire un orizzonte comune anche alla
nostra emotività ferita.
I commenti sulla stampa a questo proposito possono dirci poco. Fatta
eccezione per il dar conto delle personalità di rilievo, a volte con
stupore per chi, seppure famoso o affermato, dotato di mezzi, sceglie il
suicidio; sempre più spesso si viene a far parte dei tant* che lasciano
la vita alle soglie dell’anzianità, e che la stampa annota come persone
decise a non farsi travolgere, se stesse ed i propri cari, da patologie
gravemente invalidanti.
Riguardo a questo la tradizione medica si evolve; in Italia, dal 2017,
esiste la legge che dispone il rispetto delle volontà dei cittadini sul
trattamento sanitario, con possibilità di rifiutare terapie di
mantenimento quali tracheostomia e gastrostomia. Malattie gravemente
lesive ora possono essere affrontate senza accanimento, e non sono rari i
casi di persone che dispongono il rifiuto della ventilazione meccanica,
affrontando consapevolmente la sedazione profonda e la morte.
Ma il percorso verso decisioni condivise con la propria rete sociale non è uguale per tutt*, possibile per tutte le patologie1, e soprattutto elaborato culturalmente e praticamente.
Il sostegno nel caso di decisione sulle sospensione delle cure, e sul
modo di finire la vita è ancora una pratica rara. Più raro ancora è il
prepararsi alla morte, seppure da alcuni decenni esistano nuovi filoni
di ricerca sia medica che filosofica. 2Ciò
anche se segnali di cambiamento, in ultimo in Italia la pronuncia della
Corte costituzionale (42/2019) sul caso Marco Cappato – Fabiano
Antoniani, stanno sancendo la liceità dell’ “accompagnamento”, anche se
fuori dai confini statali.3
Proprio nella differenza tra eutanasia (buona morte) e suicidio sta il punto.
Riguardo all’eutanasia (ancora illegale in Italia) e alla sospensione
delle cure mediche (invece legittima con Dichiarazione anticipata4), il diritto si evolve, a partire dall’Art.32 della Costituzione5.
Il suicidio invece, come gesto per definizione individuale, che spesso
cela le motivazioni nella sfera privatissima del proprio “sentire la
vita” fa cadere solo su se stessi, a volte rivendica6, la responsabilità di un’ uscita dalla dimensione collettiva.
Il suicidio non si svolge come “buona morte”, dovendo spesso far ricorso
per attuarsi a metodi violenti e dolorosi, contro se stessi ed il
proprio corpo, nella grande maggioranza dei casi.
La differenza, per inciso, si basa fondamentalmente sul persistere o no
di una rete di relazioni, di affido, a confronto coi limiti imposti
dalle leggi statali.
E’ proprio per questo che il libro sul suicidio, scritto dai libertari
Claude Guillon e Yves le Bonniec, scatenò le ire della maggioranza
benpensante francese, nel 19827:
la narrazione puntigliosa di tecniche di suicidio incruente infrangeva
quel divieto che pare essere sorpassabile solo con atti di masochismo
estremo in una società che ha concepito la vita umana come di proprietà
di Dio prima, poi del Sovrano o dello Stato, quindi del medico o dei
familiari.
Ancora oggi, se leggiamo le copie digitali del libro di Guillon “Le droit à la mort” (2004)8 troviamo censurati tutti i riferimenti a sostanze e dosaggi usati nei suicidi “incruenti”.
La censura della legge non vuole solamente vietare l’ “emulazione” sulla
base di fattori emotivi e psicotici (anche adolescenziali, il
cosiddetto goethiano “effetto Werther”) ma impedire la facilitazione ed
affermare lo stigma sociale.
Ciò nonostante siano attivi nella nostra società tanti modi di
“suicidarsi”: il ricorso a sostanze lentamente mortali con monopolio di
Stato, la guida spericolata dell’omicida-suicida, le armi da fuoco che
sparano colpi “accidentali”… viviamo totalmente immersi in una cultura
che vacilla tra enfasi sulla vita e autodistruzione.
Il tabù resta la scelta privata, consapevole e razionale della morte,
fondata sul riconoscimento di quel limite all’assurdo di cui Albert
Camus parla: “…l’assurdo nasce dal confronto tra la chiamata umana ed il
silenzio irragionevole del mondo”9.
