Conversazione con Piero Cipriano, “psichiatra riluttante”

Leggendo la tua ricostruzione della storia del Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders fino al DSM-5, manuale diagnostico sostanziale accettato e applicato acriticamente a livello mondiale, si ha la netta impressione di avere a che fare con l’ennesimo pacchetto normativo che si impone sull’umanità dettato da agenzie internazionali (come la World Health Organization) o da lobby che finiscono, di fatto, per dettar legge a livello internazionale (come l’American Psychiatric Association). Si tratta di agenzie che impongono a livello globale una precisa visione del mondo, in questo caso inerente alla salute/malattia degli individui, in strettissimi rapporti con un altro potentato sovranazionale: la lobby dell’industria farmaceutica.
Insomma, al lungo elenco di agenzie economiche e politiche internazionali che determinano la nostra vita – International Monetary Fund, World Bank, Goldman Sachs, European Union, United Nations, European Central Bank ecc. -, possiamo aggiungere anche agenzie ed associazioni come la World Health Organization e l’American Psychiatric Association con la loro bibbia diagnostica… Cosa ne pensi?
[pc] Sì, direi che è
così. Una serie di etichette, da quelle mediche a quelle psichiatriche a
quelle giudiziarie a quelle sociologiche, determinano una sequenza di
percorsi terapeutici, rieducativi, riabilitativi, punitivi, espulsivi, a
cui è sempre più difficile sottrarsi. Una società nosografica, che per
forza di cose poi diventa società terapeutica: siamo anormali, dobbiamo
curarci. Come? Coi farmaci, per lo più. Eccoci dunque in questa era
della farmacocrazia.
[ght] Nel tuo La società dei devianti si
parla dell’urgenza di intraprendere una campagna per l’abolizione delle
fasce di contenzione. Tale campagna, oltre che a fare pressione sui
politici affinché si arrivi all’abolizione di tale pratica, deve
necessariamente raggiungere l’opinione pubblica mettendola al corrente
della pratica della contenzione e di quanto sia ancora diffuso il
ricorso ad essa. Informare l’opinione pubblica comporta un’estensione
della responsabilità; un’opinione pubblica sensibilizzata a proposito
del ricorso a tale pratica costrittiva dovrebbe sentirsi in dovere di
farsi carico della questione. La difficoltà maggiore mi sembra quella di
individuare le modalità con cui raggiungere la gente comune in una
realtà che vede i media interessati a tutto ciò che riguarda il disagio
mentale solo quando ad esso è possibile imputare qualche forma di
violenza particolarmente cruenta. Non di rado nel trattare tali episodi i
media danno voce a una sempre meno celata “nostalgia di manicomio”.
Sicuramente scriverne è importante e da questo punto di vista la tua
“Trilogia della riluttanza” può essere considerata un ottimo contributo
alla denuncia ed all’informazione così come tutte le iniziative di
presentazione dei libri può essere utile a sensibilizzare l’opinione
pubblica. Cos’altro si può fare di concreto, a tuo avviso, per
supportare la campagna contro la contenzione?
[pc] Bella domanda.
Che mi fai proprio in un momento in cui questa campagna, per slegare i
cristi in croce legati nei luoghi non solo della psichiatria ma
dell’intera medicina, un po’ langue, boccheggia, stenta. Perché stenta?
Perché lo sapevamo che era un’iniziativa difficile, lunga, piena
d’insidie, e che chi, come me, si esponeva (sono uno psichiatra che è
contrario alle fasce e ne chiede l’abolizione, che tuttavia continua a
lavorare in un reparto dove vengono, anche se sempre di meno, ancora
adoperate), rischiava molto. Perché le fasce sono economiche. Sono
comode. Sono facili, semplici. Non comportano il difficile esercizio del
pensiero (per dirla con Hannah Arendt). Non comportano mettersi più di
tanto in discussione. Basta un po’ di rimozione, o l’abitudine,
abituarsi alla pratica, anche a torturare il torturatore in fondo si
abitua (leggersi Notturno cileno o Stella distante, di
Bolaño, per esempio), dopo essere stato opportunamente inziato.
Difficile è sbarazzarsi delle fasce e domandarsi: e ora?, come faccio a
relazionarmi con quest’uomo, o questa donna, o questo adolescente, o
questo vecchio, o questo cocainomane, o questo ubriaco, che si agita,
che mi aggredisce? Lì è la sfida. Invece ci addestrano a fare i
legatori. Leghiamo l’umanità! E dopo averla legata (e torno alla tua
domanda di prima) con le etichette diagnostiche che t’incanalano per
sempre in percorsi obbligati, dopo averla legata con molecole che ti
gessano i pensieri, te li paralizzano, o viceversa ti esaltano
innaturalmente le emozioni, dopo averla legata con contenitori e luoghi
d’ogni sorta, se tutto ciò non basta, per i più indomiti recalcitranti
riluttanti, ecco il legamento più primitivo, e però più sicuro: le
fasce.
Le fasce, come gli altri legamenti
che le precedono, sono entrate ormai nel nostro immaginario, nelle
prassi, in ospedale, tra gli addetti ai lavori, medici infermieri
ausiliari psicologi ma anche tra i famigliari, ne troverai pochi che si
scandalizzino. Lo scandalo, al contrario, lo procuriamo noi che
proponiamo l’abolizione delle fasce. Siamo noi, i medici infermieri
psicologi che contestano i legamenti a essere scandalosi, e dunque
pericolosi, con questa nostra iniziativa velleitaria. La follia è
pericolosa, il matto è da legare, e anche solo proporre l’eliminazione
di questo millenario strumento per gestire la follia è scandaloso, ed è
pericoloso.
Per questo la campagna per abolire la contenzione si profila come un modo per continuare a contestare la manicomialità. Mettendo in discussione, stavolta, non solo il manicomio civile o quello giudiziario, ma proprio l’ospedale generale, l’intera medicina dunque. Per cui, cosa si può fare?, mi domandi.
Per questo la campagna per abolire la contenzione si profila come un modo per continuare a contestare la manicomialità. Mettendo in discussione, stavolta, non solo il manicomio civile o quello giudiziario, ma proprio l’ospedale generale, l’intera medicina dunque. Per cui, cosa si può fare?, mi domandi.