Il suicidio resta quell’affronto alla sovranità (divina o statale) che
un tempo faceva negare le esequie cattoliche ai “peccatori non pentiti” e
la cui colpa pesava nell’immaginario collettivo… l’ eutanasia, invece,
non è più quell’onta che veniva condannata dalla morale cattolica: la
ribellione “luciferina” all’ imposizione della sofferenza per motivi
imperscrutabili di redenzione o per semplice ambiguità divina inizia ad
essere capita. Una lettera apostolica quale la “Salvifici doloris”
(1984) nella quale si teorizzava il dolore imposto al corpo come prova e
strumento di purificazione, ora parrebbe anche alla maggior parte dei
cattolici immotivata, involuta, solo un contro-altare dell’edonismo
reaganiano di un tempo. Un pronunciamento contro l’eutanasia come quello
dell’enciclica Evangelium vitae, sempre siglato da Karol Wojtyla nel
199510,
è ormai incompresa dal cattolico comune, non solo perché tarato sulla
real vita papale (il papa che ebbe un intero piano del policlinico
Gemelli a disposizione per la sua malattia) mass mediata e ideologica,
assolutamente non realistica per i comuni mortali.
Ciò anche se nel programma di “riforma” bergogliana della morale
cattolica resta inclusa la lettera “Samaritanus bonus” (luglio 2020),
che ancora ribadisce “atto gravemente immorale” la scelta di eutanasia
di un malato terminale e addirittura prefigura la possibilità, se tale
eutanasia viene rimandata, di poter intervenire per la conversione11.
Se una società laica, e peraltro fortemente individualista, ripensa il
tema della dignità del fine vita, lo fa riprendendo quindi uno scenario
antico.
Si pensi al gesto socratico di suicidarsi per senso di responsabilità verso se stessi e ciò in cui si crede12,
circondati dalle persone amate, da coloro cui si può ricordare di
pagare un debito in sospeso col dio Asclepio, “dopo aver cenato e dopo
aver bevuto molto bene”13.
Si pensi al Leopardi, primo moderno esistenzialista – del Frammento sul
suicidio -che riflette sul dissidio tra essere umano e natura. O al
suicidio con una placida e collettivamente autogestita overdose del
protagonista di Le invasioni barbariche (2003), o a quello della nonna
diabetica de “Mine vaganti”(2010), penso alla ricerca del buon vivere e
del buon morire.
Il suicidio ha dunque una dimensione ed una ragione private, impossibili
da raggiungere, e una dimensione politica, molto legata alla percezione
collettiva del corpo ed all’astrattezza del pensiero.
Torna attuale la riflessione di Leopardi14,
che ripropone il tema dell’immaginazione al potere contro una società
depressiva, anche prima del pensiero libertario francese. Quel pensiero
libertario che proprio la preziosa memoria storica di Claude Guillon
ricorda essersi dedicato alla “diritto di morire” già con Paul Robin15, e che suggerisce, retoricamente, una marea di cose da fare prima del suicidio (Avant de vous suicider… Caressez un projet / Faites le tour du monde en 8.880 jours/ Mêlez-vous de tout!…).
E’ certo che il confronto con la pandemia da Covid-19 ha
duramente messo in dubbio i principi a tutela della libertà individuale
rispetto alla gestione della nostra salute, ponendo in crisi da
emergenza tutto il sistema sanitario statale, obbligando ad un duro
confronto con la nostra responsabilità sociale senza dare ai cittadini
gli strumenti necessari per gestirla. Ciò ha causato un aumento
esponenziale della paura e della insicurezza delle persone più
vulnerabili16, ed il terrore della segregazione sanitaria.
In questo periodo ha scelto di andarsene Paolo Finzi, ponendo fine alla
sua vita di anarchico utopista che ha reso realtà una rivista anarchica,
A rivista, col suo essere profondamente non violento, “energico e
mobile”, al suo lavoro di cura delle idee e degli ideali, le “illusioni”
di cui scrive Leopardi… “La filosofia ci ha fatto conoscer tanto che
quella dimenticanza di noi stessi ch’era facile una volta, ora è
impossibile. O la immaginazione tornerà in vigore, e le illusioni
riprenderanno corpo e sostanza in una vita energica e mobile, e la vita
tornerà ad esser cosa viva …o questo mondo diverrà un serraglio di
disperati, e forse anche un deserto”.
di Francesca Palazzi Arduini
collaboratrice da fine anni ’80 di A rivista anarchica, per la quale si è
occupata di politiche vaticane e morale cattolica, diritti civili,
femminismi.
Articolo pubblicato su Non Mollare – Critica LIberale del 07/12/2020
1 Vedi il suicidio del grande regista Mario Monicelli, nel 2010, ricoverato in ospedale a 95 anni per un tumore.
2 Da ricordare innanzitutto le ricerche sul campo della dott. Elisabeth Kübler-Ross, autrice de La morte e il morire (1976), Cittadella editrice, Assisi, 2017
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