[pc] Sottoscrivo ciò
che dici. Ci siamo tutti rassegnati e consegnati al potere/sapere degli
psichiatri, che nell’arte della manomissione delle parole, per dirla
con Carofiglio, sono dei veri talenti. Hanno suddiviso il grande
contenitore della follia in più di trecento partizioni, come a dire che
oggi nessuno più è folle, ma nessuno più può dirsi del tutto normale,
tutti noi abbiamo almeno due tre diagnosi possibili, ormai. Diagnosi che
accettiamo passivamente, supinamente. Anzi, siamo a tal punto acritici
che talvolta ci presentiamo e ci raccontiamo con quella diagnosi, io
sono un borderline, io sono un bipolare, poco ci manca che le mettiamo
perfino nel nostro biglietto da visita: Mario Rossi, depresso. Le
diagnosi psichiatriche ristrutturano la nostra identità, un po’ come
accade per i segni zodiacali, con la differenza che i segni zodiacali
lasciano il beneficio del dubbio (non è roba scientifica, per quanto
suggestiva), le diagnosi psichiatriche invece non lasciano dubbi, perché
sono opera di scienziati della mente (è scienza, insomma).

[pc] Assolutamente
sì. Lavoro in un reparto dove ci sono minimo dodici persone ricoverate.
Tre infermieri non bastano, non possono bastare. Però il numero fa la
differenza, ovviamente. Se già con
tre-infermieri-che-non-vogliono-legare è possibile non legare le
persone, per mia esperienza, figuriamoci con sei (se quei sei vogliono
non legare). E’ ovvio che se invece ti trovi con
infermieri-che-vogliono-legare, anche con dodici (potendoti dunque
permettere un rapporto uno a uno) leghi le persone, non si sfugge.
Discorso a parte per i medici. I medici sono coloro che, in fin dei
conti, decidono se legare o non legare. I medici, per mia esperienza,
più sono e meno decidono. O meglio, più sono e meno sono coraggiosi, e
più si nascondono dietro le fasce. E più legano. Ma perché legano? Non
lo so. A me pare che la maggior parte dei medici abbiano più
dimestichezza con i libri, con le diagnosi, con i farmaci, con le
molecole, che con le persone in carne e ossa. Sarà per la lunga
formazione a cui sono stati sottoposti, formazione medica che invece di
avvicinarli alle persone li allontana, che in qualche modo li
disumanizza, apprendistato che gli fa perdere di vista la persona, che
li addestra quasi esclusivamente allo studio del caso (clinico), caso
(clinico) che diventa cosa. Oggetto. E qui torna attuale Franca Ongaro
Basaglia quando ci ricorda che la medicina si forma sul corpo morto, e
il medico impara a conoscere l’uomo vivo (malato) studiando il cadavere
nelle aule di anatomia patologica, e memore di questo debito tende, il
medico, sempre, a ricondurre l’uomo vivo (malato), a corpo morto,
disteso sul letto d’ospedale, allettato, clinico, esanime, o coi farmaci
o con le fasce.
